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Il Segreto della Pergamena
Il Segreto della Pergamena
Il Segreto della Pergamena
E-book301 pagine3 ore

Il Segreto della Pergamena

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Info su questo ebook

Nella Francia del regime di Vichy, il 29 agosto 1942, a Lione, più di cento minori ebrei vengono sottratti con uno stratagemma al campo di prigionia di Vènissieux dove, insieme ai loro genitori, sono in attesa di essere deportati ad Auschwitz. In un ambiente storico fedelmente ricostruito nei dettagli, la vicenda di uno di questi bambini si snoda come un thriller, tra sopravvivenza e nascondimenti. Mentre il popolo francese è diviso tra eroi e collaborazionisti, l’ispettore di polizia che lo inseguirà a lungo dovrà confrontarsi con l’obbligo di obbedienza alle leggi razziali ma, soprattutto, con la propria coscienza. Lo stesso percorso coinvolgerà il lettore, fino a una conclusione impensabile e indimenticabile.
LinguaItaliano
Data di uscita19 ago 2016
ISBN9788892622142
Il Segreto della Pergamena

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    Anteprima del libro

    Il Segreto della Pergamena - Paolo Masile

    conoscerla

    Capitolo I

    Rue Roger Salengro è una dignitosa ma anonima strada di quasi periferia di Lione. Il suo compito principale consiste nell’alleggerire il traffico che, provenendo dalla Gare de Vaise, si dirige verso il centro attraverso il Pont Clemenceau.

    Nel 1951 non solo mancava ancora il ponte nuovo, ma anche molti dei palazzi che oggi la chiudono in un piccolo universo popolato da alberi alti e magri che in primavera si protendono verso il centro della via a contendersi con le foglie nuove il cielo libero. La strada era contornata da ampi macchioni di pioppi alternati a tratti di terra grassa e nera che nutriva fitte coltivazioni di granoturco. In settembre, gli steli residuati dalla raccolta delle pannocchie davano alla Rue Salengro, allora ricoperta da uno spesso strato di terra battuta e pietrame bianco, un contorno di colore verde marcio e marrone bruciato, che tremolava quando si rifletteva nelle pozzanghere che le prime piogge d’autunno formavano nelle buche rimaste sul terreno dai bombardamenti del ‘44.

    Le case, poche e basse, presenti a quel tempo, si alternavano ai ruderi causati dalle bombe da cui spuntavano travi di legno scuro fradice e annerite come dita lanciate verso il cielo in un atteggiamento di supplica o di maledizione.

    Un solo bistrot degno di questo nome esponeva la sua insegna su quest’abbozzo di via. Il proprietario aveva disposto alcuni tavolini sotto un pergolato di uva bianca i cui grappoli carichi ostentavano chicchi dorati quasi maturi e si muoveva cerimonioso tra di loro, rivestito di un lungo grembiale beige.

    Jean si lasciò cadere su una sedia di ferro all’unico tavolo ancora libero. Si tolse la giacca che depose, accuratamente ripiegata, sulla seggiola accanto e sul fagotto depose il cappello di feltro, infilandoci sotto con un gesto rapido l’oggetto che aveva estratto dalle ampie tasche dei pantaloni. Il padrone si avvicinò per raccogliere l’ordinazione bilanciando un vassoio con caraffa e bicchieri. Aveva corti baffetti e i radi capelli neri erano accuratamente impomatati e quasi incollati sulla testa perfettamente sferica e Jean notò che, sotto la pancia prominente, visto da vicino il grembiule dell’oste mostrava in più punti scure macchie di vino.

    Ordinò un sandwich jambon-beurre e una tazza di caffè lungo, all’americana disse, strappando un ammicco di disapprovazione ai baffi del padrone. Chiese anche un bicchiere d’acqua fresca che l’altro gli lasciò sul tavolo con un gesto rapido. Il ragazzo ne bevve subito una buona metà con godimento da assetato e con apparente noncuranza si guardò intorno.

    Due gendarmi percorrevano lentamente il marciapiede opposto, osservando con attenzione i passanti. In qualche caso avevano anche fermato giovani uomini che squadravano con sospetto mentre richiedevano loro i documenti. Jean trasse dalla tasca della giacca un quaderno e una matita che pose in bella vista sul tavolino e inforcò dei pesanti occhiali da vista fingendosi interessato a scrivere con rapidità sul foglio bianco.

    Con la coda dell’occhio scorse i due attraversare la strada e dirigersi verso il bistrot, ma non mutò la sua espressione intensa e concentrata sulla scrittura e accolse con un sorriso tranquillo l’oste che gli serviva il panino con il caffè. I gendarmi valutarono con occhi esperti le coppie sedute ai tavoli e si diressero decisi verso di lui.

    «Buongiorno signore. Documenti per favore!» Fece con voce secca il più anziano munito di gradi rossi sulla spalla.

    Jean gli rivolse un sorriso miope e un tantino meravigliato, poi biascicò un «Certamente...», in cui si curò di mettere un pizzico di apprensione.

    Con le mani in bella evidenza raccolse la giacca, facendo scivolare sul ripiano della seggiola il cappello con l’oggetto che vi aveva nascosto all’interno. Esibendo una nota di nervosismo, frugò con enfasi in tutte le tasche della giacca lasciando per ultima quella in cui sapeva di avere la carta d’identità che porse poi al gendarme con un sorriso imbarazzato. Questi, che aveva atteso con i pollici infilati nell’ampio cinturone e scrutandolo paziente ma indagatore, la scorse rapidamente, diede un’occhiata al ragazzo e al quaderno ripieno di una fitta calligrafia e, mormorando un grazie tra i denti, si volse intorno a cercare il prossimo sospetto.

    Il sandwich era buono pensava Jean mentre, masticando con vigore, allentava la tensione che gli si era accumulata dentro, ma ancor più apprezzò il caffè che gli scese in gola caldo e zuccherino, dandogli la sensazione di poter deglutire anche gli attimi di paura.

    Quando percepì che i militari erano ormai fuori vista, chiuse con cura gli occhiali dalla pensante montatura e, con lo sguardo finalmente a fuoco, allungò un braccio a recuperare ciò che aveva posto sotto il cappello.

    Era un grosso portafoglio marrone con qualche macchia oleosa, consunto negli angoli dove la pelle mostrava un biancore rugoso. Tenendolo accuratamente sotto il piano del tavolino, Jean lo aprì con una sola mano e, con occhio esperto, trasse fuori dalla lunga tasca centrale tre biglietti da cento e due da dieci franchi che ripiegò e infilò nel calzino del piede destro.

    Continuando a masticare con soddisfazione e a tuffare le labbra nella tazza del caffè, la sua mano destra proseguì nell’esplorazione del portafoglio. Estrasse una carta d’identità scolorita dal tempo che mostrava la foto dell’uomo di mezza età, provvisto di un paio di baffoni che gli avevano ricordato vagamente il ritratto di Stalin, dalla cui tasca lo aveva sottratto tra la folla che scendeva in fretta dal treno. Trovò vari pezzi di carta con note per lui senza senso, una tessera di un circolo di bocciofili e un abbonamento ferroviario per la tratta Lione-Parigi.

    Aveva appena finito la sua ricognizione quando vide l’oste ritornare verso il tavolo. Lo chiamò con un cenno, abbandonando per un attimo l’oggetto in grembo sotto il piano del tavolino e conteggiò le monete del conto.

    Quando quello volse le spalle, il portafoglio era nuovamente scivolato nella tasca dei pantaloni e fu allora che Jean, sfiorandone la pelle sul retro, sentì sotto i suoi polpastrelli allenati che qualcosa era stato infilato sotto il pellame esterno. La prima dote di un buon ladro, come quella di un poliziotto, diceva spesso tra sé, è la curiosità. Così sfiorò ancora la superficie del portamonete, accertandosi che qualcosa giaceva lì, sotto tra la spessa pelle marrone esterna e il pellame beige più leggero che ne foderava l’interno.

    Al tavolino non poteva fare di più. Si fece indicare dall’oste la toilette, dove si chiuse accuratamente dentro.

    Aprì il portafoglio e, osservandolo con più attenzione, notò che la cucitura interna era stata ripassata in modo grossolano con un filo di colore leggermente diverso. Si sfilò la scarpa destra recuperando la lametta da barba che teneva sempre nascosta sotto il tallone e con questa incise il pellame.

    Estrasse una fotografia, ingiallita dal tempo e di piccole dimensioni, che a Jean ricordò i santini che i questuanti distribuivano sui gradini della cattedrale della città. Nella stampa, una donna rivestita di una lunga gonna come si usava fino agli anni venti, stava seduta su uno sgabello con due bambine in braccio.

    Dall’abito identico si deduceva che erano gemelle, cosa confermata dalla presenza sullo sfondo della foto di un’antiquata carrozzina per bebè a due posti. Un uomo, che indossava una divisa scura e un cappello militare, stava in piedi dietro le tre e guardava fisso l’obiettivo con uno sguardo duro e intenso.

    Jean aveva sperato in qualcosa di più, per cui, ficcandosi il portafoglio sotto l’ascella si preparò a tagliare la piccola foto e a eliminarla nel gabinetto ma, voltandola, poté leggere scritto a matita: Paris. 34, R. du pet. Louv. e nella riga sottostante: D 3457 S 7784 D 7548.

    Sollevò un attimo lo sguardo incontrando il desolante panorama dello sciacquone sporco e incrinato: sapeva bene di aver appena letto la combinazione di una cassaforte.

    Capitolo II

    Claire si svegliò di colpo con la sicurezza di aver udito un forte rumore e la sensazione che qualcuno la stesse spiando. Sentì sulla bocca, diventata improvvisamente secca, il contatto ruvido del lenzuolo che rivestiva la pesante coperta di lana e, terrorizzata, si costrinse a stare ferma, con tutti i sensi all’erta nel buio.

    Il rumore si ripeté come il rotolio veloce di una ruota dentata mentre due occhi felini si muovevano lentamente verso il soffitto.

    «Rousseau!», bisbigliò allora la donna con un sospiro di sollievo e di sonno, afferrando per la collottola il gatto che era balzato sul letto.

    «Ancora quel topo nella mansarda...» continuò, alzandosi a mezzo nel letto e accendendo il lume sul comodino.

    La debole luce giallastra si fece strada tra i fili perlinati che piovevano dal vecchio abat-jour e illuminò un gatto grigio che si era bloccato in posa sulle coperte e spiava il soffitto come se la sopravvivenza intera della sua razza fosse legata alla cattura del topo che viveva al piano di sopra.

    «Povero caro,» sussurrò la ragazza afferrando l’animale e baciandolo sulla fronte, «quel topolino sta diventando la tua ossessione...». Sistemò il gatto coprendolo con un lembo della coperta, spense la luce e si distese nuovamente a letto gustando la tiepida morbidezza di quel corpicino accanto a sé. Il rotolio sul soffitto continuò ancora per un poco strappando qualche spasmo muscolare all’animale.

    Claire rimase distesa nel buio. Aveva letto sulla sveglia l’orario, le tre e venti del mattino, e con ansia pensò al suo turno di lavoro all’agenzia delle pulizie che sarebbe iniziato dopo meno di quattro ore.

    Uno spicchio di luce dell’illuminazione stradale filtrava tra il telaio della finestra e lo scurino e disegnava una L sul muro di fronte che divenne sempre più evidente man mano che i suoi occhi si abituavano al buio della stanza.

    L come Lestradet, pensò. Il cognome del suo Jean...

    L’aveva conosciuto sei mesi prima, al ritorno dal suo turno di lavoro. Lei aveva preso il tram al Palazzo di Giustizia in rue Servient e, stanca dalla mattinata di pulizie negli uffici polverosi, aveva conquistato un posto a sedere vicino al finestrino accanto a un giovane distinto che leggeva il giornale attraverso spessi occhiali da miope. Si era goduta lo sferragliare del vagone fino al molo Bernard e, dopo la curva dell’università, il Rodano si era offerto alla sua vista.

    Era una tiepida giornata d’inizio primavera e il sole riusciva a strappare perfino qualche riflesso azzurro al fiume di norma grigio e solenne. Claire si era voltata verso il finestrino per godere dei colori della città e sicuramente doveva essere accaduto in quel momento, ma lei non se ne era accorta.

    Era scesa all’ospedale di San Giuseppe, dove doveva far visita a una vecchia zia ricoverata. Stava chiedendo informazioni alla suora in portineria, quando lo vide arrivare trafelato e quasi di corsa con il suo portafoglio in mano. Lo riconobbe anche senza i pesanti occhiali: era il giovane ben vestito che sedeva accanto a lei sul tram e, con un sorriso smagliante e la cravatta e il ciuffo nero all’aria, le porgeva la custodia.

    «Signorina,» esordì lui con voce un poco ansimante, «credo che sul tram abbia perso questo!»

    Le porse un borsellino beige e Claire, abbassando lo sguardo, si rese conto che la sua borsetta era aperta.

    «Grazie,» rispose stupefatta. «Non so come ho fatto, ma oggi sono più sbadata del solito...», concluse con un sorriso imbarazzato, ricevendo il suo portafoglio.

    La suora, dietro il fortino del suo abito candido, ritenne opportuno intromettersi: «Per fortuna l’onestà esiste ancora!» sentenziò con voce tagliente.

    Claire d’impulso aprì lo scomparto delle monete e prese quelle più importanti che le riuscì di trovare, porgendole al ragazzo con un sorriso di scusa.

    «Non c’è molto ma, la prego, accetti almeno questi.».

    «Ci mancherebbe signorina. Per me è stato un dovere e anche un piacere» replicò lui con un sorriso fascinoso, togliendosi per un attimo il cappello e ravviandosi con le dita il ciuffo nero.

    In seguito Claire avrebbe ricordato per sempre quel gesto e, come in un film, poteva avere presente nei minimi particolari i radi baffetti, le ciglia folte, le labbra ampie e sottili che richiudevano un lieve riflesso violaceo e i folti capelli neri che trasudavano la salute incosciente della gioventù, insieme a qualche traccia di brillantina.

    Gli zigomi alti davano un’aria un tantino spavalda al volto maschio i cui occhi, quasi divertiti, erano spalancati sulla novità di chi, a vent’anni, si affaccia al mondo con tutta la vita davanti a sé.

    Il ragazzo indossò nuovamente il cappello, sistemò con garbo il piccolo nodo della cravatta nera nel colletto un poco spiegazzato e con un sorriso soddisfatto e un cenno del capo quasi militare, si congedò dalle due donne con passo elastico e sicuro.

    Queste lo seguirono inconsciamente con occhi di desiderio mentre la figura si allontanava nell’ampia portineria tirata a lucido, e infine la suora, schiarendosi la voce, si rivolse alla ragazza in modo brusco, come per rimediare a una sua mancanza: «Oculistica mi ha chiesto? Al secondo piano.»

    «La avverto che a quest’ora le cataratte stanno pranzando!» urlò ancora dietro a Claire che iniziava la salita dei bianchi scalini di marmo.

    Si erano rivisti alla fermata del tram e la ragazza comprese subito che l’aveva attesa, ma solo dopo qualche tempo capì che era stato lui a rubarle il portafoglio dalla borsetta e a restituirlo quando si era reso conto che non conteneva che poche monete...

    Nel buio i rumori si amplificavano e si rese conto che stava venendo giù una pioggia sottile. Il gatto ora ronfava tranquillo vicino a lei e anche il topolino del piano di sopra aveva smesso il suo andirivieni quasi che nella notte fosse stato firmato un armistizio tra le due specie animali.

    Claire si aggiustò nel letto causando il lamentoso cigolio di alcune molle del materasso. Certo non era il letto del Grand Hotel di Cherbourg, in Normandia, dove lui l’aveva portata un mese dopo il loro incontro. Lì, Claire aveva conosciuto il mondo fatato fatto di colazioni principesche, camerieri in guanti bianchi e riverenze mentre, sottobraccio a Jean percorreva i corridoi solenni e sfarzosi sentendosi una regina.

    Era stata una settimana indimenticabile e i ragazzi avevano passato ore intere seduti sulle rocce a contemplare il profilo lontano della costa inglese, sognando ad occhi aperti quella terra. Le alghe verdi e marroni abbandonate dalla bassa marea, prosciugandosi all’aria esalavano il loro sentore penetrante che i due aspiravano come un presagio di mondi nuovi e di avventura, l’avventura della vita insieme che a quel tempo pareva senza fine.

    Era stata la presenza della polizia nell’hotel, al loro ritorno, che aveva fatto sorgere i primi dubbi a Claire.

    Durante la notte, uno dei clienti era stato derubato di un’importante somma di denaro e Jean fu interrogato e scrutato con severo sospetto dall’ispettore incaricato dell’indagine. Claire, che aveva assistito al colloquio, si era stupita del tono brusco usato dall’investigatore, ma soprattutto aveva notato come Jean avesse, anche a costo di qualche bugia, coinvolto la presenza della ragazza per giustificare alcuni suoi spostamenti.

    Nonostante tutto lei era stata al gioco perché lo sguardo quasi implorante di lui l’aveva costretta a mentire più volte. Come Dio volle quella tortura ebbe una fine e i due furono lasciati liberi di tornare in camera.

    Quando Jean chiuse la pesante porta della sua stanza, Claire, che si era preparata un fuoco artificiale di domande, gli si avvicinò decisa, ma lui fece volare il cappello sul letto e, ponendo l’indice sulle labbra, chiuse le imposte e le andò incontro in silenzio. La strinse tra le braccia posandole gentilmente la mano sulla bocca e, spostando come una carezza le dita, tramutò quell’abbraccio in un lungo, appassionato e silenzioso bacio.

    L’incerta resistenza di Claire si trasformò ben presto in un languore struggente e la ragazza si lasciò trasportare in un mondo liquido di passione irrazionale, dove il suo corpo desiderava unicamente annullarsi nell’altro.

    Emersero ansimanti da quella stretta e Jean, prendendola per mano e guidandola nella semioscurità, sempre in silenzio la condusse al ripiano dove aveva sistemato la sua valigia; la aprì e, frugando abilmente tra due invisibili strati del pellame, ne estrasse cinque banconote da diecimila franchi.

    Poi le rivolse uno sguardo triste e supplicante.

    «Adesso sai tutto, » le sussurrò con voce roca all’orecchio mentre la abbracciava nuovamente con l’angoscia di poterla perdere per sempre in quel momento «e, se vuoi, puoi raccontarlo alla polizia... Ma non giudicarmi finché non conoscerai la mia storia».

    Claire sentì vagamente la voce del commissario che passava nell’andito del Grand Hotel; scrutò a lungo gli occhi di Jean nella semioscurità e infine abbassò il capo sul petto del ragazzo, sentendone il ritmo veloce del cuore.

    Capitolo III

    Il calice di Beaujolais nouveau riluceva di misteriosi riflessi violacei che donavano al contenuto un vago ricordo di chicchi di melagrana. Bernard strinse lo stelo del bicchiere facendolo roteare dolcemente, mentre aspirava voluttuosamente il profumo emanato dal piccolo vortice creato nel vino rosso.

    Ecco, pensava, ciò che manca al vino novello è quel profondo aroma di antico che solo una buona botte può creare nel suo paziente e lungo contatto con il frutto della vite.

    In fondo, continuò tra sé, la natura cerca la vicinanza di se stessa e, per un motivo misterioso, il succo spremuto dal chicco d’uva ama il senso di sicurezza che solamente il solido legno può infondergli.

    Sorbì un lungo sorso di vino che con perizia fece passare sulle papille gustative ai lati e sul retro della lingua. Questa schioccò gentilmente sul palato per identificare gli aromi nascosti: un bouquet di frutta fresca e matura con un retrogusto di albicocca e un ricordo di fragola. A un secondo sorso scosse la testa dubbioso e, quando l’oste si avvicinò a depositare sul tavolino un piattino fumante di caldarroste: «Gèrard», gli disse bonario ma deciso. «Dovresti saperlo. Il novello non è per me... Portami un calice di Côtes du Rhône».

    «Ci tento ogni novembre,» gli rispose quello, ritirando il bicchiere semivuoto con un sorriso indulgente.

    «Aggiungi una zuppa di cipolla e una fetta di Saint-Marcellin» gli gridò dietro Bernard, voltandosi sulla seggiola.

    La botte è come un utero tenebroso, continuò a rimuginare tra sé soddisfatto quando il nuovo calice fu posato sulla tovaglia emanando il suo superbo colore rosso rubino e il vino che matura nel buio ha bisogno del nutrimento, della dolcezza e della protezione che solo il buon legno di rovere sa infondere.

    Masticò un trancio di baguette per togliersi dalla bocca il sapore del novello e, pregustandone il piacere, avvicinò alle labbra il bicchiere.

    Fu così che, rialzando lo sguardo, vide il bambino.

    Poteva avere sette anni ed era seduto al tavolo con quello che doveva essere suo padre. Era chiaro, con capelli lisci e biondi. Le ginocchia emergevano rossastre dai pantaloni corti mentre uno solo dei calzettoni di lana riusciva a rivestire completamente il polpaccio e l’altro si accasciava sulla polacchina sinistra come se si fosse stancato dei tentativi di stare su. La camicia a quadretti era abbottonata fino al collo e una giacchina di lana, che doveva aver rivestito più di un fratellino, aveva il compito di tener caldo il corpicino esile e irrequieto.

    Sorbiva poco convinto e a lente cucchiaiate la minestra, mentre il padre era intento a divorare un piatto colmo di trippa e cardi gratinati.

    Un contadino dei dintorni, venuto a Lione per qualche incombenza, si è portato dietro il figlio piccolo per mostrargli la città decise tra sé Bernard con la sua inconsapevole impostazione di poliziotto. Si chinò sulla zuppa calda arricchendola di pezzetti di pane tostato e, al primo cucchiaio, incontrò lo sguardo del ragazzino. Era sceso dalla sedia lasciando il padre alle prese con il piatto e si guardava intorno serio e curioso in quell’ambiente pieno di adulti, guardando verso il tavolo di Bernard come sorpreso che qualcuno

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