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Il segreto del Titano: una nuova avventura dell'ispettore capo Renzo Parodi
Il segreto del Titano: una nuova avventura dell'ispettore capo Renzo Parodi
Il segreto del Titano: una nuova avventura dell'ispettore capo Renzo Parodi
E-book318 pagine4 ore

Il segreto del Titano: una nuova avventura dell'ispettore capo Renzo Parodi

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Info su questo ebook

L’ispettore capo Renzo Parodi e il sovrintendente Salvatore Marotta arrivano sul luogo di un apparente suicidio. Il morto è Moses Babatunde, un bravo ragazzo, originario della Nigeria come Renzo, la cui vita sembrava prossima a una svolta positiva importante. L’ispettore capo ha molti motivi per sentirsi coinvolto e la scena del crimine presenta alcuni punti oscuri. Ma niente lascia presagire l’enormità degli sviluppi dell’indagine.
LinguaItaliano
Data di uscita23 nov 2020
ISBN9791280184320
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    Anteprima del libro

    Il segreto del Titano - Giovanni Barlocco

    RINGRAZIAMENTI

    colophon

    Giovanni Barlocco

    IL SEGRETO DEL TITANO

    isbn 9791280184320

    © 2020 by All Around srl

    I edizione novembre 2020

    redazione@edizioniallaround.it

    www.edizioniallaround.it

    In copertina: illustrazione di Chiara Cazzato

    Il segreto del Titano

    una nuova avventura dell'ispettore capo Renzo Parodi

    Stammi di nuovo a sentire, amico... andiamo ancora un po’ più a fondo. Tutti gli oggetti visibili non sono altro che maschere di cartapesta. Però, in ogni evento – in un atto reale, in un’azione indubbia – lì, un essere sconosciuto, ma comunque razionale, preme da dietro la maschera irrazionale, imprimendovi le proprie fattezze. Se l’uomo vuole colpire, allora che il suo ferro trapassi la maschera!

    herman melville , Moby Dick

    Il segreto del Titano

    Il primo stava, da più di tre settimane, nudo e freddo, steso in una cella refrigerata dell’obitorio.

    Ahmed era un piccolo spacciatore, l’avevano colpito con una dozzina di coltellate, inferte da due lame diverse. Per sicurezza, l’avevano anche sgozzato, poi se ne erano andati, lasciando il morto a terra, in mezzo al caroggio.

    Quando i poliziotti dell’antidroga avevano perquisito il monolocale in cui viveva solo, l’avevano trovato stranamente pulito. Neanche un grammo di sostanza stupefacente.

    La salma ricucita di Ahmed aveva smesso di patire la solitudine una settimana dopo, raggiunta da quella di un collega, certo Zampetto Salvatore, anche lui minuscolo terminale del traffico di stupefacenti. In vita era stato un personaggio viscido e sfuggente, tanto che la sua vigliaccheria ne aveva fatto un occasionale informatore, in cambio di qualche opportuna dimenticanza degli inquirenti.

    A lui avevano spaccato la testa e destrutturato il volto, non lontano dalla sua zona abituale di spaccio, infierendo con un corpo contundente, probabilmente una mazza da baseball.

    La poltiglia sanguinolenta in cui erano stati ridotti i tratti del viso era stata ricomposta al meglio dal medico legale ma, senza i documenti di identità e le impronte digitali, il riconoscimento del cadavere sarebbe stato comunque difficile.

    Gli agenti assegnati al caso non furono troppo sorpresi delle modalità di quell’omicidio, che descrivevano bene la rabbia dell’assassino. Uno così, che pareva portato geneticamente alla slealtà e alla delazione, suscitava parecchie antipatie ovunque ed era difficile che potesse sopravvivere nel suo mondo, senza un’adeguata protezione.

    Quello che mise in allarme fu la testimonianza della vecchia madre del soggetto, la quale sostenne che, nella stessa notte in cui era stato ucciso suo figlio, tre individui con il volto coperto avevano fatto irruzione nella casa che condivideva con lui, l’avevano legata e imbavagliata e, senza dire una parola, avevano cominciato a buttare all’aria le stanze, come se cercassero qualcosa, per poi uscire dalla camera da letto di suo figlio con dei contanti, un pacchetto e un paio di orologi in mano, cose di cui lei ignorava l’esistenza.

    Una successiva perquisizione rivelò che, anche nella tana di questo spacciatore, non esisteva traccia di droga.

    Il terzo omicidio, tre giorni dopo, confermò definitivamente l’esistenza di un modus operandi comune.

    Anche in questo caso la vittima era uno spacciatore, un nigeriano soprannominato Bokassa e, nonostante fosse stato ucciso da tre colpi di arma da fuoco nel suo letto, i suoi genitali, amputati mentre era ancora vivo, riconducevano all’efferatezza degli altri due delitti e, soprattutto, le poche tracce di cocaina rinvenute sul pavimento, unite alla casa messa a soqquadro e alla mancanza di quantità più cospicue di sostanze stupefacenti, fecero pensare che gli assassini dei tre spacciatori cercassero tutti la stessa cosa, anche se sembrava avere poco senso l’idea che qualcuno si dedicasse a esecuzioni tanto efferate solo per rapinare i pusher della loro merce.

    In ogni caso, roba del genere, in città, non si era mai vista e, da quel momento in poi, polizia e media entrarono in fibrillazione.

    La prima teoria plausibile fu quella di un brusco cambiamento degli equilibri nel mercato della droga: organizzazioni nuove e aggressive cercavano di scalzare quelle vecchie; per questo non contavano più alleanze e protezioni. Sembrava cominciata anche qui una guerra che i genovesi, fino a quel momento, avevano visto solo nei film.

    – 1 –

    Passava poca luce dalla finestrella in alto che dava sul caroggio . Il locale in penombra era di grandezza media, per una stanza, ma piccolo per un’abitazione ricavata da una vecchia cantina; una tenda rossa, alla parete di fronte, nascondeva una nicchia in cui trovavano posto un water, una doccia e un minuscolo lavandino.

    Nel corso dei secoli, di sicuro, quel luogo era stato un deposito per materiali più disparati, fino a ospitare, in tempi recenti, traffici sessuali più o meno floridi, per poi cambiare ancora destinazione d’uso e assumere l’attuale connotazione di stanza in affitto per studenti.

    Le gambe, lunghe ma non abbastanza da toccare terra, dell’ultimo studente che l’aveva abitata penzolavano a un metro dalla schiena di Renzo.

    In alto, fissato al soffitto, un anello metallico da cui pendeva un misero lampadario a foggia di lanterna, presumibilmente giudicato funzionale all’attività di precedenti inquiline, e la corda che stringeva il collo dell’impiccato.

    Un piccolo armadio con le ante disassate contro cui era stata addossata una delle due brande, un comodino e una cassettiera da ufficio ficcata sotto una mensola completavano l’arredamento. Era difficile muoversi in quegli spazi ridotti senza ostacolarsi, così l’imponente mole di Marotta si accontentava di appoggiarsi allo stipite dall’esterno, occupando parte del selciato in discesa su cui si apriva direttamente il portoncino di ingresso; dentro, il medico legale e il fotografo facevano il loro lavoro.

    «Per impiccarsi ha dovuto spostare le brande», disse il sovrintendente.

    «Già – rispose Renzo, senza voltarsi, intento a osservare il contenuto dell’armadio dopo aver scostato il letto di fortuna – qui non c’è neanche lo spazio per morire».

    Il dottor Ferri fece un passo indietro e si tolse i guanti in lattice: «Per ora ho finito».

    «Bene – disse l’ispettore capo – magari la chiamiamo domani per avere qualche notizia».

    «Domani forse sarà un po’ presto».

    «Non importa, le sue osservazioni sono preziose anche quando non sono ancora ufficiali».

    Si salutarono e il medico legale uscì.

    Parodi si rivolse all’agente che impugnava la reflex digitale: «Fai ancora qualche foto alla scena, per favore, e al biglietto, poi esci anche tu e facciamo entrare Marotto » .

    «D’accordo, ispettore capo».

    Quando furono soli nella stanza, Renzo chiuse la porta, impedendo la vista ai curiosi che si andavano rapidamente radunando oltre il nastro in pvc teso dagli agenti. Lo spazio si fece più oscuro e claustrofobico e fu costretto ad accendere la lampada da tavolo.

    Marotta si infilò a malapena tra i due giacigli, si chinò per afferrare lo sgabello in metallo e formica che giaceva rovesciato vicino ai piedi del ragazzo e lo raddrizzò, avvicinandolo al cadavere. «Sembrerebbe proprio un suicidio, i piedi sporgono al di sotto e non vedo segni di colluttazione. Poi c’è il biglietto».

    In effetti, a parte le due brande, il comodino e lo sgabello, posti in posizione incongrua, la povera stanza appariva pulita e in ordine. Il biglietto era un piccolo foglio lasciato sulla mensola che fungeva anche da tavolo su cui erano state vergate frettolosamente poche parole: Non voglio tornare indietro per morire. Allora meglio morire qui. Moses .

    «Che cosa avrà voluto dire?».

    Renzo si chinò sotto la mensola e rispose distrattamente mentre esaminava alcuni libri impilati: «Non saprei».

    Marotta sbuffò, non era un tipo paziente. «Se mi dici cosa stai cercando, magari posso darti una mano».

    Il suo collega si alzò e lo guardò negli occhi: «Non c’è molto, qui dentro. Sulla mensola, che probabilmente usava anche come tavolo da cucina e scrivania: una lampada da ufficio, il fornelletto da campeggio, un pacco di pasta aperto, due pentole, una padella, posate e piatti di carta e scatolette. Sotto ci sono una stufetta elettrica, dei libri, e dei quaderni nella cassettiera. I libri sono testi scolastici, probabilmente frequentava qualche corso per stranieri, poi c’è un’edizione economica e molto usata de Il nome della rosa ».

    «Mica una lettura facile per un immigrato».

    «Già. Forse faceva esercizio, ha parecchie sottolineature e annotazioni, alcune in inglese. Anche i quaderni sembrano appunti di scuola. Vedi un cellulare, in giro?».

    Marotta abbracciò velocemente lo spazio con un’occhiata. «No».

    «Se non ce l’ha addosso, è una stranezza. Questi ragazzi non si separerebbero mai dal loro unico mezzo per comunicare con chi hanno lasciato in patria».

    Il sovrintendente annuì e procedette a una perquisizione sommaria, e rispettosa, del cadavere. «Niente cellulare. Una chiave inserita in un moschettone e pochi spiccioli in una tasca e, in quella posteriore, c’era questo». Porse a Renzo un portafoglio rosso in cordura, vecchio e consunto.

    L’ispettore capo lo aprì e ne allineò sulla mensola il contenuto, mentre Marotta si accertava che la chiave corrispondesse alla serratura scassinata.

    «Una banconota da cinquanta euro e una da cinque, una fotografia che, dallo sfondo, sembra scattata in Africa».

    «Questo è lui più giovane – indicò Marotta –. Pare che avesse una madre, due sorelle e un fratello».

    «Già. Poi abbiamo un biglietto dell’autobus e un permesso di soggiorno per motivi umanitari intestato a Moses Babatunde, di nazionalità nigeriana. Scaduto da un mese».

    I due poliziotti si guardarono, per un attimo, poi Marotta lesse nuovamente il biglietto, ad alta voce: «Non voglio tornare indietro per morire. Allora meglio morire qui».

    «Potrebbe essere il motivo, servito su un piatto d’argento. Il mancato rinnovo del permesso di soggiorno; con il nuovo decreto, il nostro governo del cambiamento l’avrebbe buttato in mezzo a una strada».

    «Sei scappato da un inferno, osservi le regole e le leggi, speri di costruirti un futuro e che il peggio sia passato e, dall’oggi al domani, una masnada di ignoranti incattiviti, probabilmente razzisti, per un calcolo elettorale balordo, azzera i tuoi diritti e mette fuori legge la tua stessa esistenza. Una mazzata che potrebbe stendere un elefante. Perché, tu non ci credi?».

    «Non ci credo in questo caso. Aveva una famiglia in Nigeria. Gli serviva un cellulare; dov’è? E manca qualcos’altro, il che mi fa pensare che ci sia qualcosa di troppo».

    «Senti, mago Merlino, quando hai finito con salakadula e hocus pocus , ti dispiacerebbe tornare tra noi?».

    Renzo indicò i cassetti sotto la mensola: «Il foglietto su cui è stato scritto il messaggio appartiene presumibilmente a un bloc-notes, che qui non vedo. Qui ci sono un paio di quaderni. Formato e carta diversi. Non è nemmeno nei vestiti appesi nell’armadietto, ho già controllato».

    Tore annuì, pensieroso: «Qualcosa che manca, e il biglietto diventa qualcosa di troppo. Se avesse portato lui il foglio in una tasca, ci sarebbero segni di piegatura. Certo, è più un indizio che una prova, è possibile che il foglio fosse qui già da prima, che so… può averlo strappato una settimana fa per prendere nota di qualcosa, da un blocco che poi ha lasciato da qualche parte…».

    «È possibile. E il cellulare?».

    «Il cellulare può averlo perso, magari era molto distratto. Comunque siamo a due indizi, i giallisti sostengono che per una prova ce ne vogliano tre».

    «Tu leggi roba brutta. Fra un po’ mi dirai che era così distratto che è morto perché si è dimenticato di respirare. Finiamo il lavoro».

    «Pensi che ci sia un collegamento con i morti dell’ultimo mese?».

    «Non saprei, quelli erano spacciatori, avevano precedenti, questo ragazzo non mi sembra di conoscerlo».

    «Però è nero anche lui, e sembra che, in città, sia scoppiata una guerra tra bande».

    «Gli altri tre li hanno ammazzati in maniera diversa e lasciati in bella vista, come fosse un avvertimento mafioso. Per questo ragazzo, se l’hanno fatto fuori, hanno inscenato un suicidio».

    «Ti ricordo che la porta sembra non sia stata forzata, prima dell’arrivo del testimone, ed era chiusa a chiave».

    Non c’era altro in quella stanza opprimente, terminarono in fretta, lasciando alla mortuaria il compito di portare via il corpo.

    Quando aveva scoperto la nazionalità del ragazzo, Renzo non aveva potuto fare a meno di pensare che, probabilmente, solo un colpo di fortuna aveva separato la propria sorte, o la propria fine, da quella riservata al suo giovane compatriota; anzi, se non fosse stato per l’amore e il coraggio de o sciô Riccardo , suo padre adottivo, la vita di Renzo sarebbe quasi certamente finita poco dopo la nascita, sulle banchine puzzolenti del porto di Lagos. Era quindi innegabile che fosse scattato subito un legame particolare con il caso, per la pietà che gli suscitava la giovane età della vittima, per l’aria sempre più brutta che si respirava nel Paese e il contesto politico che aveva fornito un movente credibile a un suicidio di cui l’ispettore capo non era troppo convinto.

    A volte le motivazioni di Parodi nei confronti del proprio lavoro scaturivano da un misto di senso del dovere e della giustizia, uniti all’empatia che provava per le vittime e, in alcuni casi, perfino per i colpevoli, perché non sempre i ruoli erano definiti. Ma era mosso anche da sentimenti meno nobili, come la rabbia o il desiderio di rivalsa. C’erano indagini in cui andava avanti con caparbietà, senza analizzare le ragioni della propria testardaggine, che avvertiva confusamente. Questa volta no. Era deciso a scoprire quale situazione avesse provocato l’ultima delle molte morti di Moses, comuni a troppi ragazzi, africani come Renzo, fuggiti da se stessi per inseguire un sogno di normalità. E sapeva perché. Una colossale ingiustizia, di portata planetaria, opprimeva la povera gente, giorno dopo giorno, e la ricerca della verità era l’unico mezzo che l’ispettore capo conosceva per combatterla.

    «Da dove cominciamo?», gli chiese Marotta dopo che furono messi i sigilli all’ingresso del locale.

    Renzo si guardò intorno; pochi metri più in basso il caroggio confluiva in una via poco più ampia, su cui si affacciavano le vetrine di un bar. «Direi da chi l’ha trovato».

    Quando i due poliziotti entrarono, il cinquantenne dietro al bancone smise di parlare con un cliente e si avvicinò, mentre l’altro, unico anziano avventore, lo salutò e uscì.

    Renzo si accorse di avere già intravisto il barista pochi minuti prima, nel piccolo gruppo di curiosi assiepato davanti alla porta di Moses.

    «Buongiorno signori, posso offrirvi qualcosa?».

    «Due caffè, grazie. Ma con il conto», rispose Renzo esibendo il tesserino.

    Il gestore fece un gesto con la mano: «Non importa, so già chi siete, ero lì, prima».

    Renzo accennò un sorriso: «Bene, allora ci permetterà di farle qualche domanda?».

    «Certo. Anche se ho già detto tutto ai vostri colleghi – rispose l’uomo, sorridendo a sua volta, mentre indicava i cinque tavolini deserti in fondo sala – Come vedete, per ora, non ho molto da fare. Accomodatevi, preparo i caffè e sono da voi».

    I due poliziotti scelsero il tavolino più vicino al banco e attesero che il barista li raggiungesse, portando su un piccolo vassoio bustine di zucchero assortite e due tazzine fumanti.

    Renzo bevve il suo caffè, poi si presentò: «Io sono l’ispettore capo Lorenzo Parodi, del commissariato di Prè, il mio collega è il sovrintendente Salvatore Marotta. Lei si chiama?».

    «Pippo. Filippo Barbieri. Piacere».

    «Quindi lo conosceva?».

    «Moses? Poveretto. Lo conoscevo sì, era un bravo cristo. Se avevo bisogno, qui al bar, veniva a darmi una mano e gli allungavo qualcosa».

    Barbieri si rese conto all’improvviso di camminare su un terreno minato, di fronte a due poliziotti, perché si affrettò a precisare: «Non era in regola, eh, ma del resto non è che lavorasse qui; ogni tanto mi aiutava a scaricare la birra o a pulire per terra… era più che altro un modo per aiutarlo…».

    Renzo e Marotta avevano sentito mille volte giustificazioni del genere, che servivano quasi sempre a coprire storie truci di sfruttamento al limite della schiavitù ma questa volta, guardando l’uomo negli occhi, ebbero la percezione della sua sincerità.

    «Non si preoccupi – replicò pertanto Renzo – non siamo qui per questo, vorremmo solo saperne di più su quel ragazzo e sulle circostanze della sua morte».

    Il barista sospirò. «Questa mattina, prima dell’apertura, doveva passare di qui, aspettavo dei fornitori e, nei caroggi , lo sapete com’è, cerchiamo di far fermare i furgoni il meno possibile. In due ce la saremmo cavata in fretta e Moses, ieri, mi ha detto che non aveva niente da fare. Invece non si è presentato, e non ha risposto al telefono. Mi è parso strano, perché è sempre stato uno affidabile. Ho anche smadonnato un po’. La notte scorsa ho dormito poco perché mio figlio piccolo è stato male e siamo finiti al pronto soccorso. Per fortuna non era niente di grave, ma venire a lavorare… è stata dura. Quando il furgone è ripartito, ho pensato di andare a vedere se dormiva. Poveretto, volevo perfino dirgliene quattro. Ho bussato, l’ho chiamato, ma non ha risposto».

    Renzo scambiò un’occhiata con Marotta. «Quindi Moses aveva un telefono. Le dispiace darci il numero?».

    «Per niente». Estrasse una penna e un taccuino, che probabilmente utilizzava per le comande, vi scrisse alcune cifre e staccò il foglietto, passandolo a Parodi, che gli lesse il numero e, ottenuta conferma, piegò la paginetta e la mise in tasca.

    «Non ha considerato che, semplicemente, potesse non essere in casa?», chiese poi Renzo.

    «Francamente ero arrabbiato con lui, ed ero convinto che dormisse beatamente… così mi sono aggrappato alle sbarre della finestrella e mi sono tirato su di quel tanto che mi ha permesso di vedere quello che avete visto anche voi».

    «La porta era chiusa a chiave?».

    «Sì, aveva i giri, ma è una serratura da quattro palanche ».

    «Lei ha forzato la porta? È entrato nella stanza?».

    «Sì. Con una sbarra di ferro. Ho cercato di aiutarlo, di tirarlo giù. Ma era freddo, e ho capito che non c’era più niente da fare. Così ho chiamato».

    «Ha toccato qualcosa nell’abitazione, ha notato qualcuno o qualcosa d’insolito?».

    «No. Non mi pare di aver toccato niente, a parte lui. Non ho notato niente. Per strada non c’era nessuno quando sono uscito per telefonare ai vostri colleghi».

    Pippo scosse lentamente il capo prima di continuare: «Non riesco a credere che si sia suicidato. Era giovane, simpatico, studiava e si dava da fare. Era sempre allegro, anche se mantenersi onesto gli fruttava così pochi soldi da essere costretto a condividere quel buco con un coinquilino. Ma queste cose credo che voi le sappiate già. Comme a gia nel centro storico lo sanno i preti, chi ci vive, e chi raccoglie le denunce», concluse con un sorriso amaro.

    «E questo coinquilino? – intervenne Marotta – conosce anche lui?».

    «Sì, l’ho visto un paio di volte ma lui è uno che viaggia. Qui lo chiamano Carbunin. È... molto scuro».

    «Una bella fantasia…», fu il commento ironico di Renzo

    «Già. Ma mi pare che il suo nome sia Feisal o Faisal… qualcosa del genere. Moses mi ha detto che l’ha conosciuto a scuola, frequentavano tutti e due una serale per stranieri, qui vicino, in via dei Macelli».

    «Erano in buoni rapporti?», domandò Renzo.

    Il barista esitò: «Sì…credo di sì… anche se Carbunin sembrava molto diverso da Moses. Era un po’ più vecchio, alto e grosso e piuttosto taciturno».

    «Sa dove potremmo trovarlo?».

    «Purtroppo no. Moses mi ha solo detto che era partito di nuovo e che, forse, avrebbe dovuto cercarsi un altro compagno, perché probabilmente il suo coinquilino avrebbe cambiato casa».

    «L’ha mai visto con qualche altro amico? Una ragazza?».

    «Sì. Ora che ci penso, sì. Una volta, sarà stato un mese fa, è venuto qui a bere un the con una ragazza molto bella e un ragazzino, che si assomigliavano. Erano un po’ più chiari di lui, di carnagione, ma altro non saprei dire. Non li ho mai più visti. Ma Moses sembrava molto contento, vicino a lei. E anche lei sorrideva parecchio. Mi sembrava che tra loro ci fosse qualcosa».

    «Ricorda altro? L’ultima volta che lo ha visto le è sembrato diverso? Preoccupato? Le ha detto qualcosa di particolare?».

    «No, era del solito umore. Una decina di giorni fa è passato da me per un caffè, prima di andare a scuola, è stato allora che mi ha detto di essere in cerca di qualcuno che pagasse metà affitto, ma non mi è sembrato triste, se è questo che volete sapere».

    «Nient’altro?», chiese Marotta

    «No… mi pare di no».

    «Per caso, lei sa se avesse parenti in Nigeria? Conosce un recapito?».

    Il barista allargò le braccia: «So che aveva la famiglia là, i genitori e almeno due sorelle, ma non parlava volentieri del suo passato».

    «Conosce il nome del suo padrone di casa?».

    «No. Mi dispiace».

    Parodi si alzò, seguito da Marotta, pagò i caffè e porse al barista il suo biglietto: «La ringrazio. Se le viene in mente qualcosa, ci faccia sapere».

    «Certo. Povero ragazzo. Dopo tutto quello che ha passato... si vede che non ce l’ha più fatta. Non sempre siamo disponibili con gente dalla pelle scura e non sempre loro ci aiutano a esserlo. Adesso meno che mai».

    Renzo guardò involontariamente la propria mano ancora stretta in quella chiara del barista, che seguì il percorso del suo sguardo e proferì un imbarazzato «Mi scusi», strappandogli un sorriso.

    «Non si preoccupi. Ho capito, e sono d’accordo con lei».

    I poliziotti uscirono e si allontanarono dal bar di qualche passo. Renzo estrasse il cellulare e il biglietto scritto dal barista, e compose il numero. Dopo pochi secondi di attesa, Marotta gli chiese: «Squilla?».

    «No. – rispose Renzo, premendo il tasto di interruzione- Sembra morto anche lui».

    «Bé sarebbe stato troppo bello – fu il commento del sovrintendente, che proseguì – Allora: pochi soldi, permesso di soggiorno scaduto e la prospettiva di perdere anche quello schifo di tetto sopra la testa. Non stava messo bene».

    «No. Ma hai idea di quante deve averne passate prima di arrivare fin qui?», rispose Renzo.

    «Appunto. Ha accumulato fino al punto di rottura».

    «Forse. Eppure, se quel che ci ha detto il barista è vero, un ragazzo così giovane che riesce a sopravvivere al viaggio infernale e chissà a cos’altro, e riesce, in qualche modo, ad andare avanti, a crescere, nonostante le difficoltà, studiando, mantenendosi dignitosamente pulito dentro e fuori, superando ostacoli che non tutti sarebbero capaci di scavalcare, uno sempre allegro... non so, mi pare strano che si arrenda di punto in bianco. E non dimenticarti gli indizi».

    «Che non sono prove. Poi c’è la porta chiusa a chiave».

    «Già. Dall’interno o dall’esterno? Non ce l’aveva solo la vittima, la chiave. Siamo solo all’inizio, Marotto, tempo al tempo. Intanto cerchiamo il proprietario del basso».

    Non fu difficile. Bastò una visura catastale.

    Il proprietario del basso era un certo Terenzio Gaulli, di anni novantatre, parecchio benestante e in precarie condizioni di salute, soprattutto mentale.

    Marotta approfondì le ricerche e scoprì che Alberta Sommaruga, nipote quarantenne del vegliardo e

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