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Il Settimino
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E-book286 pagine3 ore

Il Settimino

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Info su questo ebook

Nel folklore piemontese, un bambino nato prematuro al settimo mese viene chiamato setmìn, il Settimino. Secondo tradizione, è dotato di oscuri e terribili poteri sovrannaturali. Davide Bo è un Settimino; e questa è la sua storia.

I misteri di Stato. Le stragi. Gli anni di piombo. La strategia della tensione. I terroristi. La massoneria. I servizi deviati. E' l'Italia; e questa è la sua storia.

E quando la storia del più potente ESP al mondo si sovrappone alla storia di una nazione dalle mezze verità, dove dominano mafie, logge, rigurgiti totalitaristi e poteri occulti di ogni genere, il risultato finale non può che essere catastrofico.

Ecco la nuova avventura di Stefano Drago, agente speciale del Dipartimento Indagini Paranormali; Fabrizio Borgio, raffinato giallista, per la prima volta nella narrativa di genere italiana mescola l'elemento supernatural con una trama poliziesca ad altissima tensione che, come il filo di una ragnatela, si ricongiunge con altre mille Trame segrete...

... quelle del nostro Paese.

LinguaItaliano
Data di uscita10 giu 2016
ISBN9788899216566
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    Anteprima del libro

    Il Settimino - Fabrizio Borgio

    1

    Sono nato come la roccia, con le mie ferite. Senza guarire della mia gioventù superstiziosa, a corto di limpida fermezza, entrai nell’età squassante.

    L’età squassante,

    René Char

    Nel buio del tardo pomeriggio, le luminarie natalizie brillavano lungo le vie di Asti, di colori caldi e allucinati.

    Dalle strade intasate dal traffico del fine settimana proveniva una cacofonia di motori e clacson, che si aggiungeva alle carole diffuse dai negozi del centro. Davanti alle vetrine scintillanti, sfilavano pedoni ammaliati dalle luci, come falene vestite di pellicce e cappotti.

    Si respirava un’aria fredda e isterica, sotto le feste. Nell’aspettativa di grandi gioie, rabbia e frustrazioni improvvise erano pronte ad attanagliare quieti cittadini; un ultimo giocattolo sullo scaffale poteva generare liti e insulti e la crosta della bontà, imposta dal luogo comune, frantumarsi, come il sottile strato di ghiaccio che ricopriva la fontana in Piazza Medici; la felicità sparire come neve lavata via dalla pioggia.

    Un ragazzo s’addentrava fra la massa di teste lungo l’isola pedonale di Corso Alfieri. Soffiava un vento freddo che sapeva di montagna e nubi nere celavano le stelle. Quella notte sembrava un coperchio buio che schiacciava i palazzi e si chiudeva su Piazza San Secondo e sull’enorme abete addobbato che ne occupava il centro, come se quest’ultima e la sua austera collegiata romanica fossero il piatto forte da presentare in tavola. Nemmeno le grandi insegne di una società di assicurazioni, montate sul palazzone di fronte, risalente al ventennio fascista, riuscivano a consolidare la luminosità degli insediamenti umani su quel firmamento di pece che sigillava la giornata.

    Il ragazzo vestiva con semplicità: pantaloni militari con grandi tasche sui lati, scarpe da ginnastica bianche, una giacca a vento nera. La fronte aggrottata, le spalle curve, osservava quella vita affamata di piacere scorrergli attorno; incrociava sguardi stregati dalla magia della festa, sorrisi spalancati, ragazze che ridevano, uomini che parlavano al telefono. Alcuni ostentavano sui volti l’abbronzatura degli sciatori, altri un’eleganza costosa, che cercava di spiccare nell’indifferenza della folla. Il giovane si sentiva estraneo ai passanti che incrociava e che proseguivano la marcia dei consumi, scivolando via da lui come il corso di un fiume attorno a un masso affiorante.

    Aveva il volto pallido, capelli scuri tagliati cortissimi. Quella severa rasatura lo rendeva perfino più magro di quel che era.

    Da invisibili altoparlanti, udiva un’ossessiva nenia natalizia che sembrava sovrastare il brusio di fondo degli astigiani impegnati nella vasca serale.

    Un tizio passò veloce alle sue spalle, sfiorandolo all’altezza dei reni. Il giovane si voltò d’istinto, scosso da quella fugace intrusione del suo spazio personale. Il passante teneva la testa incassata fra le spalle, un berretto di lana calcato fino a nascondere le orecchie. Malgrado quella copertura, il ragazzo intravide il cavo attorcigliato di una ricetrasmittente fare capolino dal bavero del giubbotto. Mosse passi incerti in direzione dello sconosciuto, perdendolo di vista quasi subito. Sprofondò le mani nelle tasche della giacca e s’incamminò verso Piazza San Secondo, sbucando proprio al cospetto della collegiata.

    La chiesa romanica dominava, esaltata da fari incassati nel selciato. L’ampio rosone era un occhio titanico che scrutava con iride multiforme la piazza, la città e oltre. Una teoria complessa di tetti e pinnacoli si slanciava nel buio, svettando sulle case di ringhiera e le viuzze medioevali.

    Il ragazzo spinse una pesante anta borchiata e s’infilò al suo interno. Ardevano tremule candele che proiettavano ombre mutevoli sulle volte, contro i colonnati romanici. Anziane in ginocchio, le mani artritiche intrecciate, concentrate in mormoranti preghiere, occupavano i primi banchi, davanti all’altare maggiore, deserto. Sul lato destro del presbiterio, un tipo barbuto, con un giubbotto di pelle da aviatore, sembrava intento a osservare l’esposizione dei palii nella cappella dedicata al Santo Patrono.

    Il ragazzo si mosse timoroso, le scarpe da ginnastica strusciarono sulla pavimentazione lucidata dal tempo. Percorse la navata centrale, s’infilò tra le panche e sedette all’ombra di un pulpito di legno scolpito. Tirò su col naso, si accomodò contro lo schienale rigido e reclinò il capo, osservando le volte che s’incrociavano sopra la sua testa. L’irrequietezza che lo perseguitava da un paio di ore era un peso palpabile che gli gravava addosso. Non c’era una causa precisa. La mente aveva iniziato a macinare pensieri come una spirale che s’avvitava su se stessa.

    Sospirò, intrecciò le mani dietro la nuca e gettò un’occhiata alla sua destra, sbirciando l’uomo con la barba che passeggiava guardandosi attorno con atteggiamento da turista. Si domandò chi potesse trascorrere le vacanze di Natale ad Asti. Lo sconosciuto gli passò a fianco, lo sguardo concentrato sulle pale dorate. Il ragazzo, allora, cambiò posizione per seguire i suoi spostamenti. La panca su cui era seduto scricchiolò nello ieratico silenzio della collegiata. Il barbuto ebbe uno scatto fulmineo del capo e gli occhi, protetti da un paio di lenti gialle, dardeggiarono sui posti a sedere, scandagliando i presenti come i fari delle torri di guardia di un campo di concentramento, con freddezza e attenzione spietate.

    S’irrigidì. La reazione dello sconosciuto l’aveva spaventato e gli era sembrata spropositata rispetto al luogo e alla circostanza. Una sensazione di diffidenza, come una rotellina che iniziava a girare, lo solleticò dietro la nuca. L’individuo non stava più visitando la chiesa, la stava sorvegliando e la consapevolezza aumentò in lui il disagio e generò una sottile paura. Il turista passò oltre. Il ragazzo soffiò via l’aria che aveva trattenuto, contò mentalmente fino a dieci, poi si voltò. L’inopportuno guardiano si era fermato all’altezza dei portoni, con due dita si toccava un orecchio, come ad aguzzare l’udito per captare qualcosa di distante e disturbato.

    Il ragazzo ritornò a fissare l’altare, un panico indistinto lo circondava, con spire dense come quelle dell’incenso. Sospirò. Il piede batteva contro il bordo dell’inginocchiatoio. Posò la mano sul ginocchio, si costrinse a smettere. Sentiva che, non appena si fosse avviato verso l’uscita, il tipo l’avrebbe bloccato. Non immaginava il perché, non aveva la minima idea di cosa potesse volere da lui e la cosa alimentava l’angoscia. Consultò l’ora: mancavano una decina di minuti alle diciotto e trenta; la collegiata di San Secondo si sarebbe riempita tra poco per la messa serale. Considerò l’afflusso di fedeli eleganti, le chiacchiere davanti al portone, auguri e strette di mano, una confusione forse sufficiente per riuscire a mescolarsi e dileguarsi con discrezione. Pensò che, forse, stava costruendo un castello di paranoie, su un’impalcatura di incubi irragionevoli, piantati coi chiodi della coscienza. Si stropicciò il viso con le mani giunte, rabbrividì sotto il piumino e si chinò per raccogliere un libretto dei canti e, al contempo, tenere d’occhio la via di fuga.

    No.

    Decise che non era paranoia, non era illusione. Ebbe un tuffo al cuore. Il barbuto era sempre lì e non più solo; al suo fianco, il passante col berretto schiacciato in testa che l’aveva sfiorato prima, in strada. Sentì la bocca arsa. Asciugata da una paura nuova, che palpitava in lui a ogni battito cardiaco. "Che cosa vuole quella gente da me!"

    Desiderava gettare un’altra occhiata ai due ignoti persecutori, ma senza mostrarsi. Pensò rapido a un espediente; era in chiesa, non aveva specchi o riflessi da sfruttare. Tastò le tasche fino ad afferrare il cellulare e portarselo all’altezza del viso. Sospirò ancora. Accese la fotocamera e la rivolse dietro di sé, mentre col pollice sfiorava lo zoom, fino a inquadrare i due uomini. Confabulavano con discrezione, il barbuto con la testa alta, sempre intento a sorvegliare la collegiata, l’altro con le mani nelle tasche, spalla contro spalla. Trattenne il respiro e scattò una foto agli sconosciuti. Il flash lampeggiò in un fulmineo abbaglio che per un istante si riflesse sugli occhiali gialli del barbuto. Questi scattò come un automa, osservando le figure tra le panche.

    Il giovane imprecò, mise via il cellulare e si spostò il più possibile lungo la panca, verso il pulpito che gli torreggiava a fianco. Udì passi nervosi e il cuore prese a martellargli nel petto, un caldo improvviso gli fece tirare giù la lampo della giacca; stava combattendo contro l’istinto di fuggire, come un animale selvatico che non sapeva ancora se avventarsi contro una minaccia o cercare una via di scampo.

    I passi rimbombavano in San Secondo come piccoli rintocchi nefasti, ma non sembravano ancora così vicini da destare preoccupazione. Azzardò un’altra fugace occhiata alle spalle: il tipo con il berretto sostava davanti al portone principale, mentre il barbuto era in parte nascosto alla sua vista dalla piglia del pulpito. Le campane suonarono nell’aria buia. Guardò l’ora. Dal portone principale e dai secondari, entrarono gruppi di persone ben vestite; un discreto ciangottare si diffuse tra le volte, mescolandosi allo scampanio. Una compunta signora col tailleur blu aveva preso posto all’organo e provava delle note d’accordo. La corale si stava disponendo alle spalle dell’altare, mentre un tenore gorgheggiava per scaldarsi la voce.

    L’afflusso di pubblico s’intensificò, il ragazzo si sentì pervadere da un momentaneo sollievo, circondato ora di varia umanità. Si mosse lungo la panca, facendo posto a due anziane e canute madame, una impellicciata come una zarina incartapecorita.

    Si sorbì tutta la messa, facendosi scudo dei fedeli, evitò di consumare l’eucarestia e finse di cantare. Quando il parroco invitò a scambiarsi il segno di pace, ne approfittò per controllare bene gli ingressi. Il barbuto era sparito, mentre l’uomo col berretto si era appoggiato a una colonna, sotto un manifesto delle Opere Missionarie. Appariva annoiato e, ogni tanto, si portava due dita all’auricolare, annuendo.

    A messa finita, attese che davanti al portone si raggruppasse una ressa sufficiente affinché potesse confondersi, si alzò e, con passo lesto, si mescolò tra la gente, cercando di raggiungere l’esterno per poi allontanarsi; s’infilò tra i fedeli chiedendo scusa e permesso. Varcò la prima soglia; nell’anticamera tra portone interno e quello esterno s’erano fermati un paio di ciaciaroni che superò; alla seconda soglia, il soffio freddo lo salutò con una carezza ghiacciata. Per reazione, sentì incendiarsi i padiglioni delle orecchie e le guance. Accelerò il passo per lasciare la chiesa e Piazza San Secondo e svoltò subito a sinistra, sul pavé luccicante di umidità di via Garibaldi, quando una mano s’avvinghiò al braccio stringendolo e una voce gli intimò: «Seguimi, senza storie.»

    Il ragazzo trasalì, attraversato da una scossa gelida. «C-Cosa?»

    Uno sconosciuto era adesso al suo fianco.

    «Avanti,» l’esortò.

    Lo fece ruotare e lo spinse verso un furgone nero, davanti al palazzone fascista dell’INA.

    «No.»

    La folla usciva da San Secondo e sostava sulla piazza o s’incamminava verso via Gobetti o Corso Alfieri; in quel momento, via Garibaldi era deserta.

    Sentì la paura diramarsi come un morbo nei suoi pensieri, il mondo normale si stava dissolvendo come fuliggine.

    «NO!»

    Si divincolò. L’altro rinnovò la presa, salda, mentre parlava al microfono. Il ragazzo diede uno strattone, liberandosi dalla stretta. Arretrò verso la collegiata. Le vene sotto le tempie pulsavano come se sotto pelle respirasse qualcosa.

    S’intrufolò tra la folla, insinuandosi come un bambino impaziente tra monsü in paltò e madamìn ingioiellate, ritrovandosi di nuovo all’interno di San Secondo. Il coro si stava attardando e ancora molte persone si spostavano fra i banchi per raggiungere l’esterno. I loro passi rimbombavano come tamburi stonati.

    Il ragazzo si aggirò fra le volte slanciate e intanto si guardava attorno con l’occhio famelico e sensibile di una bestia braccata. Il barbuto e il suo compare camminavano con passo affrettato lungo le navate, le dita appoggiate all’auricolare; un terzo, l’estraneo che lo aveva afferrato, era appena entrato spintonando la calca che si stava addensando davanti ai portoni. Il suo inseguitore scrutava i fedeli, cercandolo. Il giovane tentò di mimetizzarsi tra la folla senza perdere di vista i suoi persecutori. L’ultimo arrivato aveva il braccio destro abbassato lungo il fianco. E una Beretta stretta nella mano.

    L’idea del ragazzo era di uscire da una delle porte secondarie, distribuite lungo la fiancata della chiesa e che si aprivano su via Garibaldi, ma i suoi cacciatori stavano pattugliando tutto il perimetro. Si mosse piano, capo chino e mani ficcate nelle tasche. Si fermò sotto una volta e fece capolino da una colonna. Sbirciò verso la navata centrale, in entrambe le direzioni. Attorno a lui, il vociare dei presenti era un frastuono insopportabile, parole indistinte trasformate in rumore, risate come stilettate nelle orecchie.

    «Basta,» disse ad alta voce. «Basta.»

    Si portò le mani alla testa e, in quel momento, l’uomo armato lo intercettò.

    Lo vide indicarlo e camminargli incontro, la pistola sempre bene aderente al fianco, all’apparenza indifferente.

    Non mi avessi mai visto!

    Ora il ragazzo tremava, il corpo scosso come da una crisi epilettica. Le onde nervose che gli agitavano le membra trasmisero energia anche allo sconosciuto che, sorpreso, si fermò. La testa del ragazzo scaldava come un radiatore, l’umidità della sera sublimava attorno a lui originando un’aureola di vapore, i capelli s’increspavano formicolanti.

    Non mi avessi mai visto! Il pensiero gli esplose di nuovo nella mente. Goccioline rosse gli stillarono dal naso. L’uomo armato l’aveva quasi raggiunto, pochi passi tra alcuni membri del coro a separarlo da lui.

    Non mi avessi mai visto!

    L’uomo indugiò, poi arretrò, la bocca spalancata. Il ragazzo aveva le guance accese di un rosso vivo e febbricitante, l’aria tutt’attorno alla sua figura tremolava come un miraggio nel deserto. Un odore di cavi bruciati si sparse, mescolandosi all’incenso e al fumo delle candele. Dense lacrime di sangue colarono sulle guance dello sconosciuto, scivolarono sul mento, imbrattandogli la giacca, i suoi occhi scoppiarono come bolle. Urlò, la mano artigliava l’aria davanti a sé, muovendosi frenetica, l’altra puntava la pistola a casaccio. Una donna del coro indicò atterrita il ferito e la pistola, i presenti si allargarono via da lui, qualcuno, senza indugi, corse via spintonando chi aveva sul proprio cammino. L’uomo era una maschera straziata di spavento e sangue, i suoi strilli isterici sovrastarono il brusio della chiesa. Il barbuto e il suo compare ora avevano estratto le armi, puntandole contro il ragazzo. La pistola dell’accecato sparò.

    Quattro, cinque, sei colpi tuonarono in San Secondo. Un’anziana, che stava strillando alla vista del ferito, ricevette una nove millimetri in piena fronte e crollò tra i banchi. Un proiettile sbrecciò l’ebano intagliato del pulpito e un altro si conficcò nel ventre di un prelato con la fascia viola. Il religioso sobbalzò, tossicchiò uno sbruffo di sangue e si afflosciò sul lastricato.

    Il panico incendiò la chiesa. La gente fuggiva in tutte le direzioni, inciampava e cadeva. Un giovane azzimato prese a calpestare i corpi stesi che lo separavano dall’uscita e, con le spesse suole di cuoio, schiacciava volti e schiene, senza distinzione, mentre, addossato all’altare, il parroco della collegiata si faceva segni della croce in successione.

    Il ragazzo non si era più mosso, l’aria fremeva intorno a lui, le candele che ballavano scosse da raffiche ignote. Il barbuto lo teneva sotto tiro assieme al compare col berretto, che, con voce tesa, annunciò: «Ce l’ho. Basta un colpo.»

    «Negativo. Lo vogliono vivo.»

    L’altro imprecò.

    L’uomo accecato cadde sulle ginocchia. Aveva vuotato il caricatore, ma il dito sul grilletto continuava a tirare. Ululava dolore e paura alle volte indifferenti. Il ragazzo avanzò di alcuni passi. Sembrava muoversi in una bolla d’aria impazzita e, al suo passaggio, una scia di vento caldo emanata dal suo corpo sferzò lo spazio attorno a lui. L’accecato sollevò di nuovo la semiautomatica. Il ragazzo fissò l’arma con sguardo metallico e le dita dell’uomo si strinsero convulse e si accartocciarono attorno alla pistola con uno scricchiolio di ossa spezzate, impastandosi in un groviglio sanguinolento. L’urlo diventò stridulo. Travolta dal dolore, la vittima rotolò sulla pietra, tenendosi l’arto maciullato, si muoveva con scatti scomposti, cercando fuga da una sofferenza che la stava annientando.

    Il sicario dal berretto nero urlò ancora di rabbia e spavento e prese le mira. Il barbuto scattò verso di lui, allungò la mano libera per deviare il colpo e l’altro fece fuoco. Un solo sparo, secco, echeggiò nella chiesa. Il proiettile scheggiò la pietra del lastricato proiettando scintille. Il fischio della pallottola colse il ragazzo alle spalle e lui si voltò a guardarli.

    Un’ondata ardente li investì come l’alito di un altoforno spalancato. Una barriera invisibile li sospinse entrambi a gambe all’aria. Il barbuto rotolò via, strisciando con un perfetto passo del leopardo, si riparò dietro un confessionale; il compare rimase accovacciato contro il muro, cercando di proteggersi, rannicchiato in posizione fetale. Il barbuto osservò la mano lorda di sangue, la schiena scossa da tremiti.

    «Non sparare!» gli urlò.

    L’altro provò a rimettersi in piedi, continuando a puntare la sua arma. Si muoveva con agitazione, cercando un bersaglio che non poteva più vedere. Il mento tremava senza controllo. In ginocchio, anche se accecato, prese ancora la mira. Sanguinava, copioso, dalla bocca e dal naso.

    Il ragazzo mosse un solo passo, lo sguardo acceso da furia e disperazione, i pugni stretti lungo il corpo.

    «Lasciatemi stare!» tuonò.

    Un boato fece tremare i pesanti tendaggi di velluto rosso, scosse i drappi. I lampadari, dalle volte della collegiata, ondeggiarono come se fossero stati a bordo di una nave nel mezzo di una tempesta; al centro della navata, una pioggia di gocce di cristallo tintinnò sul pavimento. I rosoni della facciata esplosero, sfarinando vetro multicolore sulla piazza. Dall’esterno si udivano grida, passi affrettati e sirene che si avvicinavano.

    L’uomo col berretto ebbe uno scatto all’indietro, come colpito da un pugno, e si rovesciò contro la parete, le braccia allargate in una parodia della crocifissione. I tendini tesi come cavi d’acciaio, la bocca storta in una smorfia raccapricciante e gli occhi rovesciati. Una pressione soverchiante lo manteneva inchiodato e il sangue sembrava spalmarsi su di lui senza avere spazio per spruzzare. L’uomo pareva schiacciato sotto una lastra trasparente.

    Il barbuto osservò la scena impotente. Il ragazzo stava immobile e il tremolio termico che lo circondava persisteva nella sua innaturalità. Con mano malferma, l’uomo invocò aiuto nel microfono della ricetrasmittente.

    Il sicario appiccicato alla parete cessò di urlare. Emise un grugnito, mentre l’aria presente nei polmoni veniva spremuta via dalla forza che lo aveva bloccato.

    Il ragazzo parve scuotersi dalla sua trance distruttiva e, non appena sentì i portoni della chiesa aprirsi con un cigolio, partì di corsa verso l’uscita secondaria, mentre la sua seconda vittima scivolava giù, inerme. Il portone si spalancò con un lamento. Il barbuto uscì allo scoperto appena in tempo per vedere il giovane scappare via e il suo urlo di rabbia si sostituì al fracasso dei minuti precedenti.

    2

    Ci sono cose che soltanto l’intelligenza è capace di cercare ma che, da sola, non troverà mai.

    L’evoluzione creatrice,

    Henri-Louis Bergson

    Domenica mattina, Asti era coperta da uno strato di neve spesso una decina di centimetri. Stefano Drago, vestito con tuta da ginnastica felpata e zaino sulle spalle, attraversava, a passo cadenzato, Parco dei Partigiani. Candidi cristalli ingentilivano i rami scheletrici e gli abeti ammassati lungo le pendici del parco, da sempre arrampicati verso le antiche mura romane.

    Respirava l’aria ghiacciata e sbuffava nuvolette di vapore, mentre percorreva i vialetti che si attorcigliavano alla collina; sotto il cielo incolore, la città spiccava con muri gialli e grigi e case di mattoni rossi. Il gelo pungente lo spingeva a muoversi, qualche timida lacrima gli inumidiva gli angoli degli occhi, velandogli la vista. Si deterse con la manica, superò la cima del bricco e affrontò la discesa, rallentando nel timore di scivolare. Abbandonò Parco dei Partigiani, imboccò un cigolante cancello di ferro battuto e sbucò sul marciapiede di Piazza Lugano. Ridiscese viale Partigiani, che scavalcava un bricco piuttosto erto nel cuore della città e digradava ripido verso Piazza Torino. Percorse quella strada per un paio di centinaia di metri, incrociando un altro corridore solitario e un anziano imbacuccato con un cagnolino al guinzaglio; svoltò, infine, alla sua destra, in via Gerbi, ritrovandosi, di fronte, la facciata rossa e grigia delle piscine comunali.

    Entrò

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