I peccati del papa. Il quinto comandamento
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I peccati del papa. Il quinto comandamento - Fabio Delizzos
10
Prima edizione ebook: settembre 2013
© 2013 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-5962-4
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di Librofficina
Progetto grafico: Sebastiano Barcaroli
Elaborazione da © Shutterstock.com
Fabio Delizzos
I PECCATI DEL PAPA
Il quinto comandamento
XXXI
(Continua domenica 22 febbraio)
Giorgina si spaventò vedendolo irrompere in casa, trafelato e con uno sguardo glaciale. Fu sul punto di chiedergli se ci fosse qualcosa che non andava, però non lo fece. La risposta la conosceva già: era accaduto qualcosa di brutto, ma Bellerofonte, come al solito, era a proprio agio fra le disgrazie.
Lo seguì con gli occhi mentre incedeva fra le stanze a passo spedito, con la determinazione di un folle, e saliva le scale. «Buonasera, signore», gli disse.
Bellerofonte non le rispose. Sparì dalla sua vista. Dopo qualche istante, quando lei stava per tornare alle sue faccende scuotendo la testa piena di pensieri, lui riapparve in cima alla scala, con una chiave in mano.
«Giorgina?»
«Sì, signore?»
«Esco. Preparami il vestito per la sala da gioco».
«La bauta, signore?»
«Sì, con la larva bianca».
Bellerofonte tornava a divertirsi in società, finalmente. Giorgina la prese come una buona notizia, nonostante il gioco non fosse di certo l’attività alla quale lei avrebbe desiderato che si dedicasse.
«I calzoni e la camicia li trovate nella parte centrale dell’armadio», gli disse alzando la voce per farsi sentire, «sono inamidati e stirati. Nell’anta di lato ci sono il panciotto e il tabarro di lana, ma c’è anche il mantello più elegante, se lo preferite. Sul ripiano in alto trovate il tricorno e lo zendale di pizzo. La larva di cuoio è nel primo cassetto del comò. Mi dispiace ma quella di cartapesta giapponese è ancora nei bauli».
«Va bene quella di cuoio», urlò Bellerofonte. Prese tutto e lo gettò sul letto.
Si soffermò per un attimo a contemplare la larva bianca. Quella della bauta veneziana era una maschera semplice, che copriva tre quarti del volto lasciando visibile solo parte del mento, con due fori ellittici per gli occhi, gli zigomi pronunciati e uno spiovente che partiva da sotto il naso allargandosi sulla bocca come un becco. Una forma che modificava il timbro della voce rendendolo irriconoscibile come tutto il resto della persona. La sporgenza del becco permetteva anche di impugnarla comodamente quando la si teneva in mano.
Quanti ricordi.
Insieme ai canali, le calli, le gondole, quel vestito era uno dei simboli della sua Venezia. L’aria di carnevale, poi, stava facendo crescere la nostalgia, giorno dopo giorno.
Ma non era il momento di perdersi fra i riverberi del passato. Scacciò i ricordi e si spogliò con la fretta di un carcerato appena fuggito dalla prigione. Una statua greca scolpita in un blocco di pelle chiara. Quando si fu rivestito, sul letto restarono solo la larva e il cappello. Prese da un candelabro una candela accesa e passò la fiamma a un’altra candela, sorretta da una bugia di terracotta. Si inginocchiò a lato del letto, scostò le coperte e illuminò sotto.
Il piccolo baule era ancora lì.
Di lì in poi non sarebbe stato prudente tenerlo in casa, si disse. Lo avrebbe fatto trasferire al tribunale del Governatore e tenuto sotto chiave in una stanza sorvegliata.
Tirò a sé il baule finché non fu del tutto scivolato via da sotto il letto. Infilò la chiave nella serratura, lo aprì. Tolse gli indumenti che conteneva, strato per strato, posandoli per terra, sullo scendiletto, e sotto la luce della candela rimasero solo le boccette di vetro, che giacevano in fila, riverse sul fondo. Prese quella contenente pochi grani di una sostanza simile a granella di mandorle carbonizzata; erano gli ultimi che gli restavano.
Andò verso il comò, si chinò sul piano di marmo. Trattenne il respiro, per prudenza, stappò la boccetta e la inclinò fino a far cadere tre granelli neri sul marmo chiaro. La tappò, la rimise a posto, ricoprì tutto con gli indumenti, chiuse a chiave il baule e lo spinse di nuovo sotto il letto. Prese un pezzo di carta e lo arrotolò fino a ottenere un piccolo cono. Vi mise dentro i granelli neri e lo chiuse arricciando i lembi superiori. Se lo fece scivolare nella tasca pensando con soddisfazione che il dottor Orsolini stava per dirgli tutto quello che sapeva: il nome, o i nomi, di chi gli aveva ordinato di tacere riguardo la castrazione della vittima e di accusare gli ebrei del suo dissanguamento.
Bellerofonte non aveva potuto trasportare da Venezia tutto quello che adesso avrebbe voluto avere con sé a Roma – il mare, in primo luogo –, ma qualcosa di prezioso lo aveva portato con sé: proveniva dall’arsenale di vasi, barattoli, bottiglie e boccette ricevuto in eredità da suo padre. Veleni, arcani, segreti partoriti dalla sua mente geniale.
Quello che aveva appena preso dal baule, ad esempio, aveva il potere di far dire e fare a chiunque qualunque cosa gli si ordinasse. Un ritrovato portentoso, e pericoloso se messo nelle mani sbagliate. Lo aveva battezzato lui stesso, da bambino, con il nome di arcano della volontà e dell’oblio.
Da quel giorno, sapendo che suo padre disponeva di un farmaco capace di rendere sinceri anche i peggiori bugiardi del mondo, di fargli fare qualunque cosa si desiderasse e di fargli dimenticare tutto ciò che gli accadeva mentre era sotto il suo effetto, non aveva mai osato mentirgli. E, forse, per lo stesso motivo suo padre non gli aveva mai dovuto nascondere nulla, neppure di essere colui che riforniva il Consiglio dei Dieci e gli Inquisitori di Stato di veleni efficaci e straordinari, armi necessarie alle operazioni di spionaggio e all’eliminazione silenziosa dei nemici della Repubblica.
Non era un lavoro che potesse fare chiunque, gli aveva detto una volta, perché si trattava di cose estremamente delicate. E per fargli capire quanto lo fossero, gli aveva raccontato di quello speziale che aveva preparato la polvere di diamante che sarebbe dovuta servire per