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Missione a Vitunia
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E-book485 pagine6 ore

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Info su questo ebook

Italia del Nord, seconda metà del decimo secolo. Il vescovo-conte Gandolfo si impossessa di uno scritto autobiografico del defunto Fazio, già membro dell’influente famiglia degli Aghileri. Il documento racconta le vicissitudini di Fazio da giovane, quando era stato coinvolto in una vicenda apparentemente satanica accaduta nel villaggio di Vitunia, rivelatasi poi molto più intricata di quanto la povertà del luogo inizialmente non suggerisse. Gandolfo scorre il racconto con notevole ansietà, alla ricerca di rivelazioni che possano mettere in pericolo la sua attuale posizione di potere nel feudo. Tuttavia, quando scopre delle frasi per lui compromettenti, si rende anche conto che nemmeno la distruzione del manoscritto lo metterà al sicuro dal pericolo che il suo inconfessabile segreto venga svelato.
LinguaItaliano
Data di uscita1 giu 2020
ISBN9788831675499
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    Anteprima del libro

    Missione a Vitunia - Andrea Bonifacio

    in­fo@you­can­print.it

    L’ope­ra è de­di­ca­ta a mia mo­glie e mio fi­glio, che ne han­no sup­por­ta­to (e sop­por­ta­to) la ste­su­ra.

    Scripta Manent

    Usci­te e chiu­de­te la por­ta. or­di­nò il ve­sco­vo Gan­dol­fo con la non­cu­ran­za di chi è abi­tua­to ad es­ser ub­bi­di­to all’istan­te e sen­za di­scus­sio­ni, ac­com­pa­gnan­do le pa­ro­le con un va­go ge­sto del­la ma­no. I due ser­vi s’in­chi­na­ro­no os­se­quio­si ed ab­ban­do­na­ro­no in fret­ta la stan­za, chiu­den­do­si la por­ta al­le spal­le.

    Ri­ma­sto so­lo, si guar­dò in­tor­no con at­ten­zio­ne mi­sta ad una cer­ta in­quie­tu­di­ne: do­ve­va af­fret­tar­si, per evi­ta­re che la sua as­sen­za dal­la ca­me­ra ar­den­te fos­se no­ta­ta, giù al pian­ter­re­no del pa­laz­zo.

    Lo stu­dio del de­fun­to Fa­zio Aghi­le­ri era pu­li­to, or­di­na­to e pri­vo di or­pel­li. Una scri­va­nia non mol­to im­po­nen­te, con una se­dia a brac­cio­li, era si­ste­ma­ta di fron­te all’in­gres­so, in mez­zo al­le due fi­ne­stre che il­lu­mi­na­va­no l’am­bien­te; sul­la pa­re­te di de­stra vi era­no de­gli scaf­fa­li, su quel­la di si­ni­stra un ca­mi­net­to con da­van­ti due scran­ni. Lo stem­ma di fa­mi­glia cam­peg­gia­va ap­pe­so al­la pa­re­te tra le fi­ne­stre, die­tro la scri­va­nia: rap­pre­sen­ta­va una pie­tra pre­zio­sa ver­de, sfac­cet­ta­ta, po­sta su una fa­scia dia­go­na­le ne­ra, su sfon­do ver­de. Ai la­ti del­lo stem­ma era­no fis­sa­te a mu­ro, in bel­la vi­sta, le ar­mi usa­te dal de­fun­to, tra le qua­li ri­co­nob­be la fa­mo­sa Spa­da del­la Pie­tra Ver­de: un’ar­ma di ec­cel­len­te qua­li­tà, con in­ca­stra­to nel po­mo­lo un pez­zo di ma­la­chi­te sfac­cet­ta­ta, si­mi­le a quel­lo ri­pro­dot­to sul­lo stem­ma.

    In quel­la stan­za, tut­ta­via, le ar­mi più pe­ri­co­lo­se che il ve­sco­vo no­tò non era­no ap­pe­se al­la pa­re­te con l’usua­le pom­pa no­bi­lia­re, ma più umil­men­te ap­pog­gia­te sul­la scri­va­nia: si trat­ta­va di una pen­na d’oca e di un ca­la­ma­io. Sì, per­ché Fa­zio sa­pe­va leg­ge­re e scri­ve­re (ca­so po­co fre­quen­te tra i bla­so­na­ti) e que­ste sue ca­pa­ci­tà ave­va­no da­to ori­gi­ne al­le pre­oc­cu­pa­zio­ni del ve­sco­vo quan­do, tem­po pri­ma, era ve­nu­to a sa­pe­re che sta­va scri­ven­do le sue me­mo­rie.

    Se ciò ri­spon­de­va al ve­ro (ed ave­va po­chi dub­bi in pro­po­si­to), ora che Fa­zio era mor­to do­ve­va im­pa­dro­nir­si di que­gli scrit­ti e leg­ger­li pri­ma di chiun­que al­tro: vi si po­te­va­no ce­la­re in­for­ma­zio­ni im­por­tan­ti e for­se in­si­die le­ta­li. Scrip­ta ma­nent, pen­sò: men­tre qual­sia­si chiac­chie­ra può es­se­re con­fu­ta­ta da al­tre chiac­chie­re, ciò che un no­bi­le del suo ran­go e del­la sua fa­ma ave­va la­scia­to scrit­to non po­te­va in nes­sun ca­so es­se­re sot­to­va­lu­ta­to, né tan­to­me­no igno­ra­to.

    Ispe­zio­nò feb­bril­men­te le scaf­fa­la­tu­re del­la pa­re­te de­stra do­ve era­no ri­po­ste nu­me­ro­se per­ga­me­ne, in mag­gio­ran­za ar­ro­to­la­te: co­di­ci ri­guar­dan­ti va­ri ar­go­men­ti (al­cu­ni scrit­ti in la­ti­no), map­pe, di­se­gni di for­ti­fi­ca­zio­ni ed ar­mi, ma de­ci­sa­men­te nul­la che so­lo as­so­mi­glias­se ad un’au­to­bio­gra­fia. La­sciò ca­de­re le brac­cia sui fian­chi, sco­rag­gia­to: che qual­cu­no l’aves­se pre­ce­du­to? Poi, la sua at­ten­zio­ne fu at­trat­ta da un ar­ma­diet­to chiu­so, po­sto al­la si­ni­stra del­la por­ta d’in­gres­so, che en­tran­do non ave­va no­ta­to e che gli sem­brò ab­ba­stan­za ca­pien­te da con­te­ne­re del­le per­ga­me­ne. For­se c’era an­co­ra una spe­ran­za. Tro­vò la re­la­ti­va chia­ve in­ca­stra­ta sot­to il cas­set­to del­la scri­va­nia (na­scon­di­glio ab­ba­stan­za ba­na­le, che pe­ral­tro lui stes­so uti­liz­za­va nel suo stu­dio ve­sco­vi­le) e con es­sa aprì ner­vo­sa­men­te l’ar­ma­diet­to.

    La lu­ce del mat­ti­no in­ve­stì un vo­lu­mi­no­so pac­co di per­ga­me­ne, non ri­le­ga­to, ap­pog­gia­to sul­lo scaf­fa­le cen­tra­le. Ar­raf­fò con una ma­no il fo­glio in ci­ma, men­tre con l’al­tra estrae­va dal­la ta­sca una len­te, at­tra­ver­so la qua­le les­se feb­bril­men­te le pri­me ri­ghe: sen­za al­cun dub­bio era ciò che cer­ca­va - e, se quel­le po­che fra­si era­no so­lo l’ini­zio, po­te­va ben fi­gu­rar­si la pe­ri­co­lo­si­tà del pro­sie­guo. Do­po una bre­ve ri­fles­sio­ne, ri­po­se la per­ga­me­na sul­le al­tre, ac­co­stò le an­te dell’ar­ma­dio e ri­chia­mò i ser­vi.

    Por­ta­te­mi la cas­sa con le ve­sti da ce­ri­mo­nia, che è giù nel car­ro. Su­bi­to. or­di­nò.

    I due ser­vi ub­bi­di­ro­no e po­co do­po rien­tra­ro­no con la cas­sa.

    Fuo­ri. ag­giun­se sem­pli­ce­men­te ed i ser­vi si di­le­gua­ro­no all’istan­te. Aprì la cas­sa con una pic­co­la chia­ve che te­ne­va ap­pe­sa al col­lo e la svuo­tò, in­dos­san­do in fret­ta i pa­lu­da­men­ti lì ri­po­sti; poi, non sen­za dif­fi­col­tà, tra­sfe­rì le per­ga­me­ne dal­lo scaf­fa­le al­la cas­sa (ci sta­va­no a sten­to in lar­ghez­za, pie­gan­do un po’ i bor­di) e quin­di la chiu­se a chia­ve. In­fi­ne ri­chiu­se l’ar­ma­dio e ri­mi­se la re­la­ti­va chia­ve do­ve l’ave­va tro­va­ta.

    Si ras­set­tò le ve­sti: era or­mai tem­po di pre­sen­tar­si al­la ca­me­ra ar­den­te per le ora­zio­ni fu­ne­bri di ri­to, pri­ma del­la se­pol­tu­ra. Più tar­di, ter­mi­na­te le ce­ri­mo­nie, si sa­reb­be te­nu­to ad­dos­so le ve­sti sa­cre, dan­do l’in­ca­ri­co di ri­por­ta­re la cas­sa ad al­tri due ser­vi, in mo­do che nes­su­no no­tas­se la dif­fe­ren­za di pe­so.

    Quel po­me­rig­gio, ri­ma­sto so­lo nel suo stu­dio al ve­sco­va­do, Gan­dol­fo estras­se dal­la cas­sa il pac­co di per­ga­me­ne e lo de­po­se sul­la scri­va­nia. Igno­ra­va le ra­gio­ni che ave­va­no spin­to Fa­zio a scri­ve­re le sue me­mo­rie; for­se det­ta­te dal de­si­de­rio di la­scia­re die­tro a sé trac­cia del­le pro­prie mo­vi­men­ta­te vi­cis­si­tu­di­ni, for­se da qual­che oscu­ro di­se­gno, for­se da en­tram­bi. Co­mun­que, se il te­sto rac­con­ta­va un pez­zo del­la sto­ria pas­sa­ta di quel feu­do, po­te­va con­te­ne­re ri­ve­la­zio­ni at­te ad in­fluen­zar­ne quel­la fu­tu­ra - e so­prat­tut­to il suo fu­tu­ro di ve­sco­vo. Scor­se ra­pi­da­men­te i fo­gli del vo­lu­mi­no­so scrit­to: ven­ti­cin­que ca­pi­to­li scrit­ti in pri­ma per­so­na, che ini­zia­va­no pro­prio l’ul­ti­mo gior­no da lui tra­scor­so all’ab­ba­zia, per ter­mi­na­re qual­che gior­no do­po la fa­mo­sa Bat­ta­glia dell’An­sa. Cu­rio­sa­men­te, man­ca­va­no del tut­to pre­fa­zio­ne e de­di­che; inol­tre le no­te a la­to del te­sto, pe­ral­tro in nu­me­ro as­sai li­mi­ta­to, era­no sta­te ac­cu­ra­ta­men­te can­cel­la­te.

    Ri­tor­nò al­la pri­ma pa­gi­na ed ini­ziò la let­tu­ra al­la lu­ce del so­le che or­mai tra­mon­ta­va, at­ten­to ad ogni sin­go­la pa­ro­la che gli ap­pa­ri­va at­tra­ver­so la len­te.

    Cap. 1 - Partenza

    Au­rea pri­ma sa­ta est ae­tas, quae vin­di­ce nul­lo ...

    La pen­na d’oca scor­re­va pi­gra sul­la per­ga­me­na la­scian­do­si die­tro le trac­ce d’in­chio­stro, ora esi­li, ora più mar­ca­te, del te­sto la­ti­no ri­co­pia­to, men­tre trat­te­ne­vo a sten­to l’en­ne­si­mo sba­di­glio. Nel­la scar­sa lu­ce del si­len­zio­so scrip­to­rium, se­du­to al mio ta­vo­lo, con­trae­vo e ri­la­scia­vo con­ti­nua­men­te i mu­sco­li dei pie­di av­vol­ti in un mi­se­ro pan­no, nel ten­ta­ti­vo di com­bat­te­re il fred­do che li ag­gre­di­va. I me­si in­ver­na­li era­no di gran lun­ga i peg­gio­ri per l’at­ti­vi­tà di co­pia­tu­ra, so­prat­tut­to da quan­do l’aba­te le­si­na­va su ri­scal­da­men­to e il­lu­mi­na­zio­ne, con la scu­sa del­la cri­si che in­com­be­va sull’ab­ba­zia. In­ti­riz­zi­to, con­ti­nuai a ver­ga­re svo­glia­ta­men­te:

    ... spon­te sua, si­ne le­ge, fi­dem rec­tum­que co­le­bat ...

    "Ve­do che sia­mo ap­pe­na all’Età dell’oro: ti fa­ce­vo mol­to più avan­ti, sai ... ".

    La vo­ce, vi­ci­nis­si­ma, mi fe­ce sob­bal­za­re: era fra’ De­ci­mo, il brac­cio de­stro dell’aba­te Ru­bi­ni che, se­con­do il suo sti­le più clas­si­co, si era av­vi­ci­na­to si­len­zio­sa­men­te per spiar­mi e non si era ri­spar­mia­to un com­men­to sul­la mia scar­sa ef­fi­cien­za. I trat­ti du­ri del vol­to af­fi­la­to, la cal­vi­zie, l’al­ta fron­te e i ne­ri oc­chiet­ti in­da­ga­to­ri sem­bra­va­no fat­ti ap­po­sta per in­ti­mo­ri­re i suoi in­ter­lo­cu­to­ri e ben si ad­di­ce­va­no all’at­teg­gia­men­to bef­far­do che ave­va as­sun­to per l’oc­ca­sio­ne. Men­tre si chi­na­va sul­la per­ga­me­na il suo sa­io si sco­stò ap­pe­na dal cor­po sco­pren­do una pro­fon­da ci­ca­tri­ce, che par­ten­do dal­la ba­se del col­lo, a de­stra, scen­de­va in dia­go­na­le giù sul pet­to. Nes­su­no all’ab­ba­zia sa­pe­va co­me se la fos­se pro­cu­ra­ta.

    Un bru­sio per­cor­se la va­sta sa­la; an­che se si era ri­vol­to sol­tan­to a me, ave­va fat­to in mo­do di es­se­re udi­to fin al­la pa­re­te op­po­sta, co­sic­ché mol­ti mo­na­ci sta­va­no già bi­sbi­glian­do com­men­ti sul­la sce­net­ta, al­cu­ni ri­dac­chian­do. As­sie­me al­la sua cul­tu­ra clas­si­ca, fra’ De­ci­mo ama­va far sfog­gio an­che dell’au­to­ri­tà che gli de­ri­va­va più dal suo ruo­lo di ti­ra­pie­di e spia dell’aba­te, che dal­la sua rea­le po­si­zio­ne ge­rar­chi­ca nel mo­na­ste­ro. In­fat­ti, sol­le­va­ta la te­sta dal mio scrit­to, per­cor­se la sa­la con uno sguar­do se­mi­cir­co­la­re di se­ve­ra di­sap­pro­va­zio­ne, al pun­to che i mo­na­ci si ri­tuf­fa­ro­no su­bi­to nei lo­ro te­sti, fin­gen­do di non es­ser­ne mai sta­ti di­stol­ti.

    L’aba­te ti vuo­le so­pra, su­bi­to. pro­se­guì asciut­to riz­zan­do­si e ag­giun­gen­do con la sua so­li­ta aria di sup­po­nen­za: Sem­bra che per te ci sia aria di smo­bi­li­ta­zio­ne: quin­di muo­vi­ti, che non ha al­tro tem­po da per­de­re sul tuo ca­so!

    Im­prov­vi­sa con­vo­ca­zio­ne da par­te dell’aba­te in per­so­na, smo­bi­li­ta­zio­ne, il mio ca­so? Pa­ro­le che po­te­va­no ave­re una so­la im­pli­ca­zio­ne …

    De­po­sta la pen­na d’oca, mi al­zai ner­vo­sa­men­te, di­men­ti­can­do che lo strac­cio mi av­vol­ge­va an­co­ra i pie­di; per un at­ti­mo per­si l’equi­li­brio, e fra’ De­ci­mo mi sor­res­se con un so­spi­ro di com­mi­se­ra­zio­ne, men­tre ur­ta­vo col fian­co il bor­do del ta­vo­lo. Qual­che ri­so­li­no giun­se dai ta­vo­li più vi­ci­ni.

    At­ten­to, che ri­schi di spar­ge­re l’in­chio­stro ... ag­giun­se con ir­ri­tan­te suf­fi­cien­za - ma ero trop­po pre­oc­cu­pa­to per ba­dar­gli.

    Se­gui­mi! or­di­nò sec­co il ruf­fia­no, pre­ce­den­do­mi de­ci­so ver­so l’usci­ta del­lo scrip­to­rium, che at­tra­ver­sai sot­to gli sguar­di in­cu­rio­si­ti dei mo­na­ci; non ne ave­vo nean­che var­ca­to la so­glia, che già il bor­bot­tio dei lo­ro com­men­ti cre­sce­va al­le mie spal­le. At­tra­ver­sa­to il cor­ri­do­io che col­le­ga­va l’am­pia sa­la al­la bi­blio­te­ca, svol­tam­mo per sa­li­re una sca­la a chioc­cio­la, do­ve uno spif­fe­ro d’aria ge­li­da mi fe­ce rab­bri­vi­di­re. Fra’ Ger­va­so ave­va il com­pi­to di ri­pa­ra­re la fi­ne­strel­la qui so­pra - com­men­tò aci­do fra’ De­ci­mo - ed al so­li­to se l’è pre­sa co­mo­da; tan­to, non è mi­ca quel­la del­la sua cel­la ... . Per­cor­rem­mo al­tri cor­ri­doi svol­tan­do ora a de­stra, ora a si­ni­stra, tan­to che per­si l’orien­ta­men­to, fin­ché non ci tro­vam­mo di­nan­zi ad una mas­sic­cia por­ta di quer­cia, il­lu­mi­na­ta da una tor­cia fis­sa­ta a mu­ro, sul­la de­stra: l’in­gres­so del­la stan­za di la­vo­ro dell’aba­te. At­ten­di qui mi or­di­nò men­tre bus­sa­va. Una vo­ce all’in­ter­no dis­se qual­co­sa che so­lo fra’ De­ci­mo com­pre­se, tan­to che aprì la por­ta ed en­trò ri­chiu­den­do­la su­bi­to al­le spal­le.

    Ri­ma­sto so­lo, mi mi­si a pas­seg­gia­re in­quie­to avan­ti e in­die­tro. Se quan­to ave­va an­ti­ci­pa­to fra’ De­ci­mo era ve­ro, pre­sto (for­se quel gior­no stes­so) l’aba­te mi avreb­be mes­so al­la por­ta, po­nen­do ter­mi­ne al­la mia lun­ga pa­ren­te­si nell’ab­ba­zia ed espo­nen­do­mi al mon­do ester­no: era la li­ber­tà, che pe­rò po­te­va im­pli­ca­re una ra­pi­da mor­te, pen­sai cu­po. Mi fe­ci co­rag­gio: do­po­tut­to, ero an­co­ra vi­vo ed in buo­na sa­lu­te, e fa­sciar­si la te­sta pri­ma di ri­ce­ve­re il col­po era quan­to di più fu­ti­le. Mi ras­set­tai il sa­io e, vin­cen­do il ner­vo­si­smo, m’im­po­si di star rit­to di­nan­zi al­la por­ta, as­su­men­do un ci­pi­glio ri­so­lu­to. Ap­pe­na in tem­po, per­ché pro­prio in quel mo­men­to riap­par­ve fra’ De­ci­mo, che con un bru­sco cen­no del ca­po m’in­giun­se di en­tra­re, in­di­can­do nel con­tem­po lo strac­cio dei pie­di che te­ne­vo an­co­ra in ma­no: Quel­lo puoi la­sciar­lo fuo­ri - dis­se ar­ric­cian­do il na­so - ma­ga­ri puz­za.

    De­po­sto il pan­no nel­la nic­chia sot­to la tor­cia, en­trai con de­ci­sio­ne, tan­to che al mio pas­sag­gio fra’ De­ci­mo si sco­stò sor­pre­so, per poi chiu­de­re la por­ta al­le mie spal­le, ri­ma­nen­do fuo­ri. L’esclu­sio­ne del ti­ra­pie­di dal col­lo­quio mi die­de un cer­to sol­lie­vo, an­che se la sua abi­li­tà nell’ori­glia­re era tri­ste­men­te no­ta all’ab­ba­zia.

    Mi ri­tro­vai in un’am­pia stan­za, ben ri­scal­da­ta da un ca­mi­net­to ed al­tret­tan­to ben il­lu­mi­na­ta da due tor­ce ap­pli­ca­te al­le pa­re­ti - de­ci­sa­men­te, la cri­si che tra­va­glia­va il mo­na­ste­ro era ri­ma­sta fuo­ri dal­lo stu­dio dell’aba­te. Una fi­ne­stra la­te­ra­le la­scia­va en­tra­re la lu­ce gri­gia di quel ge­li­do mat­ti­no di gen­na­io. Ai la­ti vi era­no scaf­fa­la­tu­re ri­col­me di co­di­ci e per­ga­me­ne ar­ro­to­la­te. Di fron­te al­la por­ta il cor­pu­len­to aba­te Ru­bi­ni e uno sco­no­sciu­to ma­gro e dall’aria asce­ti­ca, se­du­ti die­tro un’am­pia scri­va­nia, sta­va­no con­sul­tan­do un gros­so co­di­ce, su cui il se­con­do sta­va in­di­can­do qual­co­sa al pri­mo, che an­nui­va gra­ve­men­te.

    Fat­ti avan­ti, Fa­zio, fat­ti avan­ti! esor­dì l’aba­te con un to­no qua­si bo­na­rio, sen­za pe­rò di­sto­glie­re gli oc­chi dal co­di­ce; lo sco­no­sciu­to, in­ve­ce, riz­zò il ca­po e mi fis­sò dal­la te­sta ai pie­di con uno sguar­do di at­ten­ta va­lu­ta­zio­ne. Una se­dia a brac­cio­li era di­spo­sta di fron­te al ta­vo­lo; l’oc­cu­pai sul­lo slan­cio, sen­za pe­ral­tro aver­ne ri­ce­vu­to l’in­vi­to. L’aba­te, al­za­ti fi­nal­men­te gli oc­chi, mi pre­sen­tò lo sco­no­sciu­to con un va­go cen­no del­la ma­no.

    Sei al co­spet­to del dia­co­no Si­gi­smon­do, che è qui per vo­le­re del ve­sco­vo. - esor­dì so­len­ne, men­tre l’al­tro si­len­zio­sa­men­te an­nui­va, sen­za stac­car­mi i gran­di oc­chi az­zur­ri di dos­so - E’ ve­nu­to qui, tra l’al­tro, per aiu­tar­mi a ri­sol­ve­re il tuo ca­so.

    Il mio ca­so? Co­me po­te­va il ve­sco­vo in per­so­na in­te­res­sar­si a me? Or­mai, do­po la ro­vi­na del­la mia fa­mi­glia, con­ta­vo qual­co­sa so­lo per quel­li che mi vo­le­va­no mor­to, men­tre per l’aba­te rap­pre­sen­ta­vo so­lo un im­pic­cio del qua­le li­be­rar­si al più pre­sto - e non ave­va cer­to bi­so­gno del per­mes­so del ve­sco­vo per far­lo. De­ci­sa­men­te, qual­co­sa non qua­dra­va. Sva­ni­to lo slan­cio ini­zia­le, il ner­vo­si­smo sta­va ri­pren­den­do il so­prav­ven­to.

    Fa­zio Aghi­le­ri - pro­se­guì gra­ve­men­te l’aba­te - rias­su­mo la tua sto­ria più re­cen­te, an­che per me­glio in­for­mar­ne il mio ospi­te. A cau­sa del­la pro­fon­da ami­ci­zia che mi le­ga­va al tuo de­fun­to pa­dre, ac­cet­tai (or­mai son più di due an­ni) di ac­co­glier­ti nell’ab­ba­zia in un mo­men­to per te mol­to dif­fi­ci­le: la fa­mi­glia dei Bri­zi ti era al­le cal­ca­gna per ven­di­ca­re il pri­mo­ge­ni­to Astol­fo che ave­vi uc­ci­so in duel­lo ...

    C ... cer­to - osai in­ter­lo­qui­re - i Bri­zi mi sguin­za­glia­ro­no die­tro i lo­ro si­ca­ri per ta­gliar­mi la go­la e get­ta­re il mio cor­po in qual­che fos­so, men­tre Astol­fo ed io ci era­va­mo bat­tu­ti in un re­go­la­re duel­lo ...

    Non avrei do­vu­to dir­lo: la ma­no de­stra dell’aba­te, che fi­no a quel mo­men­to ave­va on­deg­gia­to a mezz’aria, ac­com­pa­gnan­do va­ga­men­te l’in­ce­de­re pom­po­so del suo di­scor­so, s’ab­bat­té a pal­ma aper­ta sul­la scri­va­nia, con un ur­to che mi fe­ce sob­bal­za­re - no­tai che il dia­co­no, in­ve­ce, ri­ma­ne­va im­pas­si­bi­le.

    Non esi­sto­no re­go­la­ri duel­li di­nan­zi a No­stro Si­gno­re! - m’in­ter­rup­pe ta­glien­te - Esi­sto­no so­lo uo­mi­ni che uc­ci­do­no al­tri uo­mi­ni vio­lan­do la Sua Leg­ge e l’in­fer­no che li at­ten­de!

    Se l’aba­te in per­so­na già mi ve­de­va tra i dan­na­ti, le co­se si sta­va­no met­ten­do dav­ve­ro ma­le.

    Ed an­che li­mi­tan­do­ci ai so­li af­fa­ri ter­re­ni - esor­dì la vo­ce pro­fon­da di Si­gi­smon­do - tut­ti san­no che i duel­li so­no il­le­ga­li, an­che se voi no­bi­li ave­te sem­pre fin­to d’igno­rar­lo, ri­sol­ven­do i con­ten­zio­si a mo­do vo­stro.

    Di ma­le in peg­gio: se per­si­no l’in­via­to del ve­sco­vo era ma­le­vo­lo nei miei con­fron­ti, al­lo­ra non ave­vo pro­prio scam­po. D’istin­to, aprii la boc­ca per rin­tuz­za­re, ma l’aba­te mi an­ti­ci­pò - e for­se fu un be­ne.

    Ma chi sia­mo noi - ri­pre­se col to­no re­to­ri­co di pri­ma, men­tre la ma­no ri­di­se­gna­va tra­iet­to­rie nell’aria - per giu­di­ca­re gli uo­mi­ni al Suo po­sto? A tem­po de­bi­to No­stro Si­gno­re prov­ve­de­rà a far­lo, nel­la Sua in­fi­ni­ta mi­se­ri­cor­dia!

    Spe­ria­mo be­ne.

    Tor­nan­do al­le tue vi­cen­de per­so­na­li, Fa­zio, ca­pi­rai che il mo­na­ste­ro non può ospi­tar­ti in­de­fi­ni­ta­men­te, sen­za che il tuo ruo­lo nel suo am­bi­to non sia chia­ri­to una vol­ta per tut­te: nel no­me dell’ami­ci­zia, ho già vio­la­to trop­pe re­go­le per fa­vo­rir­ti ...

    No­no­stan­te la gra­vi­tà del mo­men­to, trat­ten­ni un sor­ri­so: la ve­ri­tà era mol­to più pro­sai­ca ed as­sai po­co ave­va a che fa­re con l’ami­ci­zia. All’ini­zio l’aba­te ave­va elu­so con non­cu­ran­za le re­go­le be­ne­det­ti­ne, in­ta­scan­do le co­spi­cue som­me che mio pa­dre gli ver­sa­va in cam­bio del­la sua ospi­ta­li­tà - in at­te­sa, co­me usa­va di­re, che la que­stio­ne si ag­giu­stas­se con i Bri­zi. Mi ave­va su­bi­to as­se­gna­ta una cel­let­ta, che non ave­va esi­ta­to a riem­pi­re di te­sti re­li­gio­si quan­do, con stu­po­re per una vol­ta ge­nui­no, si era ac­cor­to che ave­vo del­le co­no­scen­ze sco­la­sti­che. Per il pre­sen­te ri­sto­ro del tuo spi­ri­to e chis­sà ... for­se per un fu­tu­ro nel no­stro mo­na­ste­ro ave­va an­nun­cia­to, pa­le­san­do l’in­ten­to d’av­viar­mi al no­vi­zia­to. Poi, con la mor­te di mio pa­dre, s’era­no in­ter­rot­ti i ver­sa­men­ti nel­le cas­se del mo­na­ste­ro e, con es­si, la sua be­ne­vo­len­za nei miei con­fron­ti. Ina­ri­di­to il flus­so d’in­troi­ti, ec­co riaf­fio­ra­re le vio­la­te re­go­le, ora im­prov­vi­sa­men­te ine­lu­di­bi­li - e tra es­se quell’Ora et La­bo­ra di cui i Be­ne­det­ti­ni an­da­va­no tan­to fie­ri. Ben pre­sto ero pas­sa­to dal gia­ci­glio nel­la mia cel­let­ta per­so­na­le a un mi­se­ro pa­glie­ric­cio nel dor­mi­to­rio co­mu­ne; su­bi­to do­po mi era­no sta­ti as­se­gna­ti i la­vo­ri più umi­li e sgra­de­vo­li, al pun­to che ave­vo ac­col­to con sol­lie­vo la suc­ces­si­va as­se­gna­zio­ne al­la fa­le­gna­me­ria, per af­fian­ca­re co­me ap­pren­di­sta l’an­zia­no fra’ Ger­va­so. Da­to lo scar­so di­na­mi­smo di que­st’ul­ti­mo, ben pre­sto la mag­gior par­te del­le sue at­ti­vi­tà era ri­ca­du­ta sul­le mie spal­le ed ero sta­to co­stret­to ad im­pa­ra­re in fret­ta quel me­stie­re ple­beo che, qua­le ram­pol­lo di no­bi­le fa­mi­glia, nean­che un an­no pri­ma avrei con­si­de­ra­to sem­pli­ce­men­te of­fen­si­vo per la di­gni­tà del mio ran­go. In­fi­ne l’aba­te, ri­ma­sto a cor­to di co­pi­sti, si era ri­cor­da­to del­la mia istru­zio­ne e mi ave­va in­tro­dot­to nel­lo scrip­to­rium. Fi­no a quel gior­no.

    E tu, d’al­tro can­to, - con­ti­nuò l’aba­te con un so­spi­ro ipo­cri­ta - non hai mai espres­so né il chia­ro pen­ti­men­to per le azio­ni pas­sa­te, né il sin­ce­ro de­si­de­rio di es­se­re in­tro­dot­to al no­vi­zia­to. Per cui, ca­pi­rai, mi tro­vo pro­prio con le spal­le al mu­ro ...

    S’in­ter­rup­pe. Ora en­tram­be le ma­ni mi mo­stra­va­no le pal­me a mezz’aria, sot­to­li­nean­do la sua im­po­ten­za di fron­te ad una si­tua­zio­ne sen­za via d’usci­ta, da me col­pe­vol­men­te crea­ta. La pau­sa, nel con­tem­po, ave­va l’ef­fet­to di una do­man­da, co­me se l’aba­te cer­cas­se un’ul­ti­ma con­fer­ma dei miei in­ten­ti.

    Esi­tai pri­ma di ri­spon­de­re. Quei due an­ni di vi­ta re­go­la­ta e al ri­pa­ro dai pe­ri­co­li del mon­do ave­va­no so­pi­ta la mia bal­dan­za, per cui con­fes­so che per un at­ti­mo (ma so­lo per un at­ti­mo) ac­ca­rez­zai an­co­ra l’idea di ada­giar­mi nel­la vi­ta mo­na­sti­ca, un po’ co­me un bim­bo si af­fi­da al­la pro­te­zio­ne del grem­bo ma­ter­no. Ma i miei vent’an­ni e l’or­go­glio no­bi­lia­re eb­be­ro su­bi­to il so­prav­ven­to, fa­cen­do­mi op­ta­re per la se­con­da al­ter­na­ti­va, pur con tut­ti i ri­schi che com­por­ta­va.

    So­no cer­ta­men­te pen­ti­to del­le mie pas­sa­te azio­ni, - men­tii, al­me­no in par­te - ma, co­me ho po­tu­to con­sta­ta­re re­cen­te­men­te, non mi sen­to pro­prio por­ta­to per la vi­ta mo­na­sti­ca ...

    Lo in­tui­vo, lo in­tui­vo. - m’in­ter­rup­pe l’aba­te, an­nuen­do con aria ad­do­lo­ra­ta - Per cui, ca­pi­rai, mi la­sci una so­la al­ter­na­ti­va: in­vi­tar­ti, sep­pur a ma­lin­cuo­re, ad ab­ban­do­na­re la no­stra ab­ba­zia per tor­nar­te­ne ... - s’in­ter­rup­pe, per poi ri­pren­de­re con mal re­ci­ta­to rin­cre­sci­men­to - ah, già, ca­pi­sco: for­se non hai nean­che più una ca­sa do­ve tor­na­re. E al­lo­ra, fi­glio­lo ...

    E al­lo­ra in­ter­vie­ne il ve­sco­vo, nel­la sua ma­gna­ni­mi­tà. - in­ter­lo­quì ina­spet­ta­ta­men­te il dia­co­no, ta­glian­do cor­to di fron­te al­le am­pol­lo­si­tà dell’aba­te - Pe­rò lui, co­me ho già an­ti­ci­pa­to all’aba­te, è in­te­res­sa­to al mo­do con cui ma­neg­gi le ar­mi, piut­to­sto che la pen­na: vor­re­sti en­tra­re al suo ser­vi­zio?

    Ri­ma­si sor­pre­so: dun­que, vi era­no de­gli ar­ma­ti agli or­di­ni del ve­sco­vo. Ne­gli an­ni del­la mia se­gre­ga­zio­ne la si­tua­zio­ne po­li­ti­ca in quel lem­bo d’Ita­lia, pri­ma co­sì sta­gnan­te, do­ve­va aver su­bi­to dei bru­schi mu­ta­men­ti - e la re­cen­te pe­ste non ne era cer­to estra­nea. Pri­ma di ri­spon­de­re fe­ci una pau­sa stu­dia­ta. No­tai che una cer­ta an­sie­tà tra­pe­la­va dal­lo sguar­do dell’aba­te: era chia­ro che non ve­de­va l’ora di li­be­rar­si di me, evi­tan­do re­si­sten­ze e po­le­mi­che. In­ve­ce, il dia­co­no ave­va un at­teg­gia­men­to qua­si an­no­ia­to, co­me se già co­no­sces­se la mia ri­spo­sta.

    Ac­con­sen­tii si­mu­lan­do una va­ga in­cer­tez­za, giu­sto per non dar­la vin­ta tan­to fa­cil­men­te a Si­gi­smon­do.

    Be­ne! - escla­mò d’ac­chi­to l’aba­te, con evi­den­te sol­lie­vo - Al­lo­ra, ca­ro fi­glio­lo, non ti re­sta che pren­de­re le tue co­se e se­gui­re il dia­co­no, che og­gi stes­so ti por­te­rà in cit­tà, sot­to scor­ta.

    La scor­ta ser­ve con­tro i mal­fat­to­ri che in­fe­sta­no le stra­de - pre­ci­sò Si­gi­smon­do con vo­ce piat­ta - non cer­to per te­ne­re te in cu­sto­dia. E d’al­tro can­to, do­ve po­tre­sti fug­gi­re? - ag­giun­se con iro­nia, per nien­te ve­la­ta - tra le grin­fie dei Bri­zi? Quin­di si al­zò, mo­stran­do un fi­si­co asciut­to ed una sta­tu­ra ben su­pe­rio­re al­la me­dia.

    Se­guì il com­mia­to dell’aba­te, piut­to­sto af­fret­ta­to an­che se ric­co di con­ve­ne­vo­li, se­con­do il suo sti­le. Mi in­di­riz­zò da fra’ Mar­co, al pia­no di sot­to, per ria­ve­re quan­to ave­vo con­se­gna­to all’in­gres­so dell’ab­ba­zia, due an­ni pri­ma, da tra­fe­la­to fug­gi­ti­vo. Per ab­bre­via­re il per­cor­so mi in­di­cò una por­ti­ci­na che non ave­vo nean­che no­ta­to, se­mi­na­sco­sta com’era die­tro gli scaf­fa­li in un an­go­lo del­la stan­za, a de­stra del­la scri­va­nia. Men­tre l’apri­vo in­di­riz­zan­do l’ul­ti­mo sa­lu­to all’aba­te, mi par­ve di udi­re dall’al­tra par­te un fru­scio, se­gui­to dal­lo scal­pic­cio di qual­cu­no che si al­lon­ta­na­va in fret­ta. Era lì die­tro che si era ap­po­sta­to fra’ De­ci­mo per ori­glia­re?

    Ac­com­pa­gna­to da Si­gi­smon­do mi pre­sen­tai da fra’ Mar­co, che evi­den­te­men­te ave­va già ri­ce­vu­te le de­bi­te istru­zio­ni, in quan­to mi ri­con­se­gnò sen­za com­men­ti il fa­got­to con i miei abi­ti no­bi­lia­ri (in­clu­sa la tu­ni­ca strap­pa­ta e mac­chia­ta del san­gue ver­sa­to nel duel­lo) e, so­prat­tut­to, la mia spa­da. Pro­vai un fre­mi­to al con­tat­to con la vec­chia la­ma, do­na­ta­mi da mio pa­dre quand’ero an­co­ra ado­le­scen­te, e ne ca­rez­zai l’im­pu­gna­tu­ra: per an­ni l’ave­vo con­si­de­ra­ta co­me par­te di me stes­so, l’og­get­to cui af­fi­da­re le mie sor­ti nei con­flit­ti del mon­do. Aver­la nuo­va­men­te a di­spo­si­zio­ne mi da­va l’il­lu­sio­ne di riac­qui­sta­re la pie­nez­za del­le mie fa­col­tà e il po­te­re d’un tem­po. Ac­ca­rez­zai la pie­tra ver­de (sim­bo­lo del­la mia fa­mi­glia) che ne or­na­va il po­mo­lo e la sfo­de­rai a me­tà, chiu­si gli oc­chi in esta­si e strin­si for­te im­pu­gna­tu­ra e la­ma, fin qua­si a far­mi ma­le.

    Una la­ma in più può far­ci co­mo­do an­che du­ran­te il tra­git­to - com­men­tò Si­gi­smon­do - nel ca­so di as­sal­to dei fuo­ri­leg­ge. Se ca­pi­tas­se, spe­ro che tu la sap­pia usa­re tan­to be­ne quan­to hai fat­to con Astol­fo.

    Quel­la di rin­fac­ciar­mi il mio pas­sa­to do­ve­va es­se­re la tat­ti­ca scel­ta da Si­gi­smon­do per man­te­ner­mi in sog­ge­zio­ne, fa­cen­do­mi ca­pi­re che or­mai era lui, per vo­le­re del ve­sco­vo, a te­ne­re il col­tel­lo dal­la par­te del ma­ni­co. Lie­ve­men­te ir­ri­ta­to, sta­vo per chie­der­gli qua­le fos­se il con­tri­bu­to di un dia­co­no im­bel­le co­me lui nel ca­so di scon­tro ar­ma­to (un’ac­co­ra­ta pre­ghie­ra?), quan­do fra’ Mar­co in­ter­rup­pe i miei pen­sie­ri por­gen­do­mi il mio pu­gna­le ed il mio anel­lo col si­gil­lo de­gli Aghi­le­ri ed ag­giun­gen­do, con vo­ce piat­ta:

    Di­men­ti­chi que­sti; e di­men­ti­chi che il sa­io che in­dos­si non ti ap­par­tie­ne.

    Po­co do­po, cam­bia­to il sa­io con i miei vec­chi abi­ti no­bi­lia­ri (che ora mi sta­va­no piut­to­sto lar­ghi), ed in­dos­sa­ti man­tel­lo ed ar­mi, mi av­viai nel cor­ti­le dell’ab­ba­zia, do­ve ci at­ten­de­va­no ot­to ca­va­lie­ri già in sel­la e due sol­da­ti al­la gui­da di un car­ro col cas­so­ne ri­pa­ra­to da un te­lo­ne, trai­na­to da due buoi. No­tai che Si­gi­smon­do sol­le­va­va il cap­puc­cio del man­tel­lo e si co­pri­va la fac­cia riu­nen­do­ne da­van­ti i lem­bi, co­me per­so­na che non vuol pa­le­sa­re le sue sem­bian­ze.

    Mi col­pì su­bi­to l’equi­pag­gia­men­to dei ca­va­lie­ri: in­dos­sa­va­no ar­ma­tu­re tut­te egua­li, con pet­to­ra­li e scu­di co­per­ti da un drap­po di stof­fa bian­ca, at­tra­ver­sa­to dia­go­nal­men­te da un stri­scia ros­sa, con due cro­ci az­zur­re sul­le ban­de op­po­ste. Era lo stem­ma del ve­sco­vo. Due scu­di, re­can­ti lo stes­so stem­ma, era­no fis­sa­ti a fian­co del po­sto di gui­da, a pro­te­zio­ne dei coc­chie­ri. De­gli ar­ma­ti co­sì ben or­ga­niz­za­ti da­va­no un’in­so­li­ta sen­sa­zio­ne di or­di­ne e si­cu­rez­za, di­stin­guen­do­si net­ta­men­te dal­le sol­da­ta­glie ma­le in ar­ne­se che da quel­le par­ti si met­te­va­no agli or­di­ni dei va­ri si­gno­rot­ti - spes­so, più per ru­ba­re e stu­pra­re in­di­stur­ba­te che per di­fen­de­re gli in­te­res­si del lo­ro pa­dro­ne.

    Si­ste­ma­ti sot­to il te­lo­ne e re­sta­ci, sen­za met­te­re il na­so fuo­ri. - or­di­nò il dia­co­no - Tro­ve­rai del­le co­per­te.

    Si­gi­smon­do con­fa­bu­lò bre­ve­men­te con un coc­chie­re, sem­pre te­nen­do il vi­so ce­la­to, e guar­dò pre­oc­cu­pa­to le fi­ne­strel­le che si af­fac­cia­va­no sul cor­ti­le. Quin­di sa­lì an­che lui, se­den­do­si ac­can­to a me sot­to il te­lo­ne. Non pos­sia­mo cer­to im­pe­di­re che le spie dei Bri­zi li in­for­mi­no del­la tua par­ten­za. - ag­giun­se - Spe­ria­mo che al­me­no non co­no­sca­no la tua de­sti­na­zio­ne e gli in­ten­ti del ve­sco­vo.

    An­che un fred­do cal­co­la­to­re co­me Si­gi­smon­do ave­va i suoi mo­men­ti d’in­ge­nui­tà, pen­sai, fi­gu­ran­do­mi fra’ De­ci­mo con l’orec­chio ap­pic­ci­ca­to al­la por­ti­ci­na del­la stan­za dell’aba­te.

    Men­tre fa­ce­vo po­sto al dia­co­no nell’an­gu­sto cas­so­ne, ur­tai col fian­co una cas­set­ta di le­gno con rin­for­zi in me­tal­lo, si­ste­ma­ta in un an­go­lo, sot­to le co­per­te. Quel­la non toc­car­la, è ro­ba che de­vo por­ta­re al ve­sco­vo. - mi dis­se - Non sto fa­cen­do que­sto viag­gio so­lo per te, na­tu­ral­men­te.

    Il car­ro si mos­se nel cor­ti­le tra va­ri scric­chio­lii, at­tra­ver­sò l’in­gres­so dell’ab­ba­zia e si av­ven­tu­rò tra­bal­lan­te nei sol­chi del­la stra­da per la cit­tà, por­tan­do­mi ver­so il mio in­cer­to fu­tu­ro.

    Cap. 2 - Diaconi e vescovi

    Si­ste­ma­ti al­la me­no peg­gio nel cas­so­ne del car­ro, av­vol­ti nel­le co­per­te per di­fen­der­ci dal fred­do pun­gen­te, ve­de­va­mo scor­re­re ai la­ti del­la stra­da la tri­ste cam­pa­gna in­ver­na­le, do­ve non man­ca­va­no spet­tra­li ca­so­la­ri ab­ban­do­na­ti ed ap­pez­za­men­ti chis­sà da quan­to in­col­ti. Si­gi­smon­do era chiu­so in un pen­so­so si­len­zio; a trat­ti sco­sta­va il te­lo­ne per os­ser­va­re il pae­sag­gio, poi scuo­te­va tri­ste­men­te la te­sta, fa­cen­do tra­pe­la­re uno sco­ra­men­to che mi pa­re­va sin­ce­ro.

    La pe­ste ... - mor­mo­rò ad un cer­to pun­to tra se’, con aria scon­so­la­ta - L’Al­tis­si­mo ha vo­lu­to pu­nir­ci …

    Da par­te mia, all’ine­brian­te sen­sa­zio­ne di riac­qui­si­ta li­ber­tà che ave­vo pro­va­to uscen­do dall’ab­ba­zia era pre­sto su­ben­tra­ta l’in­quie­tu­di­ne per le mie pro­spet­ti­ve fu­tu­re. A ben ve­de­re la se­gre­ga­zio­ne be­ne­det­ti­na, per quan­to no­io­sa e spes­so sgra­de­vo­le, mi ave­va sal­va­to due vol­te la vi­ta, pre­ser­van­do­mi sia dai si­ca­ri che dal con­ta­gio - e, se cor­re­va vo­ce che la pe­ste si fos­se or­mai pla­ca­ta, non po­te­vo cer­to spe­ra­re che lo fos­se an­che la se­te di ven­det­ta di Mo­nal­do Bri­zi, il pa­dre di Astol­fo, che si era vi­sto to­glie­re il pri­mo­ge­ni­to. Non man­ca­va nem­me­no una cer­ta in­quie­tu­di­ne ri­guar­do ai rea­li in­ten­ti del ve­sco­vo nei miei con­fron­ti: la spie­ga­zio­ne del dia­co­no era sta­ta trop­po va­ga per es­se­re con­vin­cen­te. Men­tre ten­ta­vo di ras­si­cu­rar­mi ac­ca­rez­zan­do ora la spa­da, ora il pu­gna­le, qua­li uni­ci ami­ci ri­ma­sti, Si­gi­smon­do rup­pe ina­spet­ta­ta­men­te il si­len­zio:

    Astol­fo Bri­zi era uno tra i più abi­li spa­dac­ci­ni in cit­tà ed ave­va qual­che an­no più di te: co­me mai sei an­da­to ad in­vi­schiar­ti in un duel­lo pro­prio con lui? E so­prat­tut­to, co­me hai po­tu­to vin­ce­re? Rac­con­ta­mi i det­ta­gli del­la sfi­da: il viag­gio è lun­go … Dal to­no, de­ci­sa­men­te più in­qui­si­to­rio che col­lo­quia­le, so­spet­tai che in­ten­des­se rac­co­glie­re in­for­ma­zio­ni sul mio con­to più per ri­por­tar­le al ve­sco­vo, che per sem­pli­ce cu­rio­si­tà per­so­na­le.

    Il mio pri­mo im­pul­so fu quel­lo di ri­spon­de­re eva­si­va­men­te, per far­gli ca­pi­re che l’ar­go­men­to non mi era gra­di­to - in fon­do, che di­rit­to ave­va quel dia­co­no d’im­pic­ciar­si nel­le mie vi­cen­de pas­sa­te? Nel con­tem­po, mi re­si con­to che re­ti­cen­za e scon­tro­si­tà non era­no cer­to gli at­teg­gia­men­ti più ap­pro­pria­ti per in­gra­ziar­si il ve­sco­vo; per­tan­to, pur con­tro­vo­glia, de­ci­si di ri­spon­der­gli, te­nen­do­mi pe­rò sul va­go ri­guar­do al­le cau­se del­lo scon­tro.

    Fu una sfi­da per que­stio­ni d’ono­re. - esor­dii - La ra­du­ra scel­ta per bat­ter­ci era ben no­ta a noi gio­va­ni di no­bi­le fa­mi­glia: in quel luo­go vi­ci­no al­le ter­re dell’ab­ba­zia, lon­ta­no da oc­chi in­di­scre­ti e cir­con­da­to da fol­ta ve­ge­ta­zio­ne, da­va­mo pro­va del no­stro co­rag­gio re­go­lan­do i con­ti con duel­li al­la spa­da, a vol­te fe­ren­do­ci, pe­ral­tro sen­za mai am­maz­zar­ci. Astol­fo era più ro­bu­sto e cor­pu­len­to di me e mi su­pe­ra­va in sta­tu­ra. Fi­schiet­ta­va, osten­tan­do un at­teg­gia­men­to qua­si an­no­ia­to e muo­ven­do­si in mo­do sgra­zia­to, ple­beo, a di­spet­to del­la sua ap­par­te­nen­za una fa­mi­glia ric­ca …

    Vi è dell’evi­den­te sprez­zo in que­ste tue pa­ro­le. in­ter­lo­quì.

    Com­pre­si che mi ero la­scia­to tra­sci­na­re dall’emo­zio­ne del ri­cor­do, ci­tan­do que­stio­ni di scar­so ri­lie­vo. In­si­sten­do sul te­ma, avrei an­che po­tu­to de­scri­ve­re Astol­fo che, per im­pres­sio­nar­mi con la sua abi­li­tà, snu­da­va la spa­da, la fa­ce­va ro­tea­re ra­pi­da­men­te e si esi­bi­va in abi­li cam­bi di ma­no, co­me se stes­se muo­ven­do un fu­scel­lo; op­pu­re che, per pro­vo­car­mi, mi can­zo­na­va per la pie­tra ver­de che or­na­va il po­mo­lo del­la mia spa­da, chia­man­do­la inu­ti­le or­na­men­to da no­bi­le fi­chet­to; o in­fi­ne de­scri­ve­re la mia con­se­guen­te rea­zio­ne, rab­bio­sa quan­to in­ge­nua. De­ci­si di li­mi­tar­mi all’es­sen­zia­le:

    Par­tii su­bi­to con un af­fon­do ra­pi­do, ma non ab­ba­stan­za da sor­pren­der­lo. Mo­stran­do un’in­so­spet­ta­bi­le agi­li­tà, da­ta la mo­le, schi­vò la stoc­ca­ta qua­si con non­cu­ran­za, per poi con­trat­tac­ca­re con una se­rie di col­pi ra­pi­dis­si­mi che mi co­strin­se­ro ad ar­re­tra­re pre­ci­pi­to­sa­men­te. Ben pre­sto il te­ma del duel­lo si de­li­neò chia­ra­men­te: Astol­fo co­stan­te­men­te all’at­tac­co, con col­pi in­fer­ti sen­za so­lu­zio­ne di con­ti­nui­tà che mi im­pe­di­va­no di pren­de­re qual­si­vo­glia ini­zia­ti­va; io gio­co­for­za sul­la di­fen­si­va, spin­to ine­so­ra­bil­men­te ver­so i mar­gi­ni del­la ra­du­ra - rag­giun­ti i qua­li, li­mi­ta­to nei mo­vi­men­ti, non avrei avu­to scam­po. Ed in­fat­ti, giun­to or­mai a ri­dos­so dei ce­spu­gli che de­li­mi­ta­va­no l’area, do­po aver da­to ra­pi­de oc­chia­te ai la­ti fe­ci uno scar­to im­prov­vi­so sul­la de­stra, per ri­gua­da­gna­re in fret­ta il cen­tro del­la ra­du­ra. Ad Astol­fo pe­rò non era­no sfug­gi­ti i guiz­zi del mio sguar­do; co­sì, men­tre io ten­ta­vo di sgu­scia­re via di la­to, ese­guì un im­prov­vi­so af­fon­do che giun­se a se­gno: la la­ma, strap­pa­ta la stof­fa del­la tu­ni­ca, mi ta­gliò di net­to pel­le e car­ne del fian­co si­ni­stro. Ur­lai per il do­lo­re la­scian­do ca­de­re l’ar­ma, per­si l’equi­li­brio e mi ri­tro­vai a ter­ra, com­pri­men­do­mi la fe­ri­ta dal­la qua­le il san­gue già sgor­ga­va co­pio­so.

    Ma al­lo­ra, eri pro­prio spac­cia­to …

    Sì, mi vi­di mor­to - con­fes­sai - an­che per­ché Astol­fo mi pun­tò la spa­da al­la go­la, an­nun­cian­do­mi trion­fan­te che il duel­lo sa­reb­be sta­to all’ul­ti­mo san­gue. Inu­ti­le in­for­mar­lo che le no­stre re­go­le era­no ben di­ver­se - di noi no­bi­li, in­ten­do …

    Tan­to, lui no­bi­le non era … inol­tre, im­ma­gi­no che per te si trat­tas­se di una que­stio­ne di or­go­glio: il ben no­to or­go­glio de­gli Aghi­le­ri …

    In­fat­ti, un ve­ro Aghi­le­ri si sa­reb­be la­scia­to am­maz­za­re piut­to­sto che chie­der gra­zia, umi­lian­do­si di fron­te ad uno zo­ti­co co­me quel­lo. Ma che ne po­te­va sa­pe­re quel sem­pli­ce dia­co­no, mai vi­sto pri­ma, di noi Aghi­le­ri e del no­stro or­go­glio? In­co­min­cia­vo a con­si­de­ra­re la fi­gu­ra di Si­gi­smon­do con va­go so­spet­to. Pro­se­guii:

    Astol­fo ri­tras­se l’ar­ma e si mi­se a gi­rar­mi in­tor­no, can­tic­chian­do con fa­re can­zo­na­to­rio ed ogni tan­to pun­zec­chian­do­mi. Do­po un pa­io di gi­ri si fer­mò, fe­ce un pas­so in­die­tro e, scher­nen­do­mi, mi in­vi­tò a rial­zar­mi, ag­giun­gen­do che non era ab­ba­stan­za di­ver­ten­te fi­nir­mi men­tre gia­ce­vo im­po­ten­te a ter­ra. In­ve­ce, vo­le­va to­glier­si lo sfi­zio di in­fil­zar­mi men­tre lo fron­teg­gia­vo in pie­di, spa­da al­la ma­no.

    Un ve­ro ca­va­lie­re, in­som­ma! sog­ghi­gnò sar­ca­sti­co Si­gi­smon­do, che fi­nal­men­te sem­bra­va sim­pa­tiz­za­re per me.

    Pe­rò non si era re­so con­to che, co­sì fa­cen­do, ora mo­stra­va le spal­le ai fol­ti ce­spu­gli che de­li­mi­ta­va­no la ra­du­ra su­bi­to die­tro a lui. Di­spe­ra­to, im­pu­gnai la spa­da e, men­tre ac­cen­na­vo a rial­zar­mi, con una mos­sa rab­bio­sa, in­cu­ran­te del do­lo­re al fian­co, mi lan­ciai con­tro di lui fa­cen­do ro­tea­re l’ar­ma all’im­paz­za­ta. Per la pri­ma vol­ta Astol­fo fu col­to di sor­pre­sa e, an­che se so­lo per un istan­te, per­se il con­trol­lo di una si­tua­zio­ne che si era il­lu­so di te­ne­re or­mai sal­da­men­te in pu­gno. Si ri­tras­se riu­scen­do ad evi­ta­re il col­po so­lo in par­te, co­sic­ché la pun­ta del­la mia spa­da gli graf­fiò la pan­cia spor­gen­te; gru­gnì per il do­lo­re, si com­pres­se la fe­ri­ta con una ma­no ed in­die­treg­giò scom­po­sta­men­te, ri­tro­van­do­si tra i ce­spu­gli. Nel ten­ta­ti­vo di di­stri­car­si mi­se un pie­de in fal­lo e fu co­stret­to ad ar­re­tra­re an­co­ra per ri­pren­de­re l’equi­li­brio, pe­ral­tro osta­co­la­to dal­la gros­sa mo­le; un at­ti­mo do­po gli man­cò il ter­re­no sot­to i pie­di e con un ur­lo di ter­ro­re cad­de ro­vi­no­sa­men­te all’in­die­tro. Quan­do sco­stai la ve­ge­ta­zio­ne per ren­der­mi con­to di co­sa fos­se ac­ca­du­to, mi si pre­sen­tò una sce­na or­ri­bi­le: il mio av­ver­sa­rio gia­ce­va im­mo­bi­le in fon­do ad un lar­go fos­so, na­sco­sto dai ce­spu­gli ed in­vi­si­bi­le dal­la ra­du­ra, con la te­sta sfra­cel­la­ta con­tro del­le pie­tre, già ros­se del suo san­gue.

    Ora ca­pi­sco per­ché sei an­co­ra vi­vo. si li­mi­tò a com­men­ta­re asciut­to il dia­co­no.

    Co­let­to, il mio ser­vo, - pro­se­guii - ac­cor­se per tam­po­nar­mi al­la me­glio la fe­ri­ta, men­tre il ser­vo di Astol­fo scen­de­va nel fos­so per ten­ta­re di­spe­ra­ta­men­te di ria­ni­ma­re il suo pa­dro­ne. Un istan­te do­po, udim­mo clan­go­re d’ar­mi e ru­mo­re di ra­mi spez­za­ti: Co­let­to mi aiu­tò a se­de­re ap­pog­gian­do­mi al tron­co di un al­be­ro e cor­se ad in­da­ga­re. Tor­nò qua­si su­bi­to, an­nun­cian­do­mi che un grup­po di brut­ti cef­fi ar­ma­ti, ca­peg­gia­to da Mo­nal­do Bri­zi, si sta­va av­vi­ci­nan­do ra­pi­da­men­te al­la ra­du­ra. I lo­ro in­ten­ti ci sem­bra­ro­no evi­den­ti; fa­cem­mo ap­pe­na in tem­po a mon­ta­re sul ca­val­lo e fug­gi­re …

    Il dia­co­no mi in­ter­rup­pe: Co­me mai ti sei ri­fu­gia­to nell’ab­ba­zia, in­ve­ce di tor­na­re in cit­tà, al pa­laz­zo di tuo pa­dre? Lì avre­sti avu­te tut­te le cu­re ne­ces­sa­rie ...

    An­co­ra, il to­no era in­qui­si­to­rio, non di­scor­si­vo.

    Gli spie­gai che il sen­tie­ro per l’ab­ba­zia era l’uni­ca via di scam­po, da­to che Mo­nal­do ed i suoi pro­ve­ni­va­no pro­prio da quel­lo che por­ta­va in cit­tà.

    Po­co do­po - con­clu­si - mi pre­sen­tai ai mo­na­ci nel­le ve­sti di un per­se­gui­ta­to che chie­de­va asi­lo - e, in ta­li cir­co­stan­ze, cre­do che nul­la po­tes­se es­se­re più con­vin­cen­te del­la mia sof­fe­ren­za e del san­gue che sta­vo ver­san­do. I Be­ne­det­ti­ni mi soc­cor­se­ro, men­tre Co­let­to tor­na­va in cit­tà per av­vi­sa­re mio pa­dre, at­tra­ver­so i bo­schi per non es­se­re in­ter­cet­ta­to.

    Ca­pi­sco. - com­men­tò - Quin­di l’aba­te ti ha ac­col­to per ca­ri­tà cri­stia­na e nel no­me dell’ami­ci­zia con tuo pa­dre ...

    Cer­to, pre­ci­sai, ed an­che di tan­ti bei sol­di che mio pa­dre si era su­bi­to af­fret­ta­to a ver­sar­gli in cam­bio. Sul­le sue lab­bra scar­ne e drit­te com­par­ve, per la pri­ma vol­ta, una va­ga in­cre­spa­tu­ra che in­ter­pre­tai co­me un sor­ri­so:

    Beh, ti han­no co­mun­que sal­va­to la vi­ta ... ma co­me mai al­la fi­ne del duel­lo ti sei tro­va­to i Bri­zi ad­dos­so?.

    For­se sen­za ren­der­se­ne con­to, Si­gi­smon­do pun­ta­va il di­to di­rit­to nel­la pia­ga, sol­le­van­do il dub­bio che da an­ni mi ro­de­va. E poi, - in­cal­zò - co­me mai all’aba­te hai par­la­to ad­di­rit­tu­ra di si­ca­ri? E’ sta­to un duel­lo, o un ag­gua­to?

    Im­pla­ca­bi­le, il dia­co­no ora pre­me­va il di­to do­lo­ro­sa­men­te den­tro la pia­ga.

    Il fat­to è - spie­gai - che io ave­vo af­fron­ta­to il duel­lo nel ri­spet­to del­le re­go­le in vi­go­re tra noi no­bi­li: era una que­stio­ne d’ono­re non av­vi­sa­re le no­stre fa­mi­glie del­le sfi­de …

    Quin­di, tuo pa­dre non ne era al cor­ren­te ... .

    No, ma evi­den­te­men­te Astol­fo, l’in­fa­me, ave­va in­for­ma­to il suo. Vo­le­va­no co­mun­que far­mi a pez­zi, an­che se fos­si so­prav­vis­su­to al­la sua spa­da. com­men­tai con acre­di­ne.

    Il che ci ri­con­du­ce al­le cau­se del­la sfi­da …

    Evi­tai di ri­spon­de­re. Non in­si­stet­te e mi guar­dò per­ples­so: E quin­di sei ri­ma­sto tut­to que­sto tem­po rin­ser­ra­to nell’ab­ba­zia, sen­za ri­tor­na­re in cit­tà? Al­quan­to stra­no, di­rei ...

    Tra­mi­te un cor­rie­re, gli spie­gai, mio pa­dre mi ave­va in­giun­to di non muo­ver­mi, per­ché i Bri­zi con­trol­la­va­no tut­ti gli ac­ces­si all’ab­ba­zia ed ol­tre­tut­to il con­te, che qual­cu­no si era su­bi­to pre­mu­ra­to di in­for­ma­re del duel­lo, ave­va or­di­na­to il mio ar­re­sto. Mio pa­dre in­ten­de­va pre­le­var­mi so­lo do­po aver or­ga­niz­za­to una scor­ta suf­fi­cien­te a scon­giu­ra­re ag­gua­ti. Di lì a non mol­to, pe­rò, la pe­ste ave­va col­to lui e mio fra­tel­lo, ed era sta­ta la fi­ne del­la fa­mi­glia.

    Non hai al­tri fa­mi­lia­ri?

    So­no l’uni­co Aghi­le­ri in gra­do di re­cla­mar­ne l’ere­di­tà: mia ma­dre è mor­ta dan­do­mi al­la lu­ce e mia so­rel­la ha pre­so i vo­ti da an­ni, nel con­ven­to al­di­là del fiu­me.

    Giu­sta tra­di­zio­ne no­bi­lia­re - com­men­tò se­ra­fi­co - quel­la di do­na­re un com­po­nen­te del­la fa­mi­glia al­la Chie­sa.

    "Bloc­ca­to nell’ab­ba­zia - ri­pre­si - nei me­si

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