Missione a Vitunia
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Anteprima del libro
Missione a Vitunia - Andrea Bonifacio
info@youcanprint.it
L’opera è dedicata a mia moglie e mio figlio, che ne hanno supportato (e sopportato) la stesura.
Scripta Manent
Uscite e chiudete la porta.
ordinò il vescovo Gandolfo con la noncuranza di chi è abituato ad esser ubbidito all’istante e senza discussioni, accompagnando le parole con un vago gesto della mano. I due servi s’inchinarono ossequiosi ed abbandonarono in fretta la stanza, chiudendosi la porta alle spalle.
Rimasto solo, si guardò intorno con attenzione mista ad una certa inquietudine: doveva affrettarsi, per evitare che la sua assenza dalla camera ardente fosse notata, giù al pianterreno del palazzo.
Lo studio del defunto Fazio Aghileri era pulito, ordinato e privo di orpelli. Una scrivania non molto imponente, con una sedia a braccioli, era sistemata di fronte all’ingresso, in mezzo alle due finestre che illuminavano l’ambiente; sulla parete di destra vi erano degli scaffali, su quella di sinistra un caminetto con davanti due scranni. Lo stemma di famiglia campeggiava appeso alla parete tra le finestre, dietro la scrivania: rappresentava una pietra preziosa verde, sfaccettata, posta su una fascia diagonale nera, su sfondo verde. Ai lati dello stemma erano fissate a muro, in bella vista, le armi usate dal defunto, tra le quali riconobbe la famosa Spada della Pietra Verde: un’arma di eccellente qualità, con incastrato nel pomolo un pezzo di malachite sfaccettata, simile a quello riprodotto sullo stemma.
In quella stanza, tuttavia, le armi più pericolose che il vescovo notò non erano appese alla parete con l’usuale pompa nobiliare, ma più umilmente appoggiate sulla scrivania: si trattava di una penna d’oca e di un calamaio. Sì, perché Fazio sapeva leggere e scrivere (caso poco frequente tra i blasonati) e queste sue capacità avevano dato origine alle preoccupazioni del vescovo quando, tempo prima, era venuto a sapere che stava scrivendo le sue memorie.
Se ciò rispondeva al vero (ed aveva pochi dubbi in proposito), ora che Fazio era morto doveva impadronirsi di quegli scritti e leggerli prima di chiunque altro: vi si potevano celare informazioni importanti e forse insidie letali. Scripta manent, pensò: mentre qualsiasi chiacchiera può essere confutata da altre chiacchiere, ciò che un nobile del suo rango e della sua fama aveva lasciato scritto non poteva in nessun caso essere sottovalutato, né tantomeno ignorato.
Ispezionò febbrilmente le scaffalature della parete destra dove erano riposte numerose pergamene, in maggioranza arrotolate: codici riguardanti vari argomenti (alcuni scritti in latino), mappe, disegni di fortificazioni ed armi, ma decisamente nulla che solo assomigliasse ad un’autobiografia. Lasciò cadere le braccia sui fianchi, scoraggiato: che qualcuno l’avesse preceduto? Poi, la sua attenzione fu attratta da un armadietto chiuso, posto alla sinistra della porta d’ingresso, che entrando non aveva notato e che gli sembrò abbastanza capiente da contenere delle pergamene. Forse c’era ancora una speranza. Trovò la relativa chiave incastrata sotto il cassetto della scrivania (nascondiglio abbastanza banale, che peraltro lui stesso utilizzava nel suo studio vescovile) e con essa aprì nervosamente l’armadietto.
La luce del mattino investì un voluminoso pacco di pergamene, non rilegato, appoggiato sullo scaffale centrale. Arraffò con una mano il foglio in cima, mentre con l’altra estraeva dalla tasca una lente, attraverso la quale lesse febbrilmente le prime righe: senza alcun dubbio era ciò che cercava - e, se quelle poche frasi erano solo l’inizio, poteva ben figurarsi la pericolosità del prosieguo. Dopo una breve riflessione, ripose la pergamena sulle altre, accostò le ante dell’armadio e richiamò i servi.
Portatemi la cassa con le vesti da cerimonia, che è giù nel carro. Subito.
ordinò.
I due servi ubbidirono e poco dopo rientrarono con la cassa.
Fuori.
aggiunse semplicemente ed i servi si dileguarono all’istante. Aprì la cassa con una piccola chiave che teneva appesa al collo e la svuotò, indossando in fretta i paludamenti lì riposti; poi, non senza difficoltà, trasferì le pergamene dallo scaffale alla cassa (ci stavano a stento in larghezza, piegando un po’ i bordi) e quindi la chiuse a chiave. Infine richiuse l’armadio e rimise la relativa chiave dove l’aveva trovata.
Si rassettò le vesti: era ormai tempo di presentarsi alla camera ardente per le orazioni funebri di rito, prima della sepoltura. Più tardi, terminate le cerimonie, si sarebbe tenuto addosso le vesti sacre, dando l’incarico di riportare la cassa ad altri due servi, in modo che nessuno notasse la differenza di peso.
Quel pomeriggio, rimasto solo nel suo studio al vescovado, Gandolfo estrasse dalla cassa il pacco di pergamene e lo depose sulla scrivania. Ignorava le ragioni che avevano spinto Fazio a scrivere le sue memorie; forse dettate dal desiderio di lasciare dietro a sé traccia delle proprie movimentate vicissitudini, forse da qualche oscuro disegno, forse da entrambi. Comunque, se il testo raccontava un pezzo della storia passata di quel feudo, poteva contenere rivelazioni atte ad influenzarne quella futura - e soprattutto il suo futuro di vescovo. Scorse rapidamente i fogli del voluminoso scritto: venticinque capitoli scritti in prima persona, che iniziavano proprio l’ultimo giorno da lui trascorso all’abbazia, per terminare qualche giorno dopo la famosa Battaglia dell’Ansa. Curiosamente, mancavano del tutto prefazione e dediche; inoltre le note a lato del testo, peraltro in numero assai limitato, erano state accuratamente cancellate.
Ritornò alla prima pagina ed iniziò la lettura alla luce del sole che ormai tramontava, attento ad ogni singola parola che gli appariva attraverso la lente.
Cap. 1 - Partenza
Aurea prima sata est aetas, quae vindice nullo ...
La penna d’oca scorreva pigra sulla pergamena lasciandosi dietro le tracce d’inchiostro, ora esili, ora più marcate, del testo latino ricopiato, mentre trattenevo a stento l’ennesimo sbadiglio. Nella scarsa luce del silenzioso scriptorium, seduto al mio tavolo, contraevo e rilasciavo continuamente i muscoli dei piedi avvolti in un misero panno, nel tentativo di combattere il freddo che li aggrediva. I mesi invernali erano di gran lunga i peggiori per l’attività di copiatura, soprattutto da quando l’abate lesinava su riscaldamento e illuminazione, con la scusa della crisi che incombeva sull’abbazia. Intirizzito, continuai a vergare svogliatamente:
... sponte sua, sine lege, fidem rectumque colebat ...
"Vedo che siamo appena all’Età dell’oro: ti facevo molto più avanti, sai ... ".
La voce, vicinissima, mi fece sobbalzare: era fra’ Decimo, il braccio destro dell’abate Rubini che, secondo il suo stile più classico, si era avvicinato silenziosamente per spiarmi e non si era risparmiato un commento sulla mia scarsa efficienza. I tratti duri del volto affilato, la calvizie, l’alta fronte e i neri occhietti indagatori sembravano fatti apposta per intimorire i suoi interlocutori e ben si addicevano all’atteggiamento beffardo che aveva assunto per l’occasione. Mentre si chinava sulla pergamena il suo saio si scostò appena dal corpo scoprendo una profonda cicatrice, che partendo dalla base del collo, a destra, scendeva in diagonale giù sul petto. Nessuno all’abbazia sapeva come se la fosse procurata.
Un brusio percorse la vasta sala; anche se si era rivolto soltanto a me, aveva fatto in modo di essere udito fin alla parete opposta, cosicché molti monaci stavano già bisbigliando commenti sulla scenetta, alcuni ridacchiando. Assieme alla sua cultura classica, fra’ Decimo amava far sfoggio anche dell’autorità che gli derivava più dal suo ruolo di tirapiedi e spia dell’abate, che dalla sua reale posizione gerarchica nel monastero. Infatti, sollevata la testa dal mio scritto, percorse la sala con uno sguardo semicircolare di severa disapprovazione, al punto che i monaci si rituffarono subito nei loro testi, fingendo di non esserne mai stati distolti.
L’abate ti vuole sopra, subito.
proseguì asciutto rizzandosi e aggiungendo con la sua solita aria di supponenza: Sembra che per te ci sia aria di smobilitazione: quindi muoviti, che non ha altro tempo da perdere sul tuo caso!
Improvvisa convocazione da parte dell’abate in persona, smobilitazione, il mio caso? Parole che potevano avere una sola implicazione …
Deposta la penna d’oca, mi alzai nervosamente, dimenticando che lo straccio mi avvolgeva ancora i piedi; per un attimo persi l’equilibrio, e fra’ Decimo mi sorresse con un sospiro di commiserazione, mentre urtavo col fianco il bordo del tavolo. Qualche risolino giunse dai tavoli più vicini.
Attento, che rischi di spargere l’inchiostro ...
aggiunse con irritante sufficienza - ma ero troppo preoccupato per badargli.
Seguimi!
ordinò secco il ruffiano, precedendomi deciso verso l’uscita dello scriptorium, che attraversai sotto gli sguardi incuriositi dei monaci; non ne avevo neanche varcato la soglia, che già il borbottio dei loro commenti cresceva alle mie spalle. Attraversato il corridoio che collegava l’ampia sala alla biblioteca, svoltammo per salire una scala a chiocciola, dove uno spiffero d’aria gelida mi fece rabbrividire. Fra’ Gervaso aveva il compito di riparare la finestrella qui sopra - commentò acido fra’ Decimo - ed al solito se l’è presa comoda; tanto, non è mica quella della sua cella ...
. Percorremmo altri corridoi svoltando ora a destra, ora a sinistra, tanto che persi l’orientamento, finché non ci trovammo dinanzi ad una massiccia porta di quercia, illuminata da una torcia fissata a muro, sulla destra: l’ingresso della stanza di lavoro dell’abate. Attendi qui
mi ordinò mentre bussava. Una voce all’interno disse qualcosa che solo fra’ Decimo comprese, tanto che aprì la porta ed entrò richiudendola subito alle spalle.
Rimasto solo, mi misi a passeggiare inquieto avanti e indietro. Se quanto aveva anticipato fra’ Decimo era vero, presto (forse quel giorno stesso) l’abate mi avrebbe messo alla porta, ponendo termine alla mia lunga parentesi nell’abbazia ed esponendomi al mondo esterno: era la libertà, che però poteva implicare una rapida morte, pensai cupo. Mi feci coraggio: dopotutto, ero ancora vivo ed in buona salute, e fasciarsi la testa prima di ricevere il colpo era quanto di più futile. Mi rassettai il saio e, vincendo il nervosismo, m’imposi di star ritto dinanzi alla porta, assumendo un cipiglio risoluto. Appena in tempo, perché proprio in quel momento riapparve fra’ Decimo, che con un brusco cenno del capo m’ingiunse di entrare, indicando nel contempo lo straccio dei piedi che tenevo ancora in mano: Quello puoi lasciarlo fuori - disse arricciando il naso - magari puzza
.
Deposto il panno nella nicchia sotto la torcia, entrai con decisione, tanto che al mio passaggio fra’ Decimo si scostò sorpreso, per poi chiudere la porta alle mie spalle, rimanendo fuori. L’esclusione del tirapiedi dal colloquio mi diede un certo sollievo, anche se la sua abilità nell’origliare era tristemente nota all’abbazia.
Mi ritrovai in un’ampia stanza, ben riscaldata da un caminetto ed altrettanto ben illuminata da due torce applicate alle pareti - decisamente, la crisi che travagliava il monastero era rimasta fuori dallo studio dell’abate. Una finestra laterale lasciava entrare la luce grigia di quel gelido mattino di gennaio. Ai lati vi erano scaffalature ricolme di codici e pergamene arrotolate. Di fronte alla porta il corpulento abate Rubini e uno sconosciuto magro e dall’aria ascetica, seduti dietro un’ampia scrivania, stavano consultando un grosso codice, su cui il secondo stava indicando qualcosa al primo, che annuiva gravemente.
Fatti avanti, Fazio, fatti avanti!
esordì l’abate con un tono quasi bonario, senza però distogliere gli occhi dal codice; lo sconosciuto, invece, rizzò il capo e mi fissò dalla testa ai piedi con uno sguardo di attenta valutazione. Una sedia a braccioli era disposta di fronte al tavolo; l’occupai sullo slancio, senza peraltro averne ricevuto l’invito. L’abate, alzati finalmente gli occhi, mi presentò lo sconosciuto con un vago cenno della mano.
Sei al cospetto del diacono Sigismondo, che è qui per volere del vescovo. - esordì solenne, mentre l’altro silenziosamente annuiva, senza staccarmi i grandi occhi azzurri di dosso - E’ venuto qui, tra l’altro, per aiutarmi a risolvere il tuo caso
.
Il mio caso? Come poteva il vescovo in persona interessarsi a me? Ormai, dopo la rovina della mia famiglia, contavo qualcosa solo per quelli che mi volevano morto, mentre per l’abate rappresentavo solo un impiccio del quale liberarsi al più presto - e non aveva certo bisogno del permesso del vescovo per farlo. Decisamente, qualcosa non quadrava. Svanito lo slancio iniziale, il nervosismo stava riprendendo il sopravvento.
Fazio Aghileri - proseguì gravemente l’abate - riassumo la tua storia più recente, anche per meglio informarne il mio ospite. A causa della profonda amicizia che mi legava al tuo defunto padre, accettai (ormai son più di due anni) di accoglierti nell’abbazia in un momento per te molto difficile: la famiglia dei Brizi ti era alle calcagna per vendicare il primogenito Astolfo che avevi ucciso in duello ...
C ... certo - osai interloquire - i Brizi mi sguinzagliarono dietro i loro sicari per tagliarmi la gola e gettare il mio corpo in qualche fosso, mentre Astolfo ed io ci eravamo battuti in un regolare duello ...
Non avrei dovuto dirlo: la mano destra dell’abate, che fino a quel momento aveva ondeggiato a mezz’aria, accompagnando vagamente l’incedere pomposo del suo discorso, s’abbatté a palma aperta sulla scrivania, con un urto che mi fece sobbalzare - notai che il diacono, invece, rimaneva impassibile.
Non esistono regolari duelli dinanzi a Nostro Signore! - m’interruppe tagliente - Esistono solo uomini che uccidono altri uomini violando la Sua Legge e l’inferno che li attende!
Se l’abate in persona già mi vedeva tra i dannati, le cose si stavano mettendo davvero male.
Ed anche limitandoci ai soli affari terreni - esordì la voce profonda di Sigismondo - tutti sanno che i duelli sono illegali, anche se voi nobili avete sempre finto d’ignorarlo, risolvendo i contenziosi a modo vostro.
Di male in peggio: se persino l’inviato del vescovo era malevolo nei miei confronti, allora non avevo proprio scampo. D’istinto, aprii la bocca per rintuzzare, ma l’abate mi anticipò - e forse fu un bene.
Ma chi siamo noi - riprese col tono retorico di prima, mentre la mano ridisegnava traiettorie nell’aria - per giudicare gli uomini al Suo posto? A tempo debito Nostro Signore provvederà a farlo, nella Sua infinita misericordia!
Speriamo bene.
Tornando alle tue vicende personali, Fazio, capirai che il monastero non può ospitarti indefinitamente, senza che il tuo ruolo nel suo ambito non sia chiarito una volta per tutte: nel nome dell’amicizia, ho già violato troppe regole per favorirti ...
Nonostante la gravità del momento, trattenni un sorriso: la verità era molto più prosaica ed assai poco aveva a che fare con l’amicizia. All’inizio l’abate aveva eluso con noncuranza le regole benedettine, intascando le cospicue somme che mio padre gli versava in cambio della sua ospitalità - in attesa, come usava dire, che la questione si aggiustasse
con i Brizi. Mi aveva subito assegnata una celletta, che non aveva esitato a riempire di testi religiosi quando, con stupore per una volta genuino, si era accorto che avevo delle conoscenze scolastiche. Per il presente ristoro del tuo spirito e chissà ... forse per un futuro nel nostro monastero
aveva annunciato, palesando l’intento d’avviarmi al noviziato. Poi, con la morte di mio padre, s’erano interrotti i versamenti nelle casse del monastero e, con essi, la sua benevolenza nei miei confronti. Inaridito il flusso d’introiti, ecco riaffiorare le violate regole, ora improvvisamente ineludibili - e tra esse quell’Ora et Labora di cui i Benedettini andavano tanto fieri. Ben presto ero passato dal giaciglio nella mia celletta personale a un misero pagliericcio nel dormitorio comune; subito dopo mi erano stati assegnati i lavori più umili e sgradevoli, al punto che avevo accolto con sollievo la successiva assegnazione alla falegnameria, per affiancare come apprendista l’anziano fra’ Gervaso. Dato lo scarso dinamismo di quest’ultimo, ben presto la maggior parte delle sue attività era ricaduta sulle mie spalle ed ero stato costretto ad imparare in fretta quel mestiere plebeo che, quale rampollo di nobile famiglia, neanche un anno prima avrei considerato semplicemente offensivo per la dignità del mio rango. Infine l’abate, rimasto a corto di copisti, si era ricordato della mia istruzione e mi aveva introdotto nello scriptorium. Fino a quel giorno.
E tu, d’altro canto, - continuò l’abate con un sospiro ipocrita - non hai mai espresso né il chiaro pentimento per le azioni passate, né il sincero desiderio di essere introdotto al noviziato. Per cui, capirai, mi trovo proprio con le spalle al muro ...
S’interruppe. Ora entrambe le mani mi mostravano le palme a mezz’aria, sottolineando la sua impotenza di fronte ad una situazione senza via d’uscita, da me colpevolmente creata. La pausa, nel contempo, aveva l’effetto di una domanda, come se l’abate cercasse un’ultima conferma dei miei intenti.
Esitai prima di rispondere. Quei due anni di vita regolata e al riparo dai pericoli del mondo avevano sopita la mia baldanza, per cui confesso che per un attimo (ma solo per un attimo) accarezzai ancora l’idea di adagiarmi nella vita monastica, un po’ come un bimbo si affida alla protezione del grembo materno. Ma i miei vent’anni e l’orgoglio nobiliare ebbero subito il sopravvento, facendomi optare per la seconda alternativa, pur con tutti i rischi che comportava.
Sono certamente pentito delle mie passate azioni, - mentii, almeno in parte - ma, come ho potuto constatare recentemente, non mi sento proprio portato per la vita monastica ...
Lo intuivo, lo intuivo. - m’interruppe l’abate, annuendo con aria addolorata - Per cui, capirai, mi lasci una sola alternativa: invitarti, seppur a malincuore, ad abbandonare la nostra abbazia per tornartene ... - s’interruppe, per poi riprendere con mal recitato rincrescimento - ah, già, capisco: forse non hai neanche più una casa dove tornare. E allora, figliolo ...
E allora interviene il vescovo, nella sua magnanimità.
- interloquì inaspettatamente il diacono, tagliando corto di fronte alle ampollosità dell’abate - Però lui, come ho già anticipato all’abate, è interessato al modo con cui maneggi le armi, piuttosto che la penna: vorresti entrare al suo servizio?
Rimasi sorpreso: dunque, vi erano degli armati agli ordini del vescovo. Negli anni della mia segregazione la situazione politica in quel lembo d’Italia, prima così stagnante, doveva aver subito dei bruschi mutamenti - e la recente peste non ne era certo estranea. Prima di rispondere feci una pausa studiata. Notai che una certa ansietà trapelava dallo sguardo dell’abate: era chiaro che non vedeva l’ora di liberarsi di me, evitando resistenze e polemiche. Invece, il diacono aveva un atteggiamento quasi annoiato, come se già conoscesse la mia risposta.
Acconsentii simulando una vaga incertezza, giusto per non darla vinta tanto facilmente a Sigismondo.
Bene! - esclamò d’acchito l’abate, con evidente sollievo - Allora, caro figliolo, non ti resta che prendere le tue cose e seguire il diacono, che oggi stesso ti porterà in città, sotto scorta.
La scorta serve contro i malfattori che infestano le strade - precisò Sigismondo con voce piatta - non certo per tenere te in custodia. E d’altro canto, dove potresti fuggire? - aggiunse con ironia, per niente velata - tra le grinfie dei Brizi?
Quindi si alzò, mostrando un fisico asciutto ed una statura ben superiore alla media.
Seguì il commiato dell’abate, piuttosto affrettato anche se ricco di convenevoli, secondo il suo stile. Mi indirizzò da fra’ Marco, al piano di sotto, per riavere quanto avevo consegnato all’ingresso dell’abbazia, due anni prima, da trafelato fuggitivo. Per abbreviare il percorso mi indicò una porticina che non avevo neanche notato, seminascosta com’era dietro gli scaffali in un angolo della stanza, a destra della scrivania. Mentre l’aprivo indirizzando l’ultimo saluto all’abate, mi parve di udire dall’altra parte un fruscio, seguito dallo scalpiccio di qualcuno che si allontanava in fretta. Era lì dietro che si era appostato fra’ Decimo per origliare?
Accompagnato da Sigismondo mi presentai da fra’ Marco, che evidentemente aveva già ricevute le debite istruzioni, in quanto mi riconsegnò senza commenti il fagotto con i miei abiti nobiliari (inclusa la tunica strappata e macchiata del sangue versato nel duello) e, soprattutto, la mia spada. Provai un fremito al contatto con la vecchia lama, donatami da mio padre quand’ero ancora adolescente, e ne carezzai l’impugnatura: per anni l’avevo considerata come parte di me stesso, l’oggetto cui affidare le mie sorti nei conflitti del mondo. Averla nuovamente a disposizione mi dava l’illusione di riacquistare la pienezza delle mie facoltà e il potere d’un tempo. Accarezzai la pietra verde (simbolo della mia famiglia) che ne ornava il pomolo e la sfoderai a metà, chiusi gli occhi in estasi e strinsi forte impugnatura e lama, fin quasi a farmi male.
Una lama in più può farci comodo anche durante il tragitto - commentò Sigismondo - nel caso di assalto dei fuorilegge. Se capitasse, spero che tu la sappia usare tanto bene quanto hai fatto con Astolfo.
Quella di rinfacciarmi il mio passato doveva essere la tattica scelta da Sigismondo per mantenermi in soggezione, facendomi capire che ormai era lui, per volere del vescovo, a tenere il coltello dalla parte del manico. Lievemente irritato, stavo per chiedergli quale fosse il contributo di un diacono imbelle come lui nel caso di scontro armato (un’accorata preghiera?), quando fra’ Marco interruppe i miei pensieri porgendomi il mio pugnale ed il mio anello col sigillo degli Aghileri ed aggiungendo, con voce piatta:
Dimentichi questi; e dimentichi che il saio che indossi non ti appartiene
.
Poco dopo, cambiato il saio con i miei vecchi abiti nobiliari (che ora mi stavano piuttosto larghi), ed indossati mantello ed armi, mi avviai nel cortile dell’abbazia, dove ci attendevano otto cavalieri già in sella e due soldati alla guida di un carro col cassone riparato da un telone, trainato da due buoi. Notai che Sigismondo sollevava il cappuccio del mantello e si copriva la faccia riunendone davanti i lembi, come persona che non vuol palesare le sue sembianze.
Mi colpì subito l’equipaggiamento dei cavalieri: indossavano armature tutte eguali, con pettorali e scudi coperti da un drappo di stoffa bianca, attraversato diagonalmente da un striscia rossa, con due croci azzurre sulle bande opposte. Era lo stemma del vescovo. Due scudi, recanti lo stesso stemma, erano fissati a fianco del posto di guida, a protezione dei cocchieri. Degli armati così ben organizzati davano un’insolita sensazione di ordine e sicurezza, distinguendosi nettamente dalle soldataglie male in arnese che da quelle parti si mettevano agli ordini dei vari signorotti - spesso, più per rubare e stuprare indisturbate che per difendere gli interessi del loro padrone.
Sistemati sotto il telone e restaci, senza mettere il naso fuori. - ordinò il diacono - Troverai delle coperte
.
Sigismondo confabulò brevemente con un cocchiere, sempre tenendo il viso celato, e guardò preoccupato le finestrelle che si affacciavano sul cortile. Quindi salì anche lui, sedendosi accanto a me sotto il telone. Non possiamo certo impedire che le spie dei Brizi li informino della tua partenza. - aggiunse - Speriamo che almeno non conoscano la tua destinazione e gli intenti del vescovo.
Anche un freddo calcolatore come Sigismondo aveva i suoi momenti d’ingenuità, pensai, figurandomi fra’ Decimo con l’orecchio appiccicato alla porticina della stanza dell’abate.
Mentre facevo posto al diacono nell’angusto cassone, urtai col fianco una cassetta di legno con rinforzi in metallo, sistemata in un angolo, sotto le coperte. Quella non toccarla, è roba che devo portare al vescovo. - mi disse - Non sto facendo questo viaggio solo per te, naturalmente
.
Il carro si mosse nel cortile tra vari scricchiolii, attraversò l’ingresso dell’abbazia e si avventurò traballante nei solchi della strada per la città, portandomi verso il mio incerto futuro.
Cap. 2 - Diaconi e vescovi
Sistemati alla meno peggio nel cassone del carro, avvolti nelle coperte per difenderci dal freddo pungente, vedevamo scorrere ai lati della strada la triste campagna invernale, dove non mancavano spettrali casolari abbandonati ed appezzamenti chissà da quanto incolti. Sigismondo era chiuso in un pensoso silenzio; a tratti scostava il telone per osservare il paesaggio, poi scuoteva tristemente la testa, facendo trapelare uno scoramento che mi pareva sincero.
La peste ... - mormorò ad un certo punto tra se’, con aria sconsolata - L’Altissimo ha voluto punirci …
Da parte mia, all’inebriante sensazione di riacquisita libertà che avevo provato uscendo dall’abbazia era presto subentrata l’inquietudine per le mie prospettive future. A ben vedere la segregazione benedettina, per quanto noiosa e spesso sgradevole, mi aveva salvato due volte la vita, preservandomi sia dai sicari che dal contagio - e, se correva voce che la peste si fosse ormai placata, non potevo certo sperare che lo fosse anche la sete di vendetta di Monaldo Brizi, il padre di Astolfo, che si era visto togliere il primogenito. Non mancava nemmeno una certa inquietudine riguardo ai reali intenti del vescovo nei miei confronti: la spiegazione del diacono era stata troppo vaga per essere convincente. Mentre tentavo di rassicurarmi accarezzando ora la spada, ora il pugnale, quali unici amici rimasti, Sigismondo ruppe inaspettatamente il silenzio:
Astolfo Brizi era uno tra i più abili spadaccini in città ed aveva qualche anno più di te: come mai sei andato ad invischiarti in un duello proprio con lui? E soprattutto, come hai potuto vincere? Raccontami i dettagli della sfida: il viaggio è lungo …
Dal tono, decisamente più inquisitorio che colloquiale, sospettai che intendesse raccogliere informazioni sul mio conto più per riportarle al vescovo, che per semplice curiosità personale.
Il mio primo impulso fu quello di rispondere evasivamente, per fargli capire che l’argomento non mi era gradito - in fondo, che diritto aveva quel diacono d’impicciarsi nelle mie vicende passate? Nel contempo, mi resi conto che reticenza e scontrosità non erano certo gli atteggiamenti più appropriati per ingraziarsi il vescovo; pertanto, pur controvoglia, decisi di rispondergli, tenendomi però sul vago riguardo alle cause dello scontro.
Fu una sfida per questioni d’onore. - esordii - La radura scelta per batterci era ben nota a noi giovani di nobile famiglia: in quel luogo vicino alle terre dell’abbazia, lontano da occhi indiscreti e circondato da folta vegetazione, davamo prova del nostro coraggio regolando i conti con duelli alla spada, a volte ferendoci, peraltro senza mai ammazzarci. Astolfo era più robusto e corpulento di me e mi superava in statura. Fischiettava, ostentando un atteggiamento quasi annoiato e muovendosi in modo sgraziato, plebeo, a dispetto della sua appartenenza una famiglia ricca …
Vi è dell’evidente sprezzo in queste tue parole.
interloquì.
Compresi che mi ero lasciato trascinare dall’emozione del ricordo, citando questioni di scarso rilievo. Insistendo sul tema, avrei anche potuto descrivere Astolfo che, per impressionarmi con la sua abilità, snudava la spada, la faceva roteare rapidamente e si esibiva in abili cambi di mano, come se stesse muovendo un fuscello; oppure che, per provocarmi, mi canzonava per la pietra verde che ornava il pomolo della mia spada, chiamandola inutile ornamento da nobile fichetto; o infine descrivere la mia conseguente reazione, rabbiosa quanto ingenua. Decisi di limitarmi all’essenziale:
Partii subito con un affondo rapido, ma non abbastanza da sorprenderlo. Mostrando un’insospettabile agilità, data la mole, schivò la stoccata quasi con noncuranza, per poi contrattaccare con una serie di colpi rapidissimi che mi costrinsero ad arretrare precipitosamente. Ben presto il tema del duello si delineò chiaramente: Astolfo costantemente all’attacco, con colpi inferti senza soluzione di continuità che mi impedivano di prendere qualsivoglia iniziativa; io giocoforza sulla difensiva, spinto inesorabilmente verso i margini della radura - raggiunti i quali, limitato nei movimenti, non avrei avuto scampo. Ed infatti, giunto ormai a ridosso dei cespugli che delimitavano l’area, dopo aver dato rapide occhiate ai lati feci uno scarto improvviso sulla destra, per riguadagnare in fretta il centro della radura. Ad Astolfo però non erano sfuggiti i guizzi del mio sguardo; così, mentre io tentavo di sgusciare via di lato, eseguì un improvviso affondo che giunse a segno: la lama, strappata la stoffa della tunica, mi tagliò di netto pelle e carne del fianco sinistro. Urlai per il dolore lasciando cadere l’arma, persi l’equilibrio e mi ritrovai a terra, comprimendomi la ferita dalla quale il sangue già sgorgava copioso.
Ma allora, eri proprio spacciato …
Sì, mi vidi morto - confessai - anche perché Astolfo mi puntò la spada alla gola, annunciandomi trionfante che il duello sarebbe stato all’ultimo sangue. Inutile informarlo che le nostre regole erano ben diverse - di noi nobili, intendo …
Tanto, lui nobile non era … inoltre, immagino che per te si trattasse di una questione di orgoglio: il ben noto orgoglio degli Aghileri …
Infatti, un vero Aghileri si sarebbe lasciato ammazzare piuttosto che chieder grazia, umiliandosi di fronte ad uno zotico come quello. Ma che ne poteva sapere quel semplice diacono, mai visto prima, di noi Aghileri e del nostro orgoglio? Incominciavo a considerare la figura di Sigismondo con vago sospetto. Proseguii:
Astolfo ritrasse l’arma e si mise a girarmi intorno, canticchiando con fare canzonatorio ed ogni tanto punzecchiandomi. Dopo un paio di giri si fermò, fece un passo indietro e, schernendomi, mi invitò a rialzarmi, aggiungendo che non era abbastanza divertente finirmi mentre giacevo impotente a terra. Invece, voleva togliersi lo sfizio di infilzarmi mentre lo fronteggiavo in piedi, spada alla mano.
Un vero cavaliere, insomma!
sogghignò sarcastico Sigismondo, che finalmente sembrava simpatizzare per me.
Però non si era reso conto che, così facendo, ora mostrava le spalle ai folti cespugli che delimitavano la radura subito dietro a lui. Disperato, impugnai la spada e, mentre accennavo a rialzarmi, con una mossa rabbiosa, incurante del dolore al fianco, mi lanciai contro di lui facendo roteare l’arma all’impazzata. Per la prima volta Astolfo fu colto di sorpresa e, anche se solo per un istante, perse il controllo di una situazione che si era illuso di tenere ormai saldamente in pugno. Si ritrasse riuscendo ad evitare il colpo solo in parte, cosicché la punta della mia spada gli graffiò la pancia sporgente; grugnì per il dolore, si compresse la ferita con una mano ed indietreggiò scompostamente, ritrovandosi tra i cespugli. Nel tentativo di districarsi mise un piede in fallo e fu costretto ad arretrare ancora per riprendere l’equilibrio, peraltro ostacolato dalla grossa mole; un attimo dopo gli mancò il terreno sotto i piedi e con un urlo di terrore cadde rovinosamente all’indietro. Quando scostai la vegetazione per rendermi conto di cosa fosse accaduto, mi si presentò una scena orribile: il mio avversario giaceva immobile in fondo ad un largo fosso, nascosto dai cespugli ed invisibile dalla radura, con la testa sfracellata contro delle pietre, già rosse del suo sangue.
Ora capisco perché sei ancora vivo.
si limitò a commentare asciutto il diacono.
Coletto, il mio servo, - proseguii - accorse per tamponarmi alla meglio la ferita, mentre il servo di Astolfo scendeva nel fosso per tentare disperatamente di rianimare il suo padrone. Un istante dopo, udimmo clangore d’armi e rumore di rami spezzati: Coletto mi aiutò a sedere appoggiandomi al tronco di un albero e corse ad indagare. Tornò quasi subito, annunciandomi che un gruppo di brutti ceffi armati, capeggiato da Monaldo Brizi, si stava avvicinando rapidamente alla radura. I loro intenti ci sembrarono evidenti; facemmo appena in tempo a montare sul cavallo e fuggire …
Il diacono mi interruppe: Come mai ti sei rifugiato nell’abbazia, invece di tornare in città, al palazzo di tuo padre? Lì avresti avute tutte le cure necessarie ...
Ancora, il tono era inquisitorio, non discorsivo.
Gli spiegai che il sentiero per l’abbazia era l’unica via di scampo, dato che Monaldo ed i suoi provenivano proprio da quello che portava in città.
Poco dopo - conclusi - mi presentai ai monaci nelle vesti di un perseguitato che chiedeva asilo - e, in tali circostanze, credo che nulla potesse essere più convincente della mia sofferenza e del sangue che stavo versando. I Benedettini mi soccorsero, mentre Coletto tornava in città per avvisare mio padre, attraverso i boschi per non essere intercettato.
Capisco. - commentò - Quindi l’abate ti ha accolto per carità cristiana e nel nome dell’amicizia con tuo padre ...
Certo, precisai, ed anche di tanti bei soldi che mio padre si era subito affrettato a versargli in cambio. Sulle sue labbra scarne e dritte comparve, per la prima volta, una vaga increspatura che interpretai come un sorriso:
Beh, ti hanno comunque salvato la vita ... ma come mai alla fine del duello ti sei trovato i Brizi addosso?
.
Forse senza rendersene conto, Sigismondo puntava il dito diritto nella piaga, sollevando il dubbio che da anni mi rodeva. E poi, - incalzò - come mai all’abate hai parlato addirittura di
sicari? E’ stato un duello, o un agguato?
Implacabile, il diacono ora premeva il dito dolorosamente dentro la piaga.
Il fatto è - spiegai - che io avevo affrontato il duello nel rispetto delle regole in vigore tra noi nobili: era una questione d’onore non avvisare le nostre famiglie delle sfide …
Quindi, tuo padre non ne era al corrente ...
.
No, ma evidentemente Astolfo, l’infame, aveva informato il suo. Volevano comunque farmi a pezzi, anche se fossi sopravvissuto alla sua spada.
commentai con acredine.
Il che ci riconduce alle cause della sfida …
Evitai di rispondere. Non insistette e mi guardò perplesso: E quindi sei rimasto tutto questo tempo rinserrato nell’abbazia, senza ritornare in città? Alquanto strano, direi ...
Tramite un corriere, gli spiegai, mio padre mi aveva ingiunto di non muovermi, perché i Brizi controllavano tutti gli accessi all’abbazia ed oltretutto il conte, che qualcuno si era subito premurato di informare del duello, aveva ordinato il mio arresto. Mio padre intendeva prelevarmi solo dopo aver organizzato una scorta sufficiente a scongiurare agguati. Di lì a non molto, però, la peste aveva colto lui e mio fratello, ed era stata la fine della famiglia.
Non hai altri familiari?
Sono l’unico Aghileri in grado di reclamarne l’eredità: mia madre è morta dandomi alla luce e mia sorella ha preso i voti da anni, nel convento aldilà del fiume.
Giusta tradizione nobiliare - commentò serafico - quella di donare un componente della famiglia alla Chiesa.
"Bloccato nell’abbazia - ripresi - nei mesi