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Le anime morte
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E-book513 pagine8 ore

Le anime morte

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Le anime morte è un romanzo rimasto incompiuto di Nikolaj Gogol, in cui il protagonista, Pavel Ivanovic Cicikov, viaggia attraverso la Russia comprando a poco prezzo “anime morte”, ossia i diritti sui contadini morti dopo l’ultimo censimento e sui quali i proprietari erano tenuti a pagare la tassa governativa fino al censimento successivo. Il progetto è di servirsi di queste “persone” , vive solo per la legge, per ottenere assegnazioni di terre riservate a chi dimostrava di possedere un determinato numero di servi della gleba. Il romanzo è un vasto affresco della Russia rurale e provinciale del tempo, nonché una metafora del vizio borghese di “apparire” diversi in società da quello che si è in privato.
LinguaItaliano
Data di uscita9 ago 2013
ISBN9788874172559
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    Anteprima del libro

    Le anime morte - Nikolaj Gogol

    V

    Informazioni

    In copertina: Giacomo Favretto, Dopo il viaggio

    © 2020 REA Edizioni

    Via S. Agostino 15

    67100 L’Aquila

    www.reamultimedia.it

    redazione@reamultimedia.it

    www.facebook.com/reamultimedia

    Questo e-book è frutto di una rielaborazione editoriale originale basata sulla traduzione di Margherita Silvestri La Penna. La casa editrice rimane comunque a disposizione di chiunque avesse a vantare ragioni in proposito.

    PARTE PRIMA

    CAPITOLO I

    Nel portone della locanda della città di N. N. capoluogo di governatorato, entrò un carrozzino abbastanza bello, con le molle, di quelli che ci viaggiano gli scapoli: tenenti colonnelli in congedo, capitani in seconda, proprietari di campagne con un centinaio d’anime di conta­ dini, insomma tutti coloro che sono chiamati signori di mezza tacca. Nel carrozzino era seduto un signore, non bello, ma nemmeno di brutto aspetto, né troppo grasso, né troppo magro; non si poteva dire che fosse vecchio, ma nemmeno che fosse troppo giovane. Il suo ingresso non fece nessunissima impressione in città, né fu accompagnato da alcun che di speciale; solo due contadini russi che stavano sulla porta di una bettola dirimpetto alla locanda fecero alcune osservazioni, le quali del resto si riferivano più al veicolo che a colui che v’era sopra.

    Uh, guarda! — disse il primo al secondo: — Guarda che razza di ruota! Che pensi tu: in caso di bisogno, ci arriverebbe fino a Mosca, quella ruota, o non ci arriverebbe? ». « Ci arriverebbe », rispose l’altro. « A Kazan però non ci arriverebbe, penso ». « A Kazan non ci arriverebbe... », rispose l’altro. E con questo il dialogo ebbe termine. Poi ancora, quando il carrozzino s’avvicinò alla locanda, passò un giovanotto che portava calzoni bianchi di tela a righe, molto stretti e corti, e una marsina che aveva la pretesa di seguire la moda e lasciava scorgere un pettino chiuso da un bottone di Tuia con una pistola di bronzo. Il giovanotto si voltò indietro, guardò il legno, trattenne con la mano il berretto che per poco il vento non gli portava via, e se ne andò per la sua strada.

    Quando la carrozza entrò nel cortile, il signore fu ricevuto dal servo della locanda, ossia dal polovoj — come sono chiamati nelle locande russe, — uomo vivace e d’una tale mobilità, che non si riusciva nep­ pure a vedere che faccia avesse. Costui corse fuori con un tovagliolo in mano, tutto frettoloso, lungo lungo, con indosso un lungo soprabito di cotonina il cui dorso gli montava su fin quasi alla nuca, scrollò i capelli e accompagnò lesto il signore su per tutta la galleria di legno, per mostrargli la stanza concessagli da Dio. La stanza era delle solite, in quanto anche la locanda era delle solite, cioè precisamente tale e quale come tutte le locande dei capiluoghi di governatorato dove per due rubli al giorno i viaggiatori ottengono una camera tranquilla, piena di blatte che fanno capolino, simili a prugne secche, da tutti gli angoli e con una porta di comunicazione, sempre barricata da un cassettone, verso la camera adiacente, nella quale prende alloggio un vicino, uomo tranquillo e taciturno, ma straordinariamente curioso, che s’interessa di tutti i fatti minuti del viaggiatore. La facciata esterna della locanda corrispondeva all’interno: era molto lunga, a due piani; di questi l’inferiore non aveva intonaco, sicché eran rimasti visibili i mattoni rosso-scuri, divenuti ancor più scuri per le intemperie e sudici già per se stessi; il piano superiore era tinto della eterna tinta gialla; in basso c’erano alcune botteghe, con collari da cavalli, corde e ciambelle. Nella bottega d’angolo, o piuttosto nella vetrina, s’era allogato un venditore di sbiten [1] con un samovàr di rame rosso e una faccia altrettanto rossa, cosi che da lontano si poteva pensare che nella vetrina ci fossero due samovàr, se uno di essi non avesse avuto una barba nera come la pece.

    Mentre il signor viaggiatore esaminava la sua camera, gli furono portati i bagagli: prima di tutto un baule di cuoio bianco, piuttosto logoro, che mostrava di non essere al suo primo viaggio. Il baule fu portato dentro dal cocchiere Selifan, un uomo basso, in tulup [2] corto e dal servo Petruska, giovane sui trent’anni, che aveva indosso un soprabito ampio e frusto, evidentemente smesso dal padrone; era un giovanotto di aspetto un po’ burbero, con labbra e naso molto grossi. Dopo il baule portarono nella stanza una cassettina di mogano con ornamenti in legno di betulla di Carelia, delle forme da scarpe, e un pollo arrosto involto in carta turchina. Quando ebbero portato dentro tutta questa roba, il cocchiere Selifan se ne andò alla stalla per governare i cavalli, mentre il servo Petruska prese ad accomodarsi in una piccola anticamera, uno stambugio molto scuro, in cui aveva già trascinato il suo cappotto, e insieme con esso un certo suo odore parti­ colare, comune anche a un sacco che portò subito dopo e che conteneva vari accessori del suo abbigliamento di domestico. In quello stambugio egli appoggiò alla parete uno stretto lettuccio con tre gambe e vi mise sopra una specie di piccola materassa, schiacciata e sottile come una frittella e forse altrettanto unta, che gli era riuscito di farsi dare dal padrone della locanda.

    Mentre i servi se la sbrigavano e si affaccendavano, il signore se ne andò nella sala comune. Come siano fatte queste sale comuni, qualunque viaggiatore lo sa benissimo: erano le solite pareti verniciate a olio, in alto scurite dal fumo del. caminetto e in basso lustrate dalle schiene dei vari viaggiatori e più ancora dai mercanti del luogo, poiché costoro nei giorni di fiera se ne andavano lì a sei o sette, a bersi la loro abituale porzione di tè; era il solito soffitto affumicato: il solito lampadario fuligginoso con una quantità di gocciole di cristallo pendenti, che sobbalzavano e tintinnavano tutte le volte che il polovoj passava di corsa sulle assi logore del pavimento, sbracciando arditamente col vassoio sul quale stava una tale infinità di tazze di tè, che parevano uccelli in riva al mare; i soliti quadri dipinti a olio che coprivano tutta la parete; insomma, ogni cosa era come dappertutto, con questa sola differenza, che uno dei quadri rappresentava una ninfa con un seno cosi enorme come il lettore non ne ha certamente mai veduti. Simili scherzi di natura, del resto, capita di vederli in diversi quadri storici, che ci furono portati in Russia non si sa quando, né di dove, né da chi, a volte anche dai nostri gran signori amatori d’arte, che li avevano acquistati in Italia per consiglio dei loro postiglioni.

    Il signore si levò il berretto e svolse dal collo una pezzuola di lana a vivaci colori, di quelle come agli uomini ammogliati le prepara con le proprie mani la consorte, accompagnandole con opportune raccomandazioni sul modo di avvolgerle, e agli scapoli... in verità non saprei dire chi gliele prepari, lo sa Iddio: quanto a me, non ho mai portato pezzuole simili. Mentre gli recavano le varie pietanze usuali delle trattorie, come la minestra di cavolo con una pasta sfoglia tenuta in serbo apposta per i viaggiatori durante parecchie settimane, cervello con piselli, salsicce coi cavoli, un pollo arrosto, i cetrioli salati, e l'eterno pasticcio dolce di pasta sfogliata, sempre pronto agli ordini; mentre dunque gli recavano tutte queste cose, o riscaldate o addirittura fredde, egli si fece raccontare dal cameriere, o polovoj, ogni sorta di sciocchezze: chi fosse stato prima il padrone della locanda e chi fosse ora, e se quella desse molto reddito, e se il padrone fosse un gran furfante, al che il polovoj, secondo l’abitudine, rispondeva:Oh, è un grande imbroglione, signor mio! ». Come nella illuminata Europa, così anche nella illuminata Russia vi sono ancora molte persone assai rispettabili che non sanno mangiare in trattoria senza attaccar discorso col cameriere e talora persino pigliarlo dilettevolmente in giro. Del resto, il nostro viaggiatore non fece soltanto domande vane: s’informò assai minutamente chi fosse il governatore della città, chi il presidente del tribunale, chi il procuratore, insomma non dimenticò neppur uno degli ufficiali pubblici più importanti, ma con precisione anche maggiore, se non proprio con sollecitudine, s’informò su tutti i proprietari di terre più notevoli: quante anime di Contadini possedesse ciascuno, a che distanza abitasse dalla città, persino quale fosse il suo carattere e se in città ci venisse di sovente; s’informò premurosamente sulle condizioni della regione: se c’erano state malattie in quella provincia, morbi epidemici, febbri mortali di qualunque specie, vaiolo e simili; e tutto ciò in modo tale e con una precisione che dimostrava più che la semplice curiosità. Nelle maniere il signore aveva una certa gravità e si soffiava il naso con gran rumore. Come mai lo facesse, è ignoto, ma il fatto è che il suo naso sonava come una tromba. Questo merito, in apparenza tutto innocente, gli procurò tuttavia un gran rispetto da parte del cameriere della locanda, così che questi, ogni qualvolta sentiva quel rumore, scrollava i capelli, si drizzava con maggior deferenza e, chinando dall’alto la testa, domandava: « Avete bisogno di nulla? ». Dopo il pranzo il signore prese una tazza di caffè e sedette sul divano, infilandosi dietro le spalle un cuscino, di quelli che i locandieri russi sogliono imbottire, invece che di soffice lana, d’un qualche cosa che somiglia molto ai mattoni e ai ciottoli. Lì cominciò a sbadigliare e ordinò che lo accompagnassero nella sua camera, dove, coricatosi, s’addormentò e dormi due ore. Dopo essersi riposato, scrisse sopra un lembo di carta, pregatone dal servo della locanda, il proprio grado, nome e cognome, perché fossero comunicati a chi di ragione, alla polizia. Sulla carta il polovoj, mentre scendeva le scale, lesse sillabando le seguenti parole: « Consigliere di collegio Pavel Ivanovic Cicikov, possidente; per affari privati ». Quando il polovoj ebbe decifrato ancora una volta, sillabando, lo scritto, quello stesso Pavel Ivanovic Cicikov se ne andò a visitare la città, della quale sembrò soddisfatto, perché trovò che non la cedeva in nessun punto agli altri capiluoghi di governatorato: la tinta gialla delle case di pietra saltava all’occhio, mentre quella grigia delle case di legno restava modestamente oscura. Le case erano di un piano, d’un piano e mezzo o di due, col solito mezzanino, bellissimo, secondo l’opinione degli architetti locali. In certi luoghi queste case sembravano sperdute in mezzo a strade larghe come un campo, con interminabili steccati di legno; altrove si stringevano le une addosso alle altre in un mucchio, e li si notava maggior movimento di gente e animazione. Capitava di vedere insegne lavate dalla pioggia, con dipinti di ciambelle o scarpe, o — qua e là — un paio di calzoni turchini e il nome di qualche sarto di Varsavia; qui un negozio di berretti e cappelli, con la scritta: « Vasilij Fedorov, straniero »; là era dipinto un biliardo con due giocatori vestiti di certe marsine come le por­ tano a teatro gli attori che entrano in scena nella parte di ospiti al­ l’ultimo atto. I giocatori erano rappresentati mentre prendevano la mira con le stecche, con le braccia girate un po’ all’indietro, e le gambe oblique, dopo aver fatto allora allora uno sgambetto per aria. Sotto tutto questo era scritto: « Ed ecco il locale ». In qualche posto, proprio sulla strada, c’erano tavole con noci, saponi e pampepati che somigliavano al sapone; altrove era un’osteria con un’insegna rappresentante un grosso pesce infilzato in una forchetta. Ma più che mai frequenti si vedevano quelle aquile bicipiti governative scurite, che sono ora sostituite dalla laconica scritta: « Bottiglieria ». Il selciato era cattivo ovunque. Il signore diede un’occhiata anche al giardino pubblico, che consisteva in alcuni alberi sottili, mal cresciuti, cinti in basso da ripari di forma triangolare assai elegantemente verniciati di verde. Del resto, sebbene quegli alberelli non fossero più alti di canne, tuttavia nelle gazzette, nel far la descrizione delle luminarie, se n’era. parlato cosi: « La nostra città, grazie alle cure dell’amministrazione cittadina, si è abbellita di un giardino, composto di ombrosi e fronzuti alberi, che danno refrigerio nelle giornate afose », e « a questo proposito era commovente osservare come i cuori dei cittadini palpitassero nella piena della gratitudine e come fiumi di lacrime scorressero in segno di riconoscenza verso il signor podestà». Dopo aver interrogato con precisione una guardia su quale fosse la strada più breve per giungere, in caso di bisogno, alla Cattedrale, agli uffici pubblici, al governatorato, egli se ne andò a dare un’occhiata al fiume che scorreva per il centro della città; strada facendo strappò da un palo un manifesto che vi era attaccato, per poterselo leggere comoda­ mente a casa, guardò attentamente una signora di aspetto piacente che passava sul marciapiede di legno, seguita da un ragazzo in livrea militare che portava un fagotto in mano, e dopo avere ancora una volta abbracciato con lo sguardo ogni cosa, come per bene imprimersi nella memoria la situazione dei luoghi, se ne andò a casa e diritto in camera sua, sostenuto leggermente per le scale dal servo della locanda. Dopo aver preso il tè, sedette al tavolino, si fece recare una candela, tolse di tasca il manifesto, l’avvicinò alla candela e si mise a leggere, socchiudendo alquanto l’occhio destro. Il manifesto però non diceva gran che di notevole: si rappresentava un dramma di Kotzebue nel quale il signor Poplevin faceva la parte di Rolla e la signorina Zjablova quella di Kora; gli altri personaggi erano ancor meno degni di menzione; tuttavia egli li lesse tutti, giunse persino ai prezzi dei posti di platea, e venne a sapere che il manifesto era stato stampato nella tipografia del governatorato; poi lo voltò dall’altra parte, per vedere se ci fosse dell’altro, ma, non avendo trovato nulla, si strofinò gli occhi, ripiegò il foglio accuratamente e lo mise nella sua cassettina, nella quale aveva l’abitudine di riporre tutto quello che gli capitava sotto mano. La giornata fu conclusa, a quanto rare, da una porzione di vitella fredda, una bottiglia di sci acide e un sonno profondo, « a stantuffo di pompa », secondo l’espressione usata in alcuni luoghi del vasto impero russo.

    Tutta la giornata seguente fu dedicata alle visite. Il nuovo arrivato si recò a far visita a tutte le autorità cittadine. Presentò i suoi omaggi al governatore, il quale, a somiglianza di Cicikov, non era né grasso né magro, portava al collo la croce di Sant’Anna e si diceva anzi che fosse stato proposto per la stella; del resto era una buona pasta duomo e qualche volta ricamava persino sul tulle. Poi si recò dal vicegovernatore, poi dal procuratore, dal presidente del tribunale, dal capo della polizia, dall’appaltatore, dal direttore delle fabbriche governative... peccato che sia così difficile rammentarsi tutti i potenti della terra; ma basterà dire che il nuovo arrivato dimostrò uno zelo straordinario in fatto di visite; andò persino a presentare i suoi omaggi all’ispettore dell’ufficio sanitario e all’architetto cittadino. Poi rimase ancora per un pezzo seduto nel carrozzino, riflettendo a chi altro dovesse far visita; ma ormai altri ufficiali pubblici in città non ne trovò. Nel discorrere con questi potenti, egli seppe assai abilmente adulare ciascuno di loro. Al governatore accennò, cosi di passaggio, che nel suo governatorato ci s’entrava come in un paradiso, che tutte le strade v’erano lisce come il velluto e che quei governi che sanno' scegliere alti funzionari intelligenti son meritevoli di ogni elogio. Al capo della polizia disse cose molto lusinghiere sulle guardie di città; e nelle conversazioni col vicegovernatore e col presidente del tribunaie, i quali erano appena consiglieri di Stato, disse financo, per errore, due volte «vostra eccellenza», il che piacque loro moltissimo.

    La conseguenza di tutto ciò fu che il governatore lo invitò ad andare da lui quel giorno stesso ad una serata di famiglia, e gli altri impiegati pure, dal canto loro, chi l’invitò a pranzo, chi a una partita di boston, chi a pigliare una tazza di tè.

    Di se stesso il viaggiatore sembrava evitasse di parlar troppo; e quando ne parlava, lo faceva con certi luoghi comuni, con una spiccata modestia, e il suo conversare prendeva allora un andamento al­ quanto letterario: diceva ch’egli era un trascurabile verme della terra, indegno che altri si occupasse molto di lui; che in vita sua ne aveva passate molte, che aveva sofferto per amore della verità, che aveva molti nemici, i quali avevano persino attentato alla sua vita; che ora, volendo mettersi tranquillo, desiderava di scegliere finalmente un posto per stabilirvisi e che, giunto in quella città, aveva considerato come un suo imprescindibile dovere di rendere omaggio alle più alte cariche della stessa. Ecco tutto ciò che si seppe in città sul conto di quel nuovo personaggio, il quale poco dopo non mancò di presentarsi al ricevimento del governatore. I preparativi per quel ricevimento l’occuparono per più di due ore, e qui il viaggiatore dimostrò una tale meticolosità nell’abbigliarsi, quale non sempre è dato vedere. Dopo il sonnellino pomeridiano, si fece portare il necessario per lavarsi, e per un bel po’ di tempo si passò il sapone su ambedue le guance, gonfiandole dall’interno con la lingua; poi, tolto di mano al servo della locanda l’asciugatoio, si strofinò con esso da tutte le parti il viso pienotto, cominciando dagli orecchi, dopo avere sbuffato un paio di volte proprio in faccia al servo; poi, davanti allo specchio, si mise il pettino, si strappò due peluzzi che gli sporgevano dal naso, e sùbito dopo eccolo pronto, con indosso la marsina picchiettata di color mirtillo. Cosi vestito se ne andò con la propria carrozza, per certe strade infinitamente larghe, rischiarate dalla fioca illuminazione delle finestre che brillavano qua e là. La casa del governatore però era illuminata come per un ballo: carrozze con fanali, due gendarmi davanti all’ingresso, grida di battistrada in distanza... insomma tutto come si conviene. Entrato nella sala, Cicikov dovette socchiudere un momento gli occhi, perché lo scintillio delle candele, delle lampade e degli abiti delle signore era abbagliante. Ogni cosa era soffusa di luce. Le marsine nere apparivano e sparivano, aggirandosi qua e là, alla spicciolata e a gruppi, come girano le mosche, di luglio, in una calda giornata estiva, sopra un bianco e luccicante pan di zucchero, quando la vecchia dispensiera lo rompe e lo divide in pezzi brillanti dinanzi alla finestra aperta: tutti i bambini, radunati all’intorno, stanno a guardare, seguendo con curiosità i movimenti delle sue mani dure che alzano su il martello, mentre le squadre aeree delle mosche, sollevate dall’aria leggera, entrano a volo arditamente, come padrone assolute, e, approfittando della miopia della vecchia e del sole che le disturba gli occhi, si posano sui ghiotti bocconi, ora in ordine sparso, ora in folti mucchi. Saziate dalla estate generosa, che già di per sé offre loro ad ogni passo ghiotte pietanze, esse non sono affatto entrate per mangiare, ma solo per farsi vedere, passeggiare avanti e indietro sulla montagna di zucchero, strofinarsi l’una sull’altra le zampette anteriori e posteriori, o grattarsi con esse sotto le alucce, oppure, protese le due zampette davanti, strofinarsele sopra la testa, voltarsi e volar via, per tornare poi di nuovo con altri noiosi squadroni.

    Ùicikov non ebbe il tempo di guardarsi attorno, che già fu preso sottobraccio dal governatore, il quale lo presentò li su due piedi alla governatrice. Il nuovo ospite anche in quell’occasione non si compromise: disse qualche parola complimentosa, perfettamente adatta per un uomo di media età e di grado né troppo elevato né troppo umile. Quando le coppie danzanti che s’eran formate spinsero tutti quanti contro la parete, egli, con le mani unite sul dorso, le guardò per un paio di minuti assai attentamente. Molte signore erano vestite bene e secondo la moda, altre s’erano messe addosso quel che Dio poteva mandare in un capoluogo di governatorato. Di uomini, come dappertutto, ce n’erano di due qualità: gli uni snelli, che si aggiravano in­ torno alle signore; alcuni di essi erano cosi fatti, che sarebbe stato difficile distinguerli dai pietroburghesi: avevano fedine pettinate con altrettanto studio e buon gusto, oppure semplicemente visi piacenti, ovali, tutti lisci e rasi; si sedevano con altrettanta disinvoltura accanto alle signore, parlavano egualmente il francese e facevano ridere le signore proprio come quelli di Pietroburgo. L’altra specie di uomini era formata da quelli grassi e da quelli come Cicikov, cioè non troppo grassi, ma nemmeno snelli. Contrariamente agli altri, questi guarda­ vano di bieco le signore e le sfuggivano, e gettavano soltanto delle occhiate di qua e di là per vedere se il cameriere del governatore non disponesse in qualche luogo un tavolino verde per il whist. Costoro avevano visi pieni e rotondi, alcuni avevano persino dei bitorzoli, taluno era anche butterato; i capelli non li portavano a ciuffo né arricciati, né « alla diavola », come dicono i francesi; i loro ca­ pelli erano tagliati corti, o pettinati lisci, e i lineamenti piuttosto tondeggianti e pronunciati. Erano dei rispettabili funzionari della città. Ahimè! I grassi sanno aggiustar meglio gli affari loro a questo mondo, che non gli snelli. Gli snelli servono piuttosto per incarichi speciali, o fanno semplicemente numero, e girano di qua e di là; la loro esistenza è come a dire troppo leggera, aerea e molto instabile. I grassi invece non occupano mai cariche incerte, ma sempre sicure, e quando s'insediano in un posto, ci s’insediano stabilmente e tenacemente, talché è più facile che il posto crolli e si sprofondi sotto di loro, che non che essi lo abbandonino. Costoro non amano il lustro esteriore; non hanno la marsina cosi ben tagliata come gli snelli, ma, per compenso, i cassetti pieni d’ogni grazia di Dio. Gli snelli dopo tre anni non possiedono più un’anima che non sia impegnata al Monte di Pietà! Il grasso, zitto zitto, si trova tutt’a un tratto a possedere a un capo della città una casa, acquistata a nome della moglie, poi all’altro capo un’altra casa, poi nelle vicinanze della città una piccola campagna, e poi anche un villaggio con tutti gli accessori. Finalmente, il grasso, dopo aver servito Dio e il Sovrano ed essersi meritato la stima universale, lascia il servizio, si ritira e si trasforma in un proprietario di campagna, in un vero gran signore russo, molto ospitale: e li vive, e vive bene. E dopo di lui gli eredi snelli tornano a spendere, secondo l’abitudine russa, di gran carriera, tutte le sostanze paterne. Non possiamo nascondere che considerazioni più o meno di questo genere occupavano la mente di Cicikov, mentre esaminava la compagnia, e la conseguenza fu questa, che finalmente si uni ai grassi, fra i quali ritrovò quasi tutte facce note: il procuratore, con le sopracciglia folte e nerissime, e l’occhio sinistro sempre un po’ strizzato, come se dicesse: « Andiamo nell’altra stanza, amico: li ti racconterò un fatto... » — uomo, del resto, serio e taciturno; il direttore delle poste, piuttosto basso, ma bello spirito e filosofo; il presidente del tribunale, persona molto riflessiva e gentile; tutti costoro lo accolsero come una vecchia conoscenza, mentre Cicikov s’inchinava, un po’ di lato, ma non senza grazia. Là fece anche la conoscenza del proprietario Manilov, persona molto affabile e cortese, e di Sobakevic, un po’ goffo d’aspetto, che fino dal primo momento gli pestò un piede e gli disse: «Vi chiedo scusa». Ivi gli offrirono anche una carta per il whist, ch’egli accettò con lo stesso cortese inchino. Sedettero al tavolino verde e non s’alzarono più fino all’ora di cena. Tutti i discorsi s’interruppero di colpo, come sempre avviene, quando finalmente ci si rivolge a qualche occupazione seria. Sebbene il direttore delle poste fosse molto loquace, pure anch’egli, appena prese le carte in mano, immediatamente atteggiò il viso a una espressione pensierosa, coperse il labbro superiore coll’inferiore e mantenne tale posizione per tutto il tempo del gioco. Nel metter fuori una figura, batteva forte la mano sulla tavola, soggiungendo, se era una donna: « Vattene, vecchia popadjaì » se un re: « Vattene, villano di Tambov! ». Il presidente invece soggiungeva: « Ma io lo piglierò per i baffi! Ma io la piglierò per i baffi! ». Qualche volta, nello sbattere le carte sulla tavola, veni­ vano fuori espressioni come queste: « Ah! Sia come sia, non c’è che fare, vada per i quadri! » o, semplicemente, esclamazioni come: « Cuori! cuoricini! picchetti » o « Picchettini! picchettacci! picchet- toni! » e persino: « Piccacci! », denominazioni con le quali si ribattezzavano i semi delle carte in quella compagnia. Finito il gioco, di­ scussero, come suole accadere, a voce abbastanza alta. Anche il nostro ospite forestiero discusse, ma con una certa speciale abilità, in modo da far vedere a tutti che discuteva, ma assai piacevolmente. Non diceva mai: « Voi avete giocato... » ma: « Voi vi siete compiaciuto di giocare... », « Io ho avuto l’onore di coprire il vostro due », e simili. Per convincere ancor meglio i suoi avversari di qualche cosa, egli porgeva ogni volta a tutti loro la sua tabacchiera d’argento e smalto, sul fondo della quale fu notata la presenza di due violette, postevi per dar profumo. L’attenzione del nuovo arrivato fu attratta special- mente dai proprietari Manilov e Sobakevic, di cui già s’è accennato. Egli s’informò tosto sul conto loro, chiamando subito un po’ in di­ sparte il presidente e il direttore delle poste. Alcune domande da lui fatte dimostrarono nell’ospite non soltanto curiosità, ma anche serietà di propositi, poiché prima di tutto domandò quante anime di conta dini possedesse ciascuno, e in quali condizioni si trovassero le loro terre, e soltanto in seguito s’informò del loro nome e del patrimonio. In poco tempo riuscì ad affascinarli completamente. Il proprietario Manilov, uomo ancora tutt’altro che anziano, con occhi dolci come zucchero che socchiudeva ogni qualvolta si metteva a ridere, perdette addirittura la testa per lui. Gli strinse assai a lungo la mano e lo pregò nel modo più persuasivo di fargli l’onore d’una visita nella sua campagna, la quale, a quanto disse, distava soltanto quindici verste dalla barriera della città; al che Cicikov, chinando assai cortesemente il capo e stringendogli la mano con cordialità, rispose che non solo era pronto, con gran piacere, a soddisfare il suo desiderio, ma anzi considerava questo come un sacrosanto dovere. Sobakevic disse egli pure, un po’ laconico: « Venite anche da me! » stropicciando in terra il piede, calzato d’una scarpa di dimensioni veramente gigantesche, alla quale sarebbe stato ben difficile trovare un piede corrispondente, specie nei tempi presenti, perché anche in Russia gli eroi giganti cominciavano a scomparire.

    Il giorno dopo Cicikov si recò a pranzare e a passar la serata dal capo della polizia, e li sedettero a giocare a whist alle tre del pomeriggio, e giocarono fino alle due di notte. Là, fra l’altro, egli fece la conoscenza di un uomo sulla trentina, il proprietario Nozdrev, giovanotto disinvolto che dopo tre o quattro parole cominciò a dargli del tu. Nozdrev dava del tu anche al capo della polizia e al procura­ rare, e li trattava con familiarità; ma quando sedettero a giocare, e a giocar forte, il capo della polizia e il procuratore esaminavano con grande attenzione le sue prese e seguivano quasi ogni carta che metteva fuori. Il giorno seguente Cicikov passò la serata dal presidente del tribunale, che riceveva i suoi invitati, e fra questi due signore, in una veste da camera alquanto unta. Poi andò a un ricevimento serale dal vicegovernatore, a un pranzo di gala dall’appaltatore dei monopoli, un pranzo intimo dal procuratore, che del resto valeva quello di gala; poi in casa del sindaco ad uno spuntino dopo la messa, che valeva pure un pranzo. Insomma non riusciva a stare in casa neppure un’ora, e alla locanda ci andava solo per dormire. Il forestiero sapeva trovarsi dovunque a suo agio e si mostrava esperto uomo di mondo. Qualunque fosse il soggetto di una conversazione, egli sapeva sostenerla: si parlava di allevamenti di cavalli — e lui parlava di alleva­ menti di cavalli; si parlava di buoni cani — e anche qui sapeva fare osservazioni assai opportune; si trattava di un’inchiesta condotta dal tribunale di Stato — e lui dimostrava che non gli erano ignoti neppure i raggiri giudiziari; si facevano considerazioni sul gioco del biliardo — e anche nel biliardo si mostrava competente; si parlava della virtù — ed egli faceva riflessioni molto giuste sulla virtù, e financo con le lagrime agli occhi; si discuteva sulla preparazione del vino caldo — e la sapeva lunga anche sul vino caldo; sui sorveglianti e impiegati doganali — ed anche questi li sapeva giudicare cosi bene, come se fosse egli stesso impiegato o sorvegliante. Ma il fatto notevole era ch’egli sapeva toccare tutti questi argomenti con una certa posatezza, insomma conosceva il buon contegno. Non parlava né forte né piano, ma proprio cosi come si conviene. A dirla in breve, da qualunque parte lo si girasse, era un uomo molto per bene. Tutti i funzionari furono contenti dell’arrivo di quel nuovo personaggio. Il governatore si espresse sul conto di lui, dicendo ch’era un uomo di buone intenzioni; il procuratore lo definì un uomo di valore; il colonnello dei gendarmi, uno scienziato; il presidente del tribunale, un uomo sapiente e rispettabile; il capo della polizia, un uomo rispetta­ bile e gentile; la moglie del capo della polizia, un uomo gentilissimo e cortesissimo. Persino lo stesso Sobakevic, che raramente esprimeva un giudizio favorevole su chicchessia, ritornato a casa dalla città piuttosto tardi, quando si fu spogliato, e coricato accanto alla sua magra sposa, le disse: « Sono stato, anima mia, a una serata dal governatore, e ho pranzato dal capo della polizia; e ho fatto la conoscenza del consigliere di collegio Pavel Ivanovic Cicikov: un uomo piacevolissimo! ». Al che la consorte rispose: « Hum! » e gli diede uno spintone col piede.

    Tale fu l’opinione, assai lusinghiera per l’ospite, che si formò sul conto suo in città, e vi si mantenne fino al momento in cui una strana qualità e impresa dell’ospite, o — come dicono in provincia — una sua « gesta », della quale il lettore sarà presto informato, non suscitò in quasi tutta la città uno stupore straordinario.


    [2] Pelliccia rozza, da contadini: a sacco e per lo più lunga, di montone o di pecora.

    [1] Bevanda composta di miele bruciato, acqua e varie spezie, che si vende calda.

    CAPITOLO II

    Il signore forestiero viveva già da più d’una settimana in città, frequentando ricevimenti serali e pranzi e passando in tal modo, come si suol dire, assai piacevolmente il tempo. Alla fine decise di estendere le sue visite fuori di città e di andar a trovare i proprietari Mamllov e Sobakevic ai quali aveva promesso una visita. A far ciò lo spinse forse anche un’altra, più importante ragione, una cosa più vicina al suo cuore... Ma di tutto questo il lettore sarà informato a poco a poco, a suo tempo, purché abbia la pazienza di leggere tutto il presente lunghissimo racconto, che dovrà poi svilupparsi più ampia­ mente e diffusamente nell’avvicinarsi alla fine che corona l’opera. Al cocchiere Selifan fu dato l’ordine di attaccare i cavalli, la mattina per tempo, al noto carrozzino; a Petruska fu comandato di restare in casa e di badare alla camera e al baule. Non sarà inutile per il lettore far la conoscenza di questi due servi del nostro eroe. Sebbene costoro, certamente, non siano personaggi molto notevoli, ma anzi di quelli che si chiamano di secondo e magari di terz’ordine, sebbene l’andamento e le azioni fondamentali del poema non siano basate sopra di esso, e li sfiorino tutt’al più qua e là e vi si soffermino alla leggera, tuttavia l’autore ama essere sommamente meticoloso in tutto e a questo riguardo, benché sia russo, vuol essere esatto come un tedesco e del resto non occuperà molto tempo né spazio, perché non c’è molto da aggiungere a quello che il lettore già sa, cioè che Petruska portava un largo soprabito bruno smesso dal padrone e aveva, come tutta la gente della sua classe, naso e labbra grosse. D’indole era piuttosto taciturno che loquace, aveva persino una nobile inclinazione per la cultura, cioè per la lettura di libri, del cui contenuto non si dava pensiero: gli era del tutto indifferente che fossero avventure di un eroe innamorato, un semplice sillabario o un libro di preghiere, — egli leggeva tutto con la stessa attenzione; se gli avessero offerto un manuale di chimica, non avrebbe rifiutato nemmeno quello. Non zìi piaceva l’argomento della lettura, ma piuttosto la lettura stessa, anzi, per dir meglio l’atto medesimo di leggere, cioè il fatto che, ecco qua, dalle lettere si forma sempre una qualche parola, la quale, a volte, lo sa il diavolo quel che significhi. Questa lettura egli la compieva per lo più in posizione sdraiata, nell’anticamera, sul letto e sulla materassa, che per tale ragione s’era fatta sottile e schiacciata come una frittella. Oltre alla passione per la lettura, aveva ancora due abitudini che rappresentavano altre due sue caratteristiche: di dormire senza spogliarsi, così com’era, col soprabito addosso, e di portar sempre con sé un suo olezzo particolare, un odore suo proprio che rammentava un po’ quello d’una camera d’abitazione, cosi che bastava che egli collocasse in qualche luogo il suo letto, magari in una stanza mai prima abitata, e che vi trascinasse il suo cappotto e i suoi bagagli per far subito pensare che in quella stanza ci fosse vissuta gente da una diecina d’anni. Cicikov, essendo un uomo schizzinoso, e per taluni riguardi persino sofistico, inspirando l’aria la mattina, a naso fresco, si limitava a fare una smorfia e a scrollar la testa, soggiungendo: « Tu, fratello, che diavolo... sudi, mi pare. Dovresti almeno andare al bagno ». Al che Petruska non rispondeva niente e tosto si metteva a fare qualche cosa: o s’avvicinava con la spazzola alla giubba appesa del padrone, o semplicemente riponeva qualche oggetto. Che pensava egli, mentre cosi taceva? Forse diceva tra sé: « Anche tu, però, sei un bel tipo: non ti sei ancora stancato di ripetere per quaranta volte le stesse cose... ». Dio lo sa, è difficile sapere quello che pensi un servo di casa mentre il padrone gli fa una ramanzina. E cosi dunque, ecco ciò che a tutta prima si può dire di Petruska. Il cocchiere Selifan era un uomo tutto diverso... Ma l’autore ha rimorso di occupare così a lungo i lettori con persone di bassa condizione, sapendo per esperienza come essi non amino far conoscenza con gente delle classi inferiori. Il russo è ormai cosi fatto: ha una grande smania di conoscere quelli che sono almeno di un grado superiori a lui, e l’essere in relazioni di saluto con un conte o principe gli sembra miglior cosa di qualunque intima amicizia. L’autore già teme per il suo eroe, il quale è semplicemente consigliere di collegio. I consiglieri di corte forse vorranno farne la conoscenza, ma coloro che hanno già raggiunto il grado di generale, quelli forse, Dio sa, gli getteranno uno di quegli sguardi sprezzanti che l’uomo suol gettare superbamente a tutto ciò che non si prosterni ai suoi piedi, oppure, ciò che sarebbe ancor peggio, passeranno avanti con una noncuranza fatale per l’autore. Ma, per quanto l’una cosa e l’altra possano essere offensive, bisogna tuttavia che ritorniamo al nostro eroe. E cosi, dati gli ordini necessari fin dalla sera, e destatosi la mattina di poi molto per tempo, dopo essersi lavato e strofinato da capo a piedi con una spugna inzuppata, cosa che faceva soltanto la domenica (e quel giorno era domenica), dopo essersi sbarbato in modo tale che le guance divennero un vero raso, tanto erano lisce e lucide, dopo essersi messa la sua marsina picchiettata di color mirtillo, e poi un cappotto foderato con una gran pelliccia d’orso, egli scese le scale, sostenuto sotto l’ascella, ora da una parte, ora dall’altra, dal servo della locanda, e montò sul carrozzino. Il carrozzino uscì con fracasso di sotto al portone della locanda in strada. Un pop che passava si tolse il cappello, alcuni ragazzini in camiciole sudice tesero le mani, dicendo: « Signore, fa’ la carità agli orfanelli! ». Il cocchiere, vedendo che uno di essi aveva una gran voglia di salire sul predellino di dietro, lo colpi con la frusta e il carrozzino prese la corsa, sobbalzando sull’acciottolato. Non senza gioia si scorgeva da lontano la barriera striata, a indicare che l’acciottolato, come ogni altro tormento, avrebbe avuto presto fine, e dopo aver ancora alcune volte sbattuto la testa abbastanza forte contro la cassa della carrozza Cicikov volò finalmente sul terreno morbido. Appena lasciata indietro la città, cominciò subito a vedere, come da noi succede, ogni sorta di robaccia ai due lati della strada: zolle di terra, abetine, cespi bassi e radi di giovani pini, tronchi bruciacchiati di pini vecchi, eriche selvagge e simili. Passavano villaggi con le case allineate in fila, simili nella costruzione a vecchie cataste di legna, coperte di tetti grigi sotto i quali le frastagliature di legno intagliato sembravano asciugamani appesi, ricamati a disegni. Alcuni contadini se ne stavano, secondo l’abitudine, a sbadigliare, seduti sulle panche davanti alle porte, coperti dei loro tulup di pelo di pecora. Donne coi visi grossi e le mammelle fasciate guardavano dalle finestre superiori; dalle inferiori si affacciava qualche vitello o spuntava il muso cieco di un maiale. Insomma le vedute solite. Passata la quindicesima versta, Cicikov si rammentò che ivi, secondo quanto aveva detto Manilov, doveva trovarsi il villaggio di lui; ma passò anche la sedicesima versta, e il villaggio ancora non si vedeva, e se non fossero stati due contadini in cui s’imbatterono, ben difficilmente avrebbero raggiunto la meta. Alla domanda: « É lontano di qui il villaggio di Zamanilovka? » i contadini si tolsero i cappelli e uno di loro, il più intelligente, che portava una barbetta a punta, rispose: « Manilovka, vorrete dire, e non Zamanilovka? ».

    — Ebbene si, Manilovka.

    — Manilovka! Se fai un’altra versta, ecco qua, allora devi prender diritto a man destra.

    — A man destra? — domandò il cocchiere.

    — A man destra, — disse il contadino. — E quella è la strada per Manilovka; ma Zamanilovka non esiste. Cosi si chiama, cioè il suo nome è Manilovka, ma di Zamanilovka non ce n’è nessuna. Là, proprio sulla cima, vedrai una casa, di pietra, a due piani, che è la casa padronale, dove cioè abita il signore in persona. E quella li è Manilovka, ma di Zamanilovka non ce n’è mai stata nessuna da queste parti.

    Se ne partirono alla ricerca di Manilovka. Dopo aver fatto due verste, trovarono una svolta verso una strada secondaria; ma passarono altre due, e tre, e forse quattro verste, e la casa di pietra a due piani non si vedeva ancora. A questo punto Cicikov si rammentò che, quando un amico c’invita da lui nella sua campagna distante quindici verste, vuol dire che fin là ce ne son trenta buone. Il villaggio di Manilovka non poteva attrarre molta gente per la sua posizione. La casa padronale stava isolata ai sette venti, cioè sopra un’altura esposta a tutti i venti che avessero avuto voglia di soffiare; le pendici del poggio, sul quale sorgeva la casa, eran coperte di erba falciata corta. Su questa erano sparse, secondo lo stile inglese, due o tre aiuole con cespugli di lillà e di acacie gialle; cinque o sei betulle ergevano qua e là, a piccoli gruppi, le cime sfrondate e rade. Sotto due di esse si vedeva un capanno con una cupola piatta verde, colonne di legno azzurro e la scritta: «Tempio della meditazione solitaria»; più in basso uno stagno coperto di verzura, cosa del resto non troppo insolita nei giardini inglesi dei proprietari russi. Ai piedi di quell’altura, e in parte anche sul fianco di essa, si scorgevano, sparse alla rinfusa, le macchie scure delle grigie izbe, fatte di tronchi d’albero, e il nostro eroe, chissà per quali ragioni, si mise immediatamente a contarle, numerandone più di duecento. In nessun luogo, fra esse, si vedeva un alberello né un po’ di verde: dovunque tronchi e nient’altro che tronchi. La veduta era ravvivata da due contadine, le quali, sollevati pittorescamente i vestiti e rimboccatili da tutte le parti, guadavano lo stagno con l’acqua fino ai ginocchi, trascinando per due manici di legno un setaccio logoro, nel quale si scorgevano due gamberi impigliati e si vedeva brillare un malcapitato ghiozzo; le donne a quanto pareva, erano in lite fra loro e s’ingiuriavano a vicenda per qualche cosa. Lontano, in disparte, spiccava scuro, d’un color turchino uni­ forme, un bosco di pini. Persino il tempo s’era disposto assai bene a proposito: la giornata non era né serena né fosca, ma d’un certo colore grigio chiaro, come sogliono essere soltanto le vecchie divise dei soldati di guarnigione, di questi militari pacifici in fondo, ma avvinazzati nei giorni di festa. A completare il quadro non mancava un gallo, vaticinatore dei cambiamenti di tempo, il quale, sebbene avesse la testa scalpellata fino al cervello dai becchi di altri galli per certe faccende amorose, cantava assai forte e sbatteva persino le ali, spennacchiate come vecchie stuoie. Avvicinandosi alla casa, Cicikov osservò, sul terrazzino d’ingresso il padrone di casa in persona, che, vestito d’un soprabito di stoffa di lana verde, se ne stava con la mano sulla fronte a riparo degli occhi, per meglio osservare il veicolo che avanzava. A mano a mano che il carrozzino s’avvicinava all’ingresso, gli occhi si facevano più gai e il sorriso diventava sempre più ampio.

    — Pavel Ivanovic! — esclamò finalmente, quando Cicikov saltò giù dal carrozzino. — Finalmente vi siete ricordato anche di noi!

    I due amici si baciarono di gran cuore, e Manilov condusse il suo ospite in casa. Il tempo che essi metteranno ad attraversare l’atrio, l’anticamera e la sala da pranzo sarà piuttosto breve, tuttavia cercheremo di approfittarne, per quanto possibile, per dire qualche cosa sul conto del padrone di casa. Ma qui l’autore deve confessare che una simile impresa è molto difficile. È molto più facile rappresentare i caratteri di grande rilievo: lì non c’è da far altro che gettare sulla tela colori a piene mani — occhi neri fiammeggianti, sopracciglia folte, fronte solcata da una ruga, un mantello nero, o rosso come il fuoco, buttato sopra una spalla — e il ritratto è pronto; invece tutti questi signori come ce n’è tanti al mondo, che all’aspetto si rassomigliano molto, eppure a guardarli bene ci vedi le più inafferrabili note individuali, questi signori sono assai difficili a ritrarre. Qui bisogna aguzzare fortemente l’attenzione, finché si giunga a far risaltare da­ vanti agli occhi tutti quei tratti sottili, quasi invisibili, e in generale bisogna molto approfondire lo sguardo, già affinato nella scienza del­ l’indagine.

    Dio solo poteva sapere quale fosse il carattere di Manilov. V’è una categoria di persone note sotto il nome di « gente cosi cosi, né cosi né cosà, né carne né pesce », come dice il proverbio. Forse tra questi bisogna classificare anche Manilov. A vederlo era un uomo di bell’aspetto; i lineamenti non erano privi di piacevolezza, ma era una piacevolezza che aveva Faria d’essere troppo inzuccherata; nel suo modo di fare e di trattare v’era come lo sforzo di acquistarsi conoscenze e simpatie. Aveva un sorriso attraente, era biondo,

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