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Il nibbio. Ovvero, i miei primi pensieri a Tannersville
Il nibbio. Ovvero, i miei primi pensieri a Tannersville
Il nibbio. Ovvero, i miei primi pensieri a Tannersville
E-book192 pagine1 ora

Il nibbio. Ovvero, i miei primi pensieri a Tannersville

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Info su questo ebook

Scrivere la propria storia è difficile ma scrivere i propri sentimenti è ancora più difficile poiché il pudore a volte ci frena. Questa raccolta è l'insieme dei vari passi della mia vita e di quello che ho provato in varie situazioni: come la morte di un'amica, il volo di un rapace, il ritorno al Padre di un papa, lo scosciare dell'acqua, rivedere un vecchio ulivo e il ricordo delle favole che mia madre mi raccontava intorno ad un braciere. Le ultime opere sono il risultato di quelle precedenti anche se un singhiozzo, nel rileggerle, m'attanaglia a tutt'oggi. Buona lettura e se in qualcuna vi riconoscerete allora capirete ancora meglio quello che ho inteso esprimere.
LinguaItaliano
Data di uscita26 ago 2016
ISBN9788892625259
Il nibbio. Ovvero, i miei primi pensieri a Tannersville

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    Anteprima del libro

    Il nibbio. Ovvero, i miei primi pensieri a Tannersville - Francesco Testa

    (L’autore)

    IN RICORDO DI UNA AMICA SCOMPARSA

    New York, 1978

    Mi lasci tristi nostalgie di sguardi

    che non sanno più attraversare

    nel silenzio vellutato dell’alba

    il lento fruire della vita mia, sai…

    ho catturato la voce del vento prima del tuo dormire.

    Osservo curioso il cielo e un fragile aquilone

    s’infila in una nuvola balzana… credo sia tu.

    Raccontami un peccato senza luci accese

    che con fermezza s’avvicina all’incredulo,

    seppur innocente masso, come

    vascello scosso dal mare!

    Appieno i gemiti fendono l’aria fino a me,

    su ti prego parlami se puoi.

    Rimasi a guardar così la via verso il dormir

    del sole di un peccato mai confessato

    appena il soffio mio si spense come misera

    fiammella tra due dita.

    Il buio e il deforme ferro frena

    la corsa più pazza nello sgomento

    e pur ferale abisso. Ahimé!

    Mi manca il fiato e chiusi gli occhi.

    Perché? Or sono una bimba addormentata,

    lieve nel pensar al laccio abbandonato

    e greve nel pensar ai figli miei soli

    in un mondo infame per non sentir la pena

    di coloro che di penna si spassano

    a fecondar la morte con fucina d’inganni, già!

    Lontana, ti sento legata alle mie dita

    dall’invisibile filo di quell’aquilone

    come i pensieri che non sei riuscita a dirmi;

    m’acquieto a uno strattone che mi spezza il cuore,

    e và serena nel respirar libera lassù.

    LAGGIU’ DA QUALCHE PARTE

    Hunter, 1978

    Da qualche parte geme un’ombra scapigliata

    come opacità senza un futuro, nella sera

    ch’avanza pigra, tra realtà e un sogno cercato.

    Osservo lacrime che scendon silenziose

    senza alcun compenso negli occhi secchi

    ahimé di nuovo avvinti tra rimpianti mai ripagati.

    S’intravvedono notizie, s’ascoltano parole

    mai chiare e senza un perché nei brusii delle sere

    che al cor non attenuano i sospetti nel moltiplicar

    a dismisura l’idea mia.

    Laggiù la cupa anima digrigna nell’affannata

    sua presenza tra pietre senza nome

    fino a diniegar l’essenza sua quando

    campanelli di lebbrosi l’attendono.

    E’ trauma nel saggello di flaccide ombre

    che s’accalcano senza sosta tra loro

    mentre il bianco, posto lì a giudicare

    l’ozio e l’inerzia debosciata non condanna

    anzi glissa tra lo spengnersi delle stelle.

    La storia riposa tra ghiacciate urla di sofferenza

    nel tramar mutismo millenario poiché nessun sangue

    si coagulerà per la voluta infamia che l’uomo perpetra

    ogni giorno a svago suo.

    Ahimé, questa è la mia terra amata e il nuovo

    che avanza non cammina giammai a piedi

    se non per mendicar i suoi perdoni e spenti

    sogni sul sagrato.

    L’esser suo è stolto e senza un avvenire

    quando invano s’allontana dalla sete del dio denaro

    mentre l’infame coscienza si lascia attraversare

    nel divenire lento e lo tortura giorno e notte

    nella comune menzogna.

    Un giorno sarò anch’io laggiù, solo e disperato,

    alla ricerca di un breve spazio per morir

    come erba fugace che germoglia e secca a sera

    dipanando le tetre ombre dei rimorsi.

    OLTRE LA SAPIENZA, OVVERO UN DOLCE CONFINE

    Firenze, 1980

    A chi devo esser grato.

    Canne genuflesse al vento

    a perdono d’essersi innalzate

    nell’etere con superbia così

    una lupa si rintana silenziosa

    a notte per peccati mai detti.

    E’ il sapere di un mondo che

    la civiltà più non conosce;

    a tanti perduto per sempre.

    Solo il canuto contadino comprende

    il diario naturale ed insegna con

    le nodose mani a falciar il grano

    mentre l’acqua argentata é sua

    testimone e sposa.

    Triste ristagno della fatica.

    Silente essa in ogni dove

    partorisce nuova sapienza come

    giovin frutto.

    A chi devo esser grato.

    Una chiara vision del silenzio

    nella mente nasce.

    Figlio di menti lontane accoglie

    onde frustate con estremo vigore

    e comprende le afone sillabe

    di un vecchio fauno nel suonar

    un graduato arpeggio.

    A chi devo esser grato.

    E’ un dolce confine il nostro,

    oltre il saper dei banchi c’è

    l’immortale che descrive appieno

    l’alito di un tramonto ed illumina

    i mendicanti a sera.

    Le nausee dell’intelletto svaniscono

    all’istante, non tutto é perso.

    Ucciderò la mia sete del superfluo,

    venatura silenziosa e beffarda,

    per approdar alla sapienza, casta,

    dove cortigiani dello scibile

    si dissolvono davanti a fredde

    inferriate.

    A chi devo esser grato.

    Stringo allor un tenue fogliame

    all’imbocco di un ombrato viale

    e con esso accarezzo parole disperse,

    rinate al buio dall’eternità ma

    lontane da lustrini e falsi onori.

    Le mani avide non si congiungon con

    le mie.

    Il dolce confine é per chi

    lo cerca; c’è ancora una ragione per

    viver il versante meno impervio,

    essere, mentre il silenzio si riempie di voci

    incomincio a scrivere l’attesa.

    A chi devo esser grato.

    Alla trascendenza.

    Poesia, in parte, inserita nel romanzo ‘Il re Perduto

    Poesia 1^ classificata al Premio Internazionale S.Maria della Luce, 2009

    La particolarità principale della poesia di Francesco Testa ’Oltre la sapienza, ovvero un dolce confine’, è la purezza del lessico quale manifestazione di una ricchezza d’animo che nasce proprio in chi sa osservare la grandezza dell’esistenza con un cuore limpido.

    Nei versi, intrisi di un’appropriata simbologia, c’è il significato più profondo di un animo che non si arrende e volge lo sguardo oltre il confine dell’apparenza.

    I versi si forgiano tra un lessico ricercato e aulico e la forza catartica che ne rafforza il messaggio poetica di Testa, che in punta di penna narra ed esprime un messaggio di forte valore umano, perché sentimenti ed emozioni si intrecciano con naturalezza

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