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Il re perduto
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E-book962 pagine17 ore

Il re perduto

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Info su questo ebook

Un sanguinario re guerriero della Partia lascia i suoi averi, in cerca di un Dio che sta per nascere ma che già sente dentro di lui. Aveva un appuntamento con altri tre re per proseguire per Betleem di Giudea ma l'avvistamento di una legione romana e il destino lo allontanano. La sua vita sarà una continua ricerca di quel Dio. Tra guerre, una moglie assassinata, la distruzione della flotta romana nel mediterraneo con un principe greco, l'incontro con una sibilla, un figlio che rivedrà solo poco prima di morire saranno gli avvenimenti della sua vita fino all'oasi di Pesch dove vedrà quello che ha sempre cercato.
LinguaItaliano
Data di uscita12 mar 2014
ISBN9788891135186
Il re perduto

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    Anteprima del libro

    Il re perduto - Francesco Testa

    voi.

    CAPITOLO PRIMO

    MENTRE ERODE IL GRANDE REGNAVA…

    TRA STORIA E LEGGENDA

    Quel giorno già lontano il cielo era bellissimo, di un celeste chiaro e uniforme, mentre l’aria piena di mare rinfrescava ancora di più le casette bianche del porticciolo, dondolando come culle alcune barche di pescatori, appena rientrate dalla pesca notturna, dipinte di giallo, celeste e di bianco mentre dormivano in ozio sull’onda. La professoressa di greco dell’isola di Creta mi ricevette in un piccolo ma lussuosissimo salotto della sua casa che guardava verso il mare, una signora anziana, affabile che mi mise subito a mio agio. Era un bel sabato di luglio di qualche anno fa ed essendo lì in vacanza andavo a chiedere notizie un pò dappertutto circa il quarto saggio a molte persone di una certa età. Qualcuno strabuzzava gli occhi alle mie domande prendendomi per pazzo, qualche altro mi rispondeva vagamente mentre tanti altri non sapevano nemmeno di cosa stessi parlando, insomma brancolavo nel buio più nero. Compresi che il compito di ricerca che mi ero prefissato sembrava davvero arduo da chiarire e me ne accorsi ben presto dal modo con cui venni guardato anche da un giovane sacerdote appena all’uscita del monastero di Brontisi sul monte Psiloriti, ma con coraggio e pazienza mi scrollai di dosso quegli sguardi esterrefatti e quelle bocche torte. Non mi persi d’animo perché un pò di fortuna venne in mio aiuto dalla mia sdrucita agendina. Fu davvero un lampo. Mi indirizzò a lei uno studioso di antichi testi ebraici che avevo conosciuto casualmente a Firenze, in una affollata riunione culturale un paio di mesi prima, al quale avevo sottoposto questa mia idea di scrivere sul quarto saggio. Trascrissi tutto nell’agendina. Sinceramente non ero mai stato a Creta ma quello era probabilmente l’unico modo per accertarmi delle mie teorie e per poter finalmente spegnere la sete del mio sapere da un qualcuno che prima di me vi avesse studiato. Ansioso di conoscere questo personaggio dimenticato partii, ma sinceramente devo dire che all’inizio ero scettico sul risultato. Avevo letto molte storie su questo re scritte da altri autori ma nessuna mi convinceva pienamente, e volevo scrivere anche la mia perché questo quarto re l’ho sempre visto molto diverso dagli altri tre Magi. Un uomo abbastanza frenetico in una realtà compassata e ottusa per quei tempi lontani.

    Conobbi la professoressa, un’anziana donna minuta, a prima vista quasi sospettosa, che si sciolse quando le posi le mie prime domande sprofondato in una comoda poltrona. Lo ricordo bene. Appena mi fui presentato mi fece accomodare, le donai un cofanetto di alabastro di Volterra e dei fiori bianchi che avevo comprato in un negozietto appena svoltato l’angolo dell’albergo che mi ospitava, mi sembra fossero gigli e alcuni fiori di campo. Le chiesi se avesse notizie di questa figura che si stava perdendo nel tempo e che io volevo riscoprire.

    Mi guardò attentamente per un paio di secondi perché la mia domanda fu diretta e la sua risposta non si fece attendere. Mentre si passava una mano tra i capelli bianchi, raccolti dietro la nuca da un fermaglio di tartaruga, mi ringraziò dei fiori e del cofanetto ma per prima cosa mi chiese chi mi avesse dato il suo indirizzo. Il professor Rudolf Hasser di Berlino, l’ho conosciuto a metà novembre dello scorso anno a Firenze, eravamo a palazzo Strozzi, risposi. E lei compiaciuta, a bassa voce: Bene, bene… già! Rudolf Hasser era un amico di mio marito, si vede che certe curiosità sono arrivate fino in Germania, una terra di valenti studiosi e di grandi teologi, ma venga professor Francesco s’accomodi pure e mi scusi se il salottino è un pochino sotto sopra. Sa, oggi non attendevo nessuno… ma venga, s’accomodi nello studio così staremo più tranquilli. Sebbene avessi un titolo in teologia non avevo mai voluto insegnare. Glielo dissi e lei, un pochino meravigliata, mi rispose facendo un sorriso seguito da uno sguardo obliquo: Beh! se non l’ha mai fatto, credo che avrà avuto i suoi buoni motivi, comunque sempre un professore è… e poi in quella materia così difficile. Sentii un forte odore di gatto ma non storsi il naso. Mi portò nel suo studio, era arredato in stile marinaro, bianco e celeste con delle sottili sfumature verso il blu al centro del quale c’era un bellissimo lampadario in vetro di Murano a otto braccia che curvavano verso un soffitto abbastanza alto rispetto alle nostre abitazioni; la professoressa mi disse che anche lei molto tempo prima aveva studiato su questo personaggio e che a suo tempo ebbe la mia stessa curiosità, anzi aveva anche trovato un documento grazie a suo marito, una quindicina di anni prima della sua scomparsa. Un testo antichissimo di uno sperduto monastero copto, il S.Sergio, ma non mi seppe dire chi l’avesse redatto. Per la mia educazione, considerata l’originalità di quelle pagine antiche, non le chiesi come mai ora fosse di sua proprietà; infatti trovare certi manoscritti è impossibile al giorno d’oggi. Volevo fare delle fotografie al testo ma molto cortesemente non me lo permise stringendo le labbra con un diniego seguito da un leggero movimento della testa. Tra quelle antiche pagine mi mostrò una splendida raffigurazione dell’adorazione riccamente colorata; al centro della scena c’era tutta la natività per come ci è stata tramandata ma c’era un particolare che non avevo mai visto prima in nessun’altra raffigurazione: in ginocchio davanti a Giuseppe c’era un semplice uomo anziano dipinto con dei colori che andavano dal marrone fino al grigio scuro con in testa una corona di re mentre i tre re Magi erano tutti vestiti riccamente e con lunghi mantelli con pagliuzze d’oro e argento. Proprio quell’uomo era il quarto re, vestito più semplicemente con una tunica consumata in più parti e aveva in testa solo la corona ma era decisamente anche quella più sfavillante, ma perché mai era inginocchiato davanti a S. Giuseppe e non davanti all’astro nascente? Mi chiesi questo appena lo vidi. Iniziai a grattarmi la tempia e la professoressa capì quel mio gesto… mi era venuto un pensiero e probabilmente avevo ragione che non erano soltanto chiacchiere quelle raccontate sulla leggenda del quarto re . Ebbi un impulso e a cascata le dissi: Professoressa, mi servirebbero delle conferme. Sono oltre tre anni e passa che ci rimugino sopra, questa storia non mi fa dormire perchè sono sempre più convinto che fossero in quattro. A volte non riesco a capirci più niente e sinceramente non so più bene a cosa credere se a quello che penso o a quello che hanno scritto migliaia di anni fa. E lei passandosi una mano tra i capelli: Sappia che per capire lei deve andare oltre quello che ha letto e studiato; ma ha ragione a porsi dei dubbi perché questi sono una caratteristica degli studiosi come lei. Nel mio piccolo cercherò di farle capire l’idea stessa che ha in testa e che sento premere sotto le sue parole. Arriverà fino in fondo, vedrà. Solo un attimino, mi scusi. La professoressa nel frattempo si mise sulle ginocchia una copertina di lana, aveva un pò di freddo, così mi disse e poi iniziò a parlarmi: "Deve sapere, signor Francesco che probabilmente il quarto re conobbe Gesù in tardissima età, secondo una antica leggenda, ma il vero conoscere del quarto Magio fu differente dal significato che oggi noi diamo a quella determinata parola, se poi lei guarda ancora più attentamente questa iconografia si accorgerà che ha la barba imbiancata come Giuseppe, le spalle cadenti come Giuseppe ed ha la postura fisica di una persona tra i cinquanta e i sessant’anni… le sembrano due uomini simili, vero? Anche a me ha fatto questa impressione; e questo vuol dire una cosa sola e cioè che come Giuseppe accettò la nascita di quel bambino come padre putativo di un grande atto di fede cosi Artaban accettò la sua ricerca verso qualcuno che non aveva mai visto ma che era la sua stessa fede.

    Veda Francesco, come può notare l’artista lo pone inginocchiato davanti a Giuseppe, egli si inchina davanti alla persona che in quel momento impersonifica la fede stessa; lei non crede? Sicuramente ebbero dei gravi dubbi ma ambedue probabilmente erano dei santi per vie diverse. Io credo che sia stato così. Questo è proprio il quarto Magio del suo romanzo come lei può vedere… è lui il re perduto, il re guerriero, io ne sono pienamente convinta e poi non potrebbe essere diversamente da così se è stato raffigurato in quella posizione. Un re che si fece povero inginocchiato davanti a S. Giuseppe. È lui quello che lei sta cercando da tempo e devo dirle che anche la buonanima di mio marito era convinto di questo, anzi le dirò di più, anche lui voleva scrivere qualcosa sul quarto re ma purtroppo non ne ebbe il tempo. Si ammalò in un paio di mesi e poi una sera se ne è andato via, poverino, ci siamo sempre voluti molto bene. Mai un litigio, e poi devo dirle che mi manca.

    Quando purtroppo si è vecchi come me la solitudine ci uccide giorno dopo giorno e i giovani di oggi non la capiscono… hanno altro a cui pensare. Ma tutto questo è nella logica delle cose!". Si ravvivò commossa i capelli e mi accorsi che aveva gli occhi lucidi. Mi disse tutto questo tra un colpo di tosse e poi, come se fosse stata presa da un immenso fervore, lo indicò col dito poiché quelle figure di una decina di centimetri dipinte in modo così magistrale le trasmettevano un’enorme emozione, accennando un sorriso gli fece una carezza con un gesto della mano come se lei l’avesse sempre conosciuto. A dir il vero in quella stanza qualsiasi cosa mi sembrava irreale come se il tempo andasse all’indietro. Lo percepivo ma non mi sentivo a disagio.

    Poi si decise: E ora le racconterò la sua storia o leggenda, come lei la vuole chiamare, e visto che è venuto fin quaggiù da me spero con tutto il cuore che un giorno lei la pubblichi e poi, se vuole, mi venga ancora a trovare quando le farà più piacere, magari proprio agli inizi della prossima primavera, così mi porterà il romanzo già stampato con un suo autografo e una bella dedica. Le sorrisi e: Lo farò certamente, signora, se me lo pubblicheranno, non dubiti. E lei alzando gli occhi verso il lampadario: In tutta franchezza non credo proprio che qualcuno su quest’uomo abbia scritto un romanzo, vedrà che qualcuno la chiamerà.

    ù Quando fissò i miei occhi mi sorrise. Si voltò verso un rumorino da dietro la porta dello studio, poco dopo un leggero bussare di due tocchi ed entrò una bella ragazza forse sui quindici anni con due grosse granite alla menta. Zia, posso? Spero di non aver disturbato il tuo ospite italiano. Sai, zia, ero un pò curiosa… lei viene dall’Italia, ho sentito che viene da Firenze, è vero?. Mi alzai e le strinsi la mano ma non mi diede nemmeno il tempo di risponderle che subito si rivolse a me fissandomi come una bambina curiosa, in modo diretto: Le ho portato qualche cosa di fresco, la menta le piace? Certo non è come i gelati di Firenze ma per me rinfresca meglio, l’assaggi, la prego. Non l’avevo notata quando ero entrato, probabilmente dal cucinotto aveva origliato; infatti non poteva sapere come mi chiamassi e comunque non feci neanche una piega per non metterla in imbarazzo. Presi il bicchiere e ne bevvi alcuni sorsetti, era gradevolissima e devo dire anche molto profumata; dopo avermi ancora sorriso mi risalutò ed uscì; era la sua unica nipote, si chiamava Stella, così mi disse sua zia. Mia nipote è una curiosona, Francesco, ma voleva vedere lei chi era… mah! Queste ragazze di adesso sono molto più curiose di quelle dei miei tempi, la scusi le voglio molto bene e oltre lei non ho nessun altro, due vecchi gatti, i miei polverosi libri e qualche ricordino dei miei alunni. Molti di loro hanno lasciato quest’isola anni fa per farsi un avvenire però ogni tanto qualcuno mi viene ancora a trovare e io ritorno giovane almeno per poche ore ripensando a quando ero seduta dietro una cattedra. Già! A quell’epoca avevo i capelli lunghi e tutti neri. Purtroppo il tempo passa per tutti. Dunque tornando a ciò che le interessa, signor Francesco, devo dirle che molte azioni del re perduto, come lei lo chiama, sono anche la somma di avvenimenti che io ho chiamato imponderabili ma che sono stati anche il banco di prova che il quarto re Magio ha dovuto affrontare, adesso mi ascolti la prego perché quell’uomo è esistito per davvero. Mi accorsi che la professoressa mentre beveva la menta, tra l’altro, già mi guardava come un’insegnante e la sua voce era diventata calda e lenta quasi come se un piccolo trapano mi entrasse lentamente nel cervello dandomi una sensazione di attenzione e di tranquillità, mi rannicchiai nella poltrona con un bracciolo disassato e come se fossi a casa mia, accavallai le gambe e l’ascoltai. Si schiarì la voce con un colpettino di tosse e inforcando bene gli occhiali mi disse: Incomincerò proprio dal nostro personaggio mentre si rivolge a tutti quelli che conoscono oppure no le gesta della sua avventurosa vita, e parlerà in prima persona per il momento, ma prima ancora di lui devo dirle questo che è importante. Oltre 17.200 anni fa, quando le grandi acque ricoprirono la terra e i grandi ghiacciai si sciolsero, tutti i monumenti dell’uomo compresi anche quelli costruiti da coloro che vennero a visitarci, furono completamente sommersi racchiudendo tra le loro pietre ogni sapere di quell’era; per millenni ci fu l’oblio più totale sulla terra e su quell’enorme quantità di acqua e ghiaccio. Poi il tempo trascorse e in questo cataclisma totale ci fu anche il diluvio della Bibbia verso il 13.100, ma quello fu solo una piccola goccia in quella catastrofe e non fu soltanto di quaranta giorni il tempo del diluvio, com’è stato descritto nell’Antico Testamento, avvenne probabilmente ben altro in quei tempi lontani… ben altro e solo pochi hanno la forza di raccontarlo. Le acque si ritirarono e tutto quello che riaffiorò migliaia di anni dopo erano sempre le medesime pietre, senza vita e senza più storia. Quei monumenti erano la testimonianza di quelle antiche civiltà e ai giorni d’oggi, a parte qualche rara eccezione, solo in pochi hanno capito a che cosa servissero realmente. Essi riemersero muti da quella distruzione solo nel 12.500 circa quando la terra prosciugò completamente le acque che l’avevano sommersa ma aggiungo che quel cataclisma fu soltanto uno dei tanti, altri antecedenti distrussero le prove dei veri progenitori ma questa è un’altra storia. Come lei già sa, in quella datazione, soltanto pochi esseri umani sopravvissuti si sparsero per i territori emersi e tutto rincominciò nuovamente come in un secondo inizio mentre l’uomo ancora una volta incominciava ad alzare la testa verso un nuovo ciclo di vita, un inizio avvolto ancora oggi tra le nebbie delle antiche leggende di tante e antiche culture; probabilmente una è proprio questa anche se gli studiosi moderni non vedono più in là del loro naso, purtroppo. Mi accorsi che quella donna sapeva molto di più di quello che avrei mai potuto sospettare ma ero lì per un solo scopo e non le chiesi della genesi dell’umanità sebbene la mia curiosità l’avrebbe voluto fare. Mi riproposi di farlo in seguito se avessi avuto tempo. Ma non l’ho mai fatto sebbene, se ci mettiamo a pensare a una qualsiasi ipotesi o tesi, ambedue ci portino in un tempo lontano da tutto ciò che molti dicono di conoscere del nostro pianeta. E iniziò il suo racconto sul re guerriero facendolo parlare in prima persona mentre lei stringeva un lapis bicolore ancora intatto. Era quello, come mi disse più tardi, che gli avevano regalato i suoi alunni di liceo l’ultimo giorno di scuola, l’ultimo della sua lunga e illustre carriera. Muto come un pesce mi misi ad ascoltarla certo che la storia, la leggenda e la fantasia presto si sarebbero fuse insieme mentre due vecchi ventilatori ronzavano dagli angoli dello studio…

    Io, Artaban, faccio parte del potente regno dei Parti e vivo tra i monti, il territorio adesso è diviso in due regni vassalli con dinastie Sacie. Questi due regni sono il Charachene che si estende sui territori del Golfo Persico fino a sud e il regno dell’Adiabene sul fiume Tigri con i laghi del Piccolo e del Grande Zab fino a nord. Essi si trovano nel mezzo di una delle tante vie commerciali che dall’Oriente portano verso la città di Roma… da una di quelle vie ero ritornato un paio di giorni fa in quanto, come ospite reale, avevo assistito al matrimonio del principe Izates e della bellissima Simaco. I due giovani sposi erano il figlio di Adinerglusi, ricco re del Charachene, e la figlia di Monobaz, re dell’Adiabene… era stata una festa durata oltre trenta giorni e adesso ero sfinito dai bagordi, ma non avevo potuto esimermi dall’essere presente in quanto re di Tradat e capo dell’armata imperiale dei Parti. A quel matrimonio ero la massima carica militare e nonostante io sia sempre stato una persona schiva molti altri re, lusingandomi, parlavano continuamente delle mie vittorie e questo mi dava fastidio poiché i miei precettori babilonesi mi avevano insegnato cosa fosse l’umiltà. Ascoltandoli bene si vantavano per delle sparute scaramucce con i capivillaggi a sud dell’Oronte o ai margini dell’Hicrek, luoghi sperduti ai confini dei loro possedimenti e altre inezie del genere ingigantendole per guerre e purtroppo dovetti incensarli come tutti gli altri, ma in cuor mio sapevo che erano dei buffoni vestiti a festa. In una vera battaglia contro un esercito addestrato come quello romano o greco non so quanti di loro sarebbero stati capaci di guidare un assalto di ventimila uomini dal loro carro esponendosi in prima persona…comunque quelle feste erano quasi tutte così. Questi due regni vassalli fanno capo all’imperatore dei Parti, Azoer, mentre il mio regno, come quello dei miei dodici amici Magi e re come me, essendo meno importante e molto più piccolo e in più pieno di monti non era tenuto molto in considerazione a corte come lo erano i loro. Per discendenza sono un Achemenide e Azoer mi temeva come aveva sempre temuto anni addietro sia mio padre Abgaresch, il re di Tradat, e poi in seguito anche mio cugino Gemil, figlio di mia zia Netnel, che mi aveva cresciuto dopo la morte di mia madre. La mattina dopo il mio ritorno, sebbene ancora intontito dal lungo viaggio, sul presto avevo deciso di farmi una passeggiata e feci sellare la mia cavalla preferita Pavaschaz che mi aveva seguito in tantissime battaglie per prendere un pò di aria fresca. Mi recai verso la parte sud del paese, passando tra la piazza del mercato e la vecchia porta dei cammellieri, uscii dalla città e scesi nella valle sottostante.

    Lassù il cielo era di un azzurro intenso, nelle orecchie mi echeggiava il bellissimo canto degli uccelli e lo starnazzare delle anatre sopra di me mi rendeva vivo e contento. Mentre cavalcavo presso il villaggio di Himer-Ur vidi alcune colombe che tubavano su casette di canne intrecciate fatte dai miei servi, mi fermai per un istante a guardare quelle splendide creature che a mia madre Edran piacevano tanto e poi al galoppo proseguii. Passai attraverso i campi di grano di Trum e di Kjron e vidi i miei contadini che sudavano come fontane sotto il sole già alto e cocente, quasi tutti con il falcetto o con la vanga in mano curvati sul terreno secco. Con una cordicella al fianco avevano legato una zucca piena d’acqua e in un’altra un pezzo di pane scuro a forma di tarallo; altri avevano la tunica letteralmente inzuppata di sudore ed erano scalzi con l’alluce dei piedi anneriti. Gli vidi i piedi, erano gonfi per il continuo calpestare le pietre laviche che affioravano nei campi procurando a quei disgraziati continui tagli sotto la pianta dei piedi fasciati alla bene e meglio con quei sudici stracci che avevano. Già! Molti tra quegli uomini non potevano permettersi nemmeno di comprarsi un paio di sandali. Quasi tutti avevano il capo rasato dal continuo tormento delle cimici e pulci dei loro miseri pagliericci, mi vergognai nel ricordarmene ma non potevo farci nulla, come anche nel vedere alcuni, tra quelli più giovani, con la schiena piena di cicatrici per le frustate… prigionieri di guerra sradicati dalle loro terre. Molti provenivano dal sud della Cilicia e dalla Siria. In certe cose eravamo peggio dei Romani. E questo mi dispiacque moltissimo sapendo quanto fosse duro il loro lavoro. Chiunque fosse a servizio di un re o di un principe in quell’area non doveva essere pagato, questa era la legge dell’imperatore Azoer e del nostro impero sebbene mio padre sulle sue terre avesse concesso loro tutta la parte a sud di Tradat alloggiandoli nelle vecchie scuderie adibite e ristrutturate in tante piccole case di due stanze ognuna più un pozzo e venti passi di terra per il loro fabbisogno quotidiano. Solo i vecchi capomastri ricevevano due piastre al mese più un sacco di farina, ma non bastava a niente; gli altri il pane e le loro piccole cose per vivere dovevano venire a prendersele dal mugnaio della città e così le miserevoli stoffe per vestirsi. Sapevo bene che tutto questo era sbagliato. Così decisi di passare proprio nel mezzo del campo per ringraziarli e salutarli mentre i più giovani dei miei servi governavano due enormi buoi cretesi intenti a tirare l’aratro in quella distesa quasi secca. A Trum erano alcune settimane che non pioveva. Appena mi riconobbero si spostarono rispettosamente in silenzio mentre li guardavo uno a uno nel passare e sorridendomi s’inchinarono, nello stesso istante si snodarono dal capo un fazzoletto bianco terso di sudore come ossequio al re; risposi al loro saluto con un cenno della mano e attraversai il terreno che avevano appena zollato. Guardandoli bene, notai però che molti erano anziani, dai denti radi, mentre sostavano con la vanga stretta in pugno nel guardare i miei occhi benevoli verso di loro per poi riprendere il lavoro ritornando come ogni giorno a curvare la schiena senza lamentarsi. Vidi anche delle donne, qualcuna era incinta e qualche altra aveva legato un bimbo di pochi mesi dietro la schiena e altre ancora, ai margini dei campi, portavano a spasso i maiali e le capre ma nessuna di loro poteva cibarsene o prendere il latte. Questa era la legge dell’impero per tutti i servi ma dentro di me, in verità, mi vergognavo di quelle leggi ingiuste e inique. Così per la prima volta nella mia vita presi una decisione che tra lì a qualche settimana avrebbe meravigliato tutto e tutti, ma tacqui… non era ancora giunto il momento di renderla pubblica. Tutti i loro figli e fratelli erano addestrati alle armi ai confini dell’Eufrate per poter combattere un giorno l’odiato nemico di sempre: i Romani. Rividi volentieri in quel frangente alcuni spezzoni di ricordi giovanili, infatti i miei contadini mi ricordarono la sagacia che anni addietro, alla festa dei guerrieri dove avevo vinto l’oro del coraggio per aver sbaragliato gli altri principi che vi parteciparono con una corsa a cavallo tra un canneto in fiamme, avevano avuto nel rispondermi. Lo ricordo come se fosse oggi, mi trovavo con mio padre Abgaresch mentre passavo davanti alla fontana nella grande piazza del mercato di Tradat alla festa del grano nascente che come tutti gli anni era piena di gente, pochi nobili pieni di gioielli e tanta povera gente a piedi scalzi. Alcune vecchie donne con uno scialle in testa e le mani consumate da anni di lavoro con la zappa con le poche forze rimaste intrecciavano abilmente canne e giunchi e poco ore dopo da quel minuzioso lavoro veniva fuori una culla, una stuoia di due metri, un recipiente per il pane lievitato del mugnaio oppure una faretra per la caccia impreziosita da svariati nastri colorati. Qualcuna tra quelle donne, purtroppo anziana e quasi ceca, si dedicava ai vasi d’argilla e alle brocche per l’acqua che sotto il sole cuocevano rapidamente per poi rivenderle nel tardo pomeriggio per pochi soldi pur di comprarsi un tozzo di pane in più. Pensai. Troppa differenza tra noi nobili e loro, fin troppa! E questo sia a me che a mia madre Edran non era mai piaciuto. Ma purtroppo, pur facendo elemosine e donazioni, altro non potevamo fare e anni dopo essendo diventato il loro re non potevo fare più quello che mi sarebbe piaciuto fare. L’imperatore Azoer non l’avrebbe mai permesso perché per lui e quelli che vivevano a corte i servi e gli schiavi contavano meno dei maiali. Ricordai tutte le stoffe colorate e il profumo di frittelle col miele delle bancarelle come anche tutte le mercanzie delle donne portate a dorso di cammello provenienti dalla lontana Ctesifonte; tra quelle, alcune erano abbastanza giovani e, nonostante l’importante festività, nei loro pochi attimi di calma erano chine al lavatoio di pietra, con i bambini legati alla schiena, intente a lavare i panni con la cenere e i gusci di noci per poi sbatterli violentemente sul marmo con le amiche e stenderli al sole tra due pertiche perché, così mi dissero, il sole e il vento li ingentiliva con l’odore dei papaveri e del grano giovane. Infatti a tal proposito ebbi un breve colloquio con una mia giovane contadina che dopo essersi inchinata per salutarmi mi disse mentre in quel giorno ero insieme a mio padre e Simul, il suo falcone babilonese: Mio signore e grande re, sentite anche voi questo meraviglioso profumo del grano in fiore? Non sentite com’è forte e bello fresco?. Non che io avessi mai avuto un buon carattere ma proprio quella mattina mi ero davvero alzato male con un forte mal di schiena dovuto ad alcune ferite della guerra con la Nubia anni addietro e alquanto seccato le risposi: Che sciocchezza stai dicendo!, e continuai puntandole un dito, severo: Non sai che il grano non ha mai fatto fiori, donna! Cosa credi, che il tuo re e signore non sappia di queste misere cose di voi contadini? Stai attenta a quello che stai dicendo, donna!. La giovane mordendosi un labbro s’irrigidì mettendosi le mani nei fianchi…come una bambina indispettita. Mio padre mi guardò accigliato quando le urlai quelle parole smorzandole il sorriso dalla bocca perché lui non avrebbe mai dato, a una donna, una risposta così acida. Capii, feci un colpetto di tosse e alzai gli occhi come per scusarmi con qualcuno… con lei non potevo farlo ma poi riguardandola le sorrisi per farmi perdonare. Lei mi si avvicinò con il volto arrossato ma poco dopo aver visto il mio imbarazzo anche lei mi sorrise; quella donna era davvero molto giovane e aveva i denti bianchissimi come la neve dei nostri monti. Le guardai i piedi, erano scalzi e mi accorsi subito che anche lei aveva gli alluci dei piedi neri e gonfi… era una serva che lavorava nei campi. Si tolse il fazzoletto che aveva annodato sul capo mostrandomi i lunghi capelli neri, li scosse un paio di volte per togliersi la pula che le si era infilata dentro e devo dire che era bellissima. Prima di rivolgermi ancora la parola guardò mio padre che con un lieve movimento della mano la invitò a parlarmi e l’atmosfera tra di noi si sciolse. Quella donna fingendo prima un’aria innocente, un attimo dopo, mi rispose di botto, quasi meravigliata che io non sapessi: Ma, mio re, certo che li fa, li fa quando è ancora verde, verso la fine del mese di maggio, come mai non lo sai? Adesso sono piccolissimi e sono nascosti dentro la spiga come un bimbo nel ventre della sua mamma, ma se annusi bene il loro profumo è così dolce che si confonde con il profumo stesso della primavera, non lo senti, mio re? Sappi, re Artaban, che il profumo di primavera è il profumo stesso dei fiorellini di grano. Ora che lo sai, non dimenticartene e scusami per l’impertinenza. Vedi questa non è una sciocchezza come avevi pensato e che a volte anche noi poveri contadini sappiamo qualcosina in più dei re, adesso ne sei convinto anche tu, mio signore?. Avanzò con il sorriso sulle labbra come farebbe una bambina dispettosa…era soltanto a pochi passi da me, adesso. Mi mandò un bacio con la mano sorridendomi maliziosamente sapendo di aver detto una cosa importante e poi, avvicinandosi ancora di più, si tolse il bimbo che aveva deposto in una fascia dietro la schiena e me lo porse affinché gli ponessi la mano sul capo in segno di protezione. Era un bel bimbetto paffuto di circa due anni; lo accarezzai e le diedi una moneta d’oro e due d’argento, era tutto quello che avevo quel giorno nella borsa. Diedi un bacio a suo figlio nel pensiero che un giorno ne avrei avuto uno anche io da stringere tra le braccia. Poi rivolgendomi a lei le chiesi: Come ti chiami? Vedo che hai l’incarnato della pelle molto chiaro, dimmi da dove vieni?. E lei naso all'insù: Mi chiamo Rez Ben-Arevhj e sono nata qui a Tradat come mia madre, ma mio padre invece è un greco. Venne a Tradat come prigioniero di guerra anni fa, divenne servo di tuo padre, il re Abgaresch, e poi sposò mia madre Srema, figlia di un tuo soldato, e poco dopo nacqui io negli alloggi dei soldati…sempre a Tradat… sì! Sono nata negli alloggi dei tuoi soldati. Devi sapere che quel giorno mia madre era lì per portargli da mangiare; in quel periodo mio padre era stato adibito ai cavalli. Mia madre era alla fine gestazione, inciampò e cadde su una balla di fieno e poco dopo nacqui io. Io sono nata proprio dentro casa tua, se così posso dire, mio re. Mio padre lisciandosi il pizzetto: Non mi era stato riferito niente di simile all’epoca ma comunque devo dirti che sono contento che tu sia nata nella mia casa… bene, molto bene. Allora dimmi, cara e bella ragazza, come si chiama quest’uomo? Descrivimelo subito dalla testa fino ai piedi, su! Che oggi sono curioso come ogni vecchietto, si mise a ridere mentre portò una mano all’orecchio sinistro per sentirci meglio. Rez sorridente: Certo, re Abgaresch. Mio padre si chiama Ascanio ed è alto come tuo figlio, il re Artaban, ma è biondo con gli occhi azzurri e adesso forgia le spade per il tuo esercito, la nostra casa si trova poco dietro la fucina prima di entrare a palazzo. Abgaresch tornando indietro con la memoria: Deve essere stato molto tempo fa… Ascanio, uhm! Ah! Ecco chi è, il gigante greco! Sì! Adesso mi ricordo bene di lui, era un grande soldato in Grecia poi fu fatto prigioniero e schiavo mi sembra in una battaglia ai confini nostri e quelli loro… già, circa ventisette anni fa, credo. Bè! Ne è passato di tempo! Ricordo che all’epoca emisi un editto speciale per i prigionieri di guerra soltanto per coloro che sapevano forgiare le armi… lui deve essere uno di quelli, bene, molto bene. Dimmi, Rez, si trova bene adesso nel nostro paese tuo padre? Gli manca niente? E tua madre Srema come sta? Avete bisogno di nulla?. Rez d’impulso: Sì! Si trova bene nel tuo regno, mio signore, anche se ogni tanto rimpiange il suo mare mentre mia madre è addetta ai giardini reali, sai quelli sull’ultima torre, proprio dove ogni tanto veniva a passeggiare la regina Edran . E il vecchio re: Sì, mia moglie… poverina. Comunque tuo padre rimpiange il suo bel mare della Grecia? Lo capisco. Anch’io ho molte cose da rimpiangere ma a volte le nostre leggi non ci permettono di essere benevoli con chi ti ha servito e ti serve tutt’ora specie per i prigionieri di guerra; comunque portagli i miei saluti e se avesse la necessità di ritornarsene in Grecia per un breve periodo digli pure di venire in udienza da me domani mattina; anzi che venga anche tua madre con lui… gli concederò trenta giorni e delle monete d’argento per il viaggio se ha sempre vivo laggiù qualcuno della sua famiglia, digli così. Altro adesso per lui non posso fare. Rez, mentre io ascoltavo quel dialogo guardando il suo bambino, gli rispose: Glielo dirò stasera quando rientiamo mio signore, fate una buona passeggiata e che il falcone agguanti un bel fagiano, adesso devo tornare a lavare i panni di mio figlio e di mio marito. Incuriosito le chiesi: Aspetta ancora un momento, Rez, di chi è figlio il tuo bambino?. Lei si strinse la cintura della tunica e: Ho sposato uno dei tuoi servi, anche lui figlio di un soldato fatto prigioniero come mio padre, viene dalla Cilicia. E io,ancora più curioso di prima, le dissi: Sei felice con lui? Dimmi la verità oppure te lo ha imposto tuo padre?. Rez gioiosa: Sono molto felice, mio re, e spero che anche tu quando prenderai moglie sarai felice come mio marito. Il tuo viso è buono come il tuo animo e vedrai che un giorno quando meno te lo aspetti t’innamorerai anche tu. E poi l’amore dei poveri non s’impone tra i poveri, mi capisci vero?. E mio padre annuì: Sei molto intelligente Rez per essere una contadina e aggiungo anche più saggia di tante principesse che ho conosciuto, mise lo sguardo a terra e tossì forte capendo quello che Rez intendeva dire, e lui sviando il discorso vedendomi in difficoltà e in vena di bontà le chiese: Dimmi Rez la vostra casa è grande abbastanza per tutti voi? Avete di che mangiare dal mugnaio? Se hai ancora bisogno di qualcosa chiedimelo adesso…vedo che anche tu purtroppo hai gli alluci malati, sei così giovane. E Rez rispose: Stiamo bene così, grazie mio re anche se la casa è piccola, però vorrei solo che mio figlio quando sarà grande non continui a essere un servo come me e che abbia almeno un paio di scarpe. E mio padre, mentre Simul il falcone sbatteva le ali come un forsennato avendo sentito il passare di un’anatra, disse: Gli dèi mi siano testimoni, Rez, figlia di Ascanio, che più volte ho chiesto all’imperatore di liberarvi dal vostro stato ma mi ha sempre negato il suo avvallo, ma per aiutarvi a vivere come uomini farò costruire altre case per tutti voi…vorrei pagarvi ma non posso farlo e credo che tu sappia, Rez, come vanno da queste parti certe cose. E lei,con gli occhi bassi, gli rispose: Lo so bene, mio re, come so bene che prima o poi morirò nel fango ma voglio farlo sperando che un giorno le antiche parole di re Dario vengano ascoltate dall’imperatore dei Parti. Essere serva e in più povera non è una condizione che mi sono scelta. Questa non è vita ma se mi puoi aiutare, anche con pochino, l’accetterò volentieri e spero un giorno di ricambiarti. La ragazza abbassò lo sguardo; aveva già gli occhi lucidi. Ero deluso ed arrabbiato con me stesso perché la mia condizione sociale non mi aveva mai permesso di conoscere a fondo i miei servi nella loro indigenza e sofferenze. Osservai bene il volto di mio padre, che si era commosso e poi quello della giovane donna. Una breve riflessione e ambedue per scacciare una tristezza che ci stava assalendo come un tarlo ci mettemmo a ridere per stemperare quello che lei ci aveva detto; sapevo bene che mio padre a quelle parole soffriva più di me. Lei strinse il bambino dandogli un bacio aspettando una risposta che non tardò ad arrivare. Un cenno di mio padre con lo sguardo, subito capii e di cuore, mi misi a rovistare nella bisaccia della sella…dopo finalmente: Prendi anche questi altri, sono per il tuo bel bambino e non sono arrabbiato con te, sai a volte anche i re si alzano male perché sono uguali a voi ma nessuno di voi morirà nel fango… parola!, e mi raccomando di questi soldi fanne buon uso perché non so se ripasserò da queste parti e saluta tuo padre per me e tuo marito, ora addio Rez. Si inchinò più volte per ringraziarmi; era abbastanza quello che le avevo dato ma ero contento per come mi aveva affrontato senza aver paura di offendermi. Suo figlio mi allungò le manine al collo e gli feci un’ultima carezza mentre mio padre approvava il mio gesto come degno di un re. Mi ero un pò addolcito e mio padre a bassa voce mi disse: Anche dei contadini ci possono insegnare qualcosa, figlio mio! Che quella poverina ti serva di lezione. Il re è soltanto un uomo come loro e vanno sempre ascoltati anche se sono dei servi e ricordati più tardi quando rientriamo di mandare ad avvisare quell’Ascanio che domani mattina gli voglio parlare in tutti i modi, ora via, allunghiamo le briglie e proseguiamo nella passeggiata; comunque figliolo ripensa a quello che ti ho detto oggi e ricordatelo per sempre. Io l’ho fatto spesse volte e se un domani dovrai giudicare qualcuno di loro per le sue azioni, sii benevolo se potrai visto come conducono la loro misera esistenza, non dimenticartelo mai!. Questo mi disse mio padre per non farsi sentire da Rez e dalle altre donne che nel frattempo si erano avvicinate per vedermi da vicino. Venite donne, c’è qui il giovane re Artaban e suo padre il re Abgaresch, correte se volete vederlo da vicino, presto venite donne!. Si sentì urlare. Mio padre, contento, alle voci di quelle donne non seppe resistere e poco dopo si fermò, parlava con loro dimostrando molta affabilità. Spronai la cavalla e mi allontanai di una decina di metri per dargli tutti gli onori di quell’incontro… d’altronde mio padre era sempre stato molto amato dal suo popolo mentre io avendo combattuto per oltre otto anni alle frontiere del regno di Azoer non ero avvezzo a questi affetti. Solo la pazienza dei miei consiglieri anno dopo anno mi aveva un pò ammorbidito. Le salutai. Avevo negli occhi ancora il viso e il sorriso di Rez. Rimasi interdetto da tanta cultura espressa così naturalmente da quella donna e da quel linguaggio semplice e persuasivo, riflettendo pensai dentro di me di conoscere tanto ma in fin dei conti anche poco. Tra tutte le donne che gli si stavano avvicinando quella con cui avevo parlato mi salutò ancora inchinandosi soddisfatta di aver fatto bella figura ai miei occhi e per quelle monete, da lontano mi urlò gioiosa alzando più volte il bambino sopra la sua testa: Le conserverò, re Artaban! Comprerò un pò di buona terra nella piccola valle degli ulivi nelle vicinanze di Trum per mio figlio quando sarà diventato abbastanza grande per poterla lavorare. Grazie, mio re, e pregherò spesso per te e per la tua discendenza. Grazie mio re!. Così mi disse Rez mentre se ne ritornava al lavatoio colmo di panni sporchi con tutte le altre, poi insieme si misero a cantare una nenia contadina che spesso mi cantava mia madre prima di addormentarmi. Capii che al lavatoio e dietro la grande fontana della piazza c’erano ancora altre donne con i loro bambini e tanta altra saggezza, mentre mio padre gettava nella vasca alcune monete d’argento. Anche lui svuotò la sua borsa. Mi voltai per vedere se mi stesse seguendo ma con un breve gesto mi fece cenno di continuare da solo; se ne stava ritornando a palazzo con il falcone. E così lentamente proseguii da solo la mia passeggiata. Sebbene fossi già fuori dalle mura ma in linea retta con la porta principale sentii un galoppo alle mie spalle, mi girai dalla curiosità e a stento riuscii a vedere che alla fontana erano arrivati quattro dei miei guerrieri a cavallo. Mio padre con un cenno della mano stava salutando tutte le donne e i quattro lo scortarono fin dentro le mura del palazzo reale. La sua giornata era già finita. Il giorno dopo Ascanio, Rez con tutta la sua famiglia partirono per la Grecia. Gente molto semplice e onesta che cantava in continuazione, questo mi ricordavano i miei contadini ed erano tutti dei grandi lavoratori. Mentre stavo cavalcando, portai la mia mente fuori dalle mie mura; proprio Rez mi ricordava la principessa Lilic nel modo di porsi e di parlarmi, ed era anche bella come lei. Ripensando al grano che cresceva rigoglioso in quei luoghi ricordai che nelle vicinanze c’era la radura di Krill, un tempo regno di sterpi e di malaria. Ma quanti ricordi si stavano facendo avanti nella mia mente proprio quella mattina nei campi di Trum.

    Quel campo mi ricordava altri avvenimenti della mia giovinezza… in quello stesso campo, anni e anni addietro paludoso e triste nel suo infido verde che vi cresceva prima che fosse bonificato da mio padre, uccisi il mio primo leone. Sento ancora nelle orecchie, come se fosse ieri, il rumore dei carri dei cacciatori e gli zoccoli dei cavalli in corsa mentre affondavano nella melma attraversano il piccolo guado di Krill e le anatre dal collo verde starnazzare terrorizzate volando sopra di loro.

    Quel giorno ero andato a caccia con l’imperatore e cavalcavo al suo fianco visto il mio rango di principe reale… faceva davvero caldo e nugoli di zanzare ci succhiavano il sangue come pipistrelli assetati e nonostante che fossimo cosparsi col grasso del serpente non c’era nessuna difesa dalla loro insistenza; in quel periodo avevo assunto da poco il grado di primo generale dell’armata imperiale dei Parti. Mi ero distinto un paio di mesi prima nella campagna contro il popolo ad ovest dei monti che aveva saccheggiato e distrutto i villaggi della pianura del Risene a nord-ovest di Tradat incendiando tutti i granai della parte sud del paese e uccidendo un migliaio di contadini inermi nei campi. Quei luridi cani bastardi, con molte probabilità pagati dagli stessi Romani, si erano spinti fino ai limiti del Tigri passando da Babilonia e distruggendo i campi di grano di Ctesifonte causandoci molti danni. L’imperatore con me fu categorico: Cancellali dalla faccia della terra. Avevo ucciso con i miei uomini più di dodicimila nemici e quelli feriti li avevo fatti uccidere a colpi di mazza senza nessuna pietà uno a uno, Nessun prigioniero!, avevo urlato prima dello scontro, e così facemmo. Quel giorno nemmeno uno dei carri nemici che ci vennero incontro per combatterci ritornò salvo nel suo regno.

    Il regno di re Klodret, e feci decapitare i suoi due figli come monito al padre… gli inviai le teste in una giara con oli profumati. Tutti, dall’Egitto alla Grecia, mi temevano per la mia ferocia, anche l’imperatore stesso che per tenermi lontano da un colpo di testa contro di lui mi aveva promosso comandante. Ma in fin dei conti, non ero per niente un uomo feroce come venivo descritto… ero bensì un giovane comprensivo, ma per poter essere un buon re a quei tempi in guerra bisognava essere in quel modo, come i miei vecchi precettori babilonesi mi avevano insegnato, e mio padre quando gli raccontavo delle mie imprese mi rimproverava dicendo spesso di smetterla di uccidere con quella ferocia. Tutti parlavano di me fin oltre i fiumi sacri e forse anche oltre il mare… ma non me ne vantavo mai come mi aveva insegnato mio padre e il precettore di filosofia, l’assiro Gilgheret. Proprio quella mattina della mia gioventù mentre il vento impietoso mi scompigliava i capelli svolazzandoli da più parti… la bellissima principessa Lilic era leggermente dietro di noi, scortata da dodici carri leggeri da guerra, i cui tre occupanti erano armati con lunghe lance dalla punta di bronzo e archi da caccia lunghi tre braccia con flettenti stretti e dritti in corno nero lucidato con l’estremità leggermente ricurve verso l’interno dell’arma mentre l’impugnatura era ispessita verso l’esterno in osso di tibia del bue, armi davvero micidiali a lunga gittata che a duecento passi foravano una tripla piastra di rame ricoperta di cuoio mentre le lunghe asticelle avevano una spessa punta di bronzo a forma quadrangolare e penne di pavone all’altra estremità.

    Eravamo trentasei uomini armati più l’imperatore e sua figlia, il mio capitano Mitas e un centinaio di battitori africani e ittiti. Quella lontana mattina sbiadita eravamo diretti da Trum a Krill perché un grosso leone maschio da un paio di mesi stava uccidendo quasi ogni giorno molti capi di bestiame senza divorarli e parecchi dei miei contadini per difenderli vi avevano anche perso la vita. Uno scempio immane che cresceva di giorno in giorno a cui andava posto decisamente un fine. A mezz’ora di cammino da Krill… una giovane guida nubiana a cavallo, armata di lancia, urlando come un pazzo e agitando il braccio venne trafelata davanti all’imperatore, scese dalla cavalcatura con un balzo e dopo aver piantato la lancia nel terreno ed essersi inchinato due volte con le mani protese disse ad Azoer che aveva visto il leone circa a meno di mezz’ora di cammino da dove ci trovavamo. Concitato riferì che era grande più di ogni maschio mai visto da quelle parti e che probabilmente l’animale quella mattina era diretto al ruscello delle scimmie nane dietro i canneti di Krill per abbeverarsi. Solo lui e nessun altro poteva essere l’assassino che stavamo cercando da tempo. Dategli due monete d’oro a questo pezzo di carbone, disse l’imperatore al suo capocarro mentre ci fece cenno di accelerare il passo. Frustammo i cavalli e andammo di corsa verso il ruscello. Trum era già dietro di noi… lontana adesso. Appena arrivati osservammo bene il terreno… le impronte erano chiarissime, la guida aveva visto giusto. Le tracce erano nitidamente chiare e molto profonde dato il peso e un paio di ciuffetti della criniera si erano impigliati tra i rovi più alti; tutti gli indizi portavano in quella direzione ma nei paraggi ci poteva essere anche un altro maschio e tutto il resto del branco. In quella giornata di caccia, pensai, poteva essere molto pericoloso dividere le nostre forze, ma l’imperatore appena saputo la notizia, contro ogni qualsiasi logica, ci ordinò di dividerci in due gruppi e, benché in cuor mio fossi molto contrariato, io e tutti gli altri cacciatori non potemmo fare diversamente e né tantomeno dare un altro giudizio diverso a quell’ordine e ubbidimmo controvoglia. Lo guardai e scossi il capo e lui di rimando strinse la frusta ma nessuno di noi due parlò.

    Quella era la parola dell’imperatore e per noi soldati era un ordine a cui obbedire senza nemmeno discuterlo. Due secche frustate nell’aria da uno dei capicarro e diedi le dovute disposizioni per la battuta mentre l’imperatore sul carro addentava una mela compiaciuto nel vedermi stizzito per quel suo stupido ordine. L’aveva fatto apposta per mettermi in ridicolo davanti a miei uomini. Un vero idiota con la corona in testa. I miei occhi nel guardarlo parlavano per me. Così ci dividemmo in due schiere come ci era stato ordinato; io andai con la principessa Lilic e sei carri verso la boscaglia mentre l’imperatore e il suo seguito composto da altri sei carri si portarono velocemente giù verso il guado del ruscello, un pò più in basso nelle vicinanze del bosco di Krill dove un centinaio di scimmie nane e qualche vecchio coccodrillo sdentato vivevano lì indisturbati. Prima di allontanarsi con la scorta mi disse, all’ultimo morso della mela, beffardo: Stai attento a quello che farai oggi, generale!, e poi ancora fissandomi: Il primo di voi che lo avvista suoni immediatamente il corno e guai a chiunque se a mia figlia le dovesse succedere qualcosa, mi sono spiegato, Artaban?. Incominciai a capire che non solo voleva la mia morte ma probabilmente anche quella di sua figlia. L’averla lasciata con me era un chiaro segno che voleva disfarsene altrimenti l’avrebbe portata con lui oppure l’avrebbe lasciata a palazzo, e ne ebbi la netta conferma quando il suo capocarro gli bisbigliò qualcosa all’orecchio per non farsi sentire da me e lui poco dopo gli mise un pugnale alla gola. Il capocarro sapeva bene, come me, che il leone era nei paraggi. Azoer amava soltanto i suoi due figli maschi, come mi aveva detto più volte mio padre, e io non gli avevo mai voluto credere. Prese il torsolo della mela e lo gettò ai piedi del mio cavallo con disprezzo mentre l’auriga con un colpo di frusta sferzò a sangue i cavalli neri del suo carro. Tronfio poco dopo sparì.

    Questo mi disse l’imperatore prima di allontanarsi ma dividersi era un grave errore pensai, il leone sarebbe scappato e non lo avremmo più trovato fino a quando non sarebbe ritornato a uccidere il bestiame e altri disgraziati. A un mio segnale un breve suono di tromba da un carro e poco dopo uno scampanellio di campanacci e altri oggetti per far fracasso e un mare di urla in eccitazione. I battitori iniziarono a far un rumore assordante dietro di noi e poi di corsa si diressero in gruppi di dieci verso la boscaglia aggirandola completamente dopo una ventina di minuti, i leoni erano stati accerchiati. Sugli alberi secolari, spaventate come da un uragano, tutte le scimmie tra grida e gesti rapidi si erano rifugiate sui rami più alti guardando in basso e gesticolando. Il leone era lì, non c’era nessun dubbio. Era invisibile a chiunque. Lilic, rimasta con me, era anche lei a cavallo di una giumenta piena di nastri rossi e gialli intrecciati alla criniera e io montavo Pavashaz; ero armato con una lunga lancia mentre al mio fianco cavalcava Mitas. La mia lancia sembrava una sarissa greca, faceva paura solo a guardarla e per un uomo era abbastanza pesante ma non per me.

    Decisi il da farsi, ormai la caccia era iniziata: Mitas, porta subito la principessa dietro i carri, potrebbe essere pericoloso tenerla qui con noi e fai bene attenzione a tutto quello che vedi muoversi nella boscaglia, quel lurido demonio potrebbe uscire da un momento all’altro, gli dissi. E lui con gli occhi spalancati e portando la mano chiusa sul petto rispose: Sì, mio re, la proteggerò con la mia vita se questo oggi fosse necessario. Lo guardai, sapevo che l’avrebbe fatto senza pensarci su due volte. Dopo qualche ora che proseguivamo udimmo da una boscaglia, a circa trecento passi davanti a noi, le grida strazianti di un uomo tra il muoversi scomposto di canne e stoppie mentre un cavallo con il mio emblema veniva all’impazzata verso di noi. I battitori smisero di far fracasso. Quello era stato il primo agguato del leone e la prima vittima della giornata; la belva aveva dilaniato una delle nostre guide e gli stava divorando il petto.

    Il leone si alzò appena un attimo, vidi il muso sporco di sangue alzarsi dalla sterpaglia come se lo avessimo disturbato e mi accorsi con grande raccapriccio che il poveretto agitava nell’aria ancora le braccia mentre la vita lo stava lasciando. Mi girai indietro guardando che direzione avesse preso il cavallo della guida… lo vidi cadere di schianto lontano dalla radura. Certamente il leone lo aveva morso in un punto vitale.

    Due lunghi balzi e una enorme leonessa con altre due più giovani spuntate come fantasmi da chissà dove erano già sopra il povero animale per divorarlo ma rimasero a bocca asciutta. Le tre leonesse furono uccise con una tempesta di frecce con la carne ancora in bocca da un paio di carri che avevo mandato lì. Un ultimo urlo di strazio della guida nubiana tra gli sterpi e poi calò il silenzio della morte. Quasi tutti i nostri cavalli furono terrorizzati dall’usta del leone maschio e dai suoi cupi ruggiti ma i conduttori dei carri che erano esperti cacciatori con urla e frusta li tennero fermi al loro posto. Alcuni capicarro saci, nostri alleati, scesero e li tennero per le briglie cercando di calmarli mentre gli altri due erano sul carro, vigili, con le frecce pronte da scoccare… ma i loro occhi per il momento non scorsero niente. Il leone era sparito nel nulla! La cavalla di Lilic era già nervosa non essendo abituata alle battute di caccia e la principessa a stento riusciva a trattenerla a freno. Tutti i battitori erano rimasti immobili, si aspettavano che da un momento all’altro la morte sbucasse da qualche parte.

    Da lontano, alla nostra sinistra tra acquitrini pieni di zanzare e alberi di basso fusto, sentimmo un ruggito e pochi attimi dopo vedemmo una leonessa che a grandi balzi inseguiva una grossa orice con il suo cucciolo appena nato… un balzo e li uccise entrambi e al primo morso per dilaniare il corpo del malcapitato animale una decina di archi da guerra vomitarono su di lei i loro messaggi di morte. Un ruggito strozzato e l’uccisero prima dell’ultimo morso della sua vita. Trafitta da più parti, senza nessun rantolo, si accasciò vomitando sangue in un ultimo sconnesso movimento del corpo davanti ai suoi leoncini, accorsi lì vicino poco dopo il suo ultimo richiamo. Feci cenno ai battitori di riprendere il fracasso. Quel giorno dovevamo ucciderne quanti più individui del branco fosse possibile per porre fine alle razzie una volta e per sempre. Nel frattempo il grosso maschio era sparito dalla nostra vista mentre i battitori a un altro mio segnale fecero più rumore di prima, ma niente, sembrava che la terra l’avesse inghiottito. Sentimmo altri ruggiti provenire dagli alberi d’acacia dove alcuni elementi del branco si erano acquattati in attesa di qualche gazzella o di un vecchio bufalo venuti ad abbeverarsi. Una decina leonesse e un paio di maschi di due anni annusavano l’aria. Si sdraiarono sbadigliando una accanto all’altra non curandosi minimamente di noi poiché sapevano che il capobranco prima o poi ci avrebbe attaccato e che anche loro avrebbero partecipato al banchetto. I due giovani maschi si alzarono ed indolenti sparirono nella boscaglia.

    Sembrava che si fossero addirittura addormentate, ma mi sbagliavo. I leoni erano contro vento, e non ci avevano ancora sentito ma la fortuna ben presto ci avrebbe abbandonati. Un fruscìo di canne, cambiò il vento e i leoni uscirono allo scoperto, erano affamati… Scoccate!, fu il mio primo urlo di caccia e la morte arrivò silenziosa. Uccidemmo altri cinque componenti del branco, quasi tutte femmine in età fertile, poi non sentimmo più nessun rumore tranne i miagolii dei leoncini che Mitas e un cacciatore rinchiusero dentro un cesto per portarli, dopo la battuta, nel bestiario della mia reggia. Altre due leonesse, enormi, apparvero tra noi e i battitori… Scoccate e anche loro fecero la fine delle altre.

    Gli altri del branco si erano dileguati, l’odore della morte li aveva fatti allontanare da Krill. Nel frattempo… temendo di essere scoperto il maschio si era appiattito al suolo ed era invisibile quantunque avessi dato ordine ai battitori di stanarlo e di fare quanto più rumore fosse stato possibile. Sapevo che se avesse potuto ci avrebbe sbranato tutti quanti. Il vento, che si era alzato per nostra fortuna alle sue spalle, portò l’usta del leone alle narici dei cavalli che ancora una volta si agitarono e questa volta fu più duro tenerli a freno. Era lì, davanti a nostri occhi, forse a duecento passi, ma non di più, e nel vedere a malapena il ciuffo scuro della sua criniera andare su e giù comprendemmo che era nervoso e molto presto, sebbene sazio delle carni della guida nubiana, ci avrebbe caricato mentre l’erba secca e le canne ancora lo nascondevano alla nostra vista. Dopo aver ucciso il nubiano ventre a terra, tra la fitta sterpaglia, si era avvicinato lentamente a noi come un serpente appiattendosi in una pozza d’acqua… strisciava, si vedeva solo il lento movimento delle canne ma non lui. Quel pazzo demonio si sta avvicinando per scannarci; è molto più furbo di quanto avessi pensato, mio signore, mi disse Mitas che era a un paio di passi da me, e io gli risposi: È, vero Mitas, hai ragione tu! È un vero demonio ed è molto più furbo di quanto pensassimo io e te messi insieme; si vede che è abituato a uccidere uomini mentre sono chini a lavorare. Sono una preda fin troppo facile per lui, si muove come un serpente dell’oltretomba ma tra poco vedremo chi di noi due sarà più furbo. O io o lui! Stiamo attenti però a non fare nessuna sciocchezza oggi che c’è la principessa con noi, anche se non ho capito bene perché l’imperatore non l’abbia portata con sé!. E Mitas schioccando la lingua: Beh! Se non lo hai ancora capito mio re, te lo dico io… sai quanto pagherebbe Azoer per sapere che sua figlia è stata uccisa da un leone? Molto dell’oro che hai in consegna a Tradat. Morta la principessa tu non avresti scampo, la sera stessa saresti un uomo morto e l’esercito per forza maggiore gli dovrebbe obbedienza… ma questo non accadrà! Te lo giuro su Azura, re Artaban!.

    Sorrisi e gli risposi: Non accadrà né oggi e né mai, Mitas!. Si udì un nervoso scuotere di sterpi e alcune canne si piegarono davanti a noi in un rumore secco senza che ci fosse un alito di vento che come un suo vecchio alleato aveva cessato di soffiare proprio in quel momento. Poi tutto fu immobile e irreale come i nostri respiri. La paura nel campo di Krill stava aumentando come il nostro sudore. Le scimmie sugli alberi erano diventate mute dalla paura, segno evidente che il leone era davanti a noi… era proprio lì. Tutti trattenemmo il fiato mentre le mani che stringevano lance, archi e briglie erano già sudate e le gole secche per l’attesa già da un bel pezzo. Un ruggito breve e un altro cupo risuonò dentro le nostre anime mentre tutti i corpi diventarono di pietra impedendoci qualsiasi movimento dalla paura; un altro ruggito di monito mentre le ultime quaglie lasciarono le uova in cova nel nido prese dal panico. Poi urla assordanti come se ci fossero delle bambine irrequiete nei paraggi; sentimmo lo scuotere nervoso del fogliame e le stridule urla delle scimmie nane dai rami più alti come se ci stessero avvertendo che ben presto il capobranco assassino ci avrebbe caricato. Ora mancava poco, soltanto attimi. Poi tacquero. I nostri animali s’impennavano ripetutamente battendo gli zoccoli sul terreno e scuotevano la testa in lunghi nitriti, solo la mia Pavashaz era rimasta immobile, attenta e vigile a ogni mio minimo segnale mentre poco dopo si sentì un terzo grosso ruggito come un lungo tuono che risuonò dalle stoppie. La belva un attimo dopo si alzò di scatto in tutta la sua fierezza e ci apparve; aveva il muso intriso di sangue. Si era finalmente deciso! Avevo il sole alle spalle e lo potei vedere bene, era color del rame, un ammasso di carne e muscoli enorme pronto a uccidere ancora, forse aveva sui sei o sette anni… la mia cavalla lo fissò negli occhi stendendo il collo per annusare l’aria ma senza muoversi di un millimetro; dall’altra parte il leone come se fosse una pietra adesso ci guardava in modo vitreo senza muovere la testa mentre con la coda frustava incessantemente l’aria; un venticello gli scuoteva la criniera nero-rame e ben presto mi resi conto che il suo sguardo era diretto nella mia direzione. Ma non fissava me. Strinsi la lancia, avevo la mano sudata.

    Tutto d’un tratto mi ricordai delle parole del mio maestro di caccia Ubebe, un vecchio guerriero nubiano ancora forte come un bufalo dalle mille cicatrici che spesso mi aveva detto prima di andare a caccia dei leoni: Ricordati questo, mio re, un giorno se lo hai di fronte non ti muovere di un passo e respira piano come se fosse una cosa naturale vedertelo davanti, ma se ti metterai a correrei lui si accorgerà subito della tua debolezza e ti attaccherà scambiandoti per una preda… urla anche tu in faccia al suo ruggito ma cammina all’indietro lentamente e volgi lo sguardo a terra allontanando la tua mente da quel luogo e da lui, non correre e il leone se ne andrà per la sua strada così come è venuto perché tu non lo hai né sfidato e né temuto, ricordatelo bene se vorrai salvarti un giorno la vita perché i leoni hanno rispetto dell’uomo quando l’uomo ha rispetto di loro… ricordatene bene!. Memore di quel consiglio ordinai a tutti i componenti della squadra

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