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Cecè, il mulo e la moglie dell’Est
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E-book211 pagine3 ore

Cecè, il mulo e la moglie dell’Est

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Info su questo ebook

"Girare la manopola dei rubinetti e tirare la catenella dello sciacquone fu come accendere contemporaneamente mille 'bibigas'. Quella che venne fuori non era acqua, ma liquido incandescente. Per la prima volta nella storia dell'umanità - pontificarono gli scienziati -, in Sicilia, l'acqua ha preso fuoco."
LinguaItaliano
Data di uscita14 dic 2016
ISBN9788822877147
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    Anteprima del libro

    Cecè, il mulo e la moglie dell’Est - Salvatore Giuseppe Pomara

    tutti!

    1

    Il villaggio

    Fucà non era il mondo ma pur sempre una parte infinitesimale di esso, così piccola che sulla carta geografica non era più grande della punta di uno spillo.

    Fucà era un paese qualunque come i suoi abitanti che tiravano solo a campare. Non gli interessava né da dove venivano né dove andavano. D'altra parte, che gliene fregava se erano certi di non andare da nessuna parte?

    Tutta gente terra terra quella di Fucà e neanche un nobile in passato per dire: Talè anche Fucà ha avuto il suo barone, il suo marchese, il suo principe tal dei tali.

    Niente di tutto questo. Solo un'accozzaglia di esseri senza età, messi al mondo per fare numero e vivere di stenti.

    Quelli che sapevano leggere e scrivere si contavano un tempo sulle dita di una mano. E non ci fu boom economico o sociale che riuscisse a cambiare le cose.

    Ai banchi di scuola i bambini preferivano di gran lunga i giochi e la campagna. Ragion per cui per secoli e secoli a Fucà non sono nati che pastori e contadini. Solo a un certo punto della sua storia vennero al mondo una maestra, un prete, un medico e un avvocato.

    A questo punto si potrebbe pensare che Fucà avesse finalmente voltato pagina. E invece no, l’ignoranza rimase tale e quale quella di sempre.

    Neanche le campagne di alfabetizzazione di massa fecero granché.

    «La scola nun porta pane» ripetevano alcuni di quelli che in paese chiamavano affabbeti e segno di cruci per via dell'assoluta mancanza di qualsivoglia nozione scolastica.

    Ragion per cui, piuttosto che mandare i figli a scuola, li lasciavano liberi di scorrazzare per le strade e le campagne.

    Molti fra quelli che furono costretti a prendere il sillabario in mano abbandonarono la scuola alla prima occasione. Alcuni non andarono oltre la firma che riuscivano a scrivere ma non sapevano leggere; e altri non arrivarono neanche a questo.

    «Tanto, per fare i pastori - commentavano - non serve né penna né calamaio, basta sapere mungere le pecore o le vacche, fare la ricotta, il formaggio e il caciocavallo; e questo non s’impara a scuola ma al bosco, in mezzo alle macchie e dietro agli animali».

    «Animali li patri e animali li fìgghi» era l'amaro commento del sindaco nel vedere le aule semivuote per colpa di certi genitori che non c'era verso di convincere a mandare i figli a scuola.

    «L’istruzione per i vostri figli è importante!» non si stancava di ripetere, «ma vedo che la cosa da un'aricchia vi entra e dall'altra vi esce».

    «O bonu bonu, quando sono più grandi, vanno alla scuola serale» si giustificavano. Qualcuno ci andò alla scuola serale e qualche altro no.

    «A facciazza mè e di me patri» imprecava quest'ultimo tutte le volte che si trovava davanti un pezzo di carta da firmare.

    «A cruci ci pozzu mettiri, affabeto sono».

    «Analfabeta…».

    «Affabeta, come dice vossia».

    «Va bene anche la croce» faceva l'Ufficiale postale mentre contava i soldi che gli avrebbe consegnato, non prima di avere scritto sotto il geroglifico identificativo: Segno di croce di Tizio o Caio.

    Negli anni le cose non sono cambiate di molto.

    Quei due o tre che ebbero la fortuna e il coraggio di scappare dal paese, giunti a Palermo, furono accolti al grido di cardùna e pèri 'ncritati - zoticoni e scarponi sporchi di creta.

    Non ci rimasero bene, scarpi grossi e ciriveddi fini, ma si erano messi in testa di sfidare il mondo e non tornarono indietro. Rimasero in città alla faccia di chi si considerava il padrone del vapore.

    Non impiegarono molto per apprendere più di quello che era necessario. Fu una corsa dura, ma puntava in alto. E qualcuno in alto ci arrivò per davvero e fu d'esempio a qualche giovane del paese che volle tentare la stessa avventura. La lotta durò il tempo di una generazione.

    Poi venne l'era del benessere e della scuola a tutti i costi, anche per chi di scuola non ne voleva neanche a brodo. Arrivarono i diplomi e le lauree a teccà pigghiatilli, e tutti diventarono dottori.

    Sembrava proprio che a Fucà fosse arrivata finalmente la cultura. E invece no. A parte, infatti, dei pezzi di carta non arrivò proprio niente.

    La corsa rispetto al passato non aveva puntato in alto, ma in basso verso la massa e la cultura di massa.

    L'ambizione era stata solo quella di stringere fra le mani la pergamena su cui era stampigliato: Dottore in…, dove dottore stava per dotto.

    «Ma dotto di che?» veniva da chiedersi. La risposta era: di niente.

    «Perfino 'Ntoni avrebbe preso oggi il suo pezzo di carta» se ne uscì una volta uno di quelli che il diploma, a suo dire, lo aveva sudato.

    «Lascia stare ‘Ntoni» lo zittì subito un altro, «che non saprai mai cosa avrebbe o non avrebbe potuto fare».

    E non aveva torto, visto che a ‘Ntoni, ‘Ntoni u babbu, la scuola gli era stata negata. E dire che a differenza di molti suoi coetanei, lui a scuola ci voleva andare. Eccome!

    «In classe non si entra per riscaldare il banco» diceva la direttrice che si era opposta fermamente al suo ingresso in aula. «Non solo non apprenderebbe niente, ma sarebbe di disturbo ai compagni».

    «Che poi» aggiungeva, «quando è così, meglio non venire al mondo». Come se venire al mondo e nascere scemo fosse dipeso da lui.

    'Ntoni non capiva di leggi e di provvedimenti e perciò tutte le mattine dei primi giorni di scuola, a partire da quando aveva sei anni, si presentava davanti al portone di quella casa fatiscente che fungeva da edificio scolastico di Fucà e «assà mi fa trasiri» chiedeva.

    «Non posso, non dipende da me» replicava a malincuore Mariantonia, la bidella.

    ‘Ntoni aveva la stessa età di uno dei suoi figli, abitava nella sua stessa strada, lo aveva visto nascere e nutriva per lui un affetto particolare.

    «Pure per quelli come ‘Ntoni ci dovrebbe essere posto su questa terra» si rammaricava Mariantonia. Impedirgli di entrare a scuola le sembrava un’ingiustizia.

    «La vedi quella porta alla fine della scala, ‘Nto? Anche a farti entrare, la troveresti sbarrata. E nel caso tu riuscissi ad aprirla, la maestra che è peggio di un cani di mannira ti direbbe: vai via, che questo non è posto per te. Non è una cosa giusta, lo so; ma io mi domando cosa c’è di giusto a questo mondo. Niente. Cosa hanno gli altri più di te? Sono picciriddi normali e tu no? E allora? A quelli che fanno le leggi, io ricorderei che a questo mondo neanche le dita di una mano sono tutte uguali. Che piacere ci sarebbe se fossimo tutti intelligenti o tutti stupidi? Nessuno. E allora, uno che nasce un poco indietro deve restare tale e quale? Non mi sembra una cosa esatta. Anche a lui è giusto che sia data una possibilità. ‘Ntoni non deve diventare dottore! Solo imparare a mettere la firma. E per questo non ci vuole chissà quale intelligenza. Non nasciamo tutti scienziati. Lu Signuri c’è a cu nni detti chiossà ciriveddu e c’è a cu nni detti cchiù picca, ma tutti figghi di lu stessu patri semu! Io penso che con una mano di aiuto, 'Ntoni, potrebbe imparare a scrivere quattro parole, a fare qualche operazione, non dico le divisioni che non le so fare neanche io, ma una sottrazione, un’addizione: cinque meno tre, quattro più uno e così via. Se non altro per sapere contare qualche soldo che, non si sa mai, potrebbe passargli per le mani. Questo direi a quelli che si sono messi in testa che la scuola non fa per te, 'Ntoni. Ma io sono quella che passa lu cannavazzu, lo straccio, perciò meglio tenere la bocca chiusa. Il mio consiglio è quello di non startene davanti la porta come un addunanneru. Non gli dare sazio, Ntò, e futtitinni di la scola e di tutta sta genti tinta. Vattene a giocare. Se poi non ti va di giocare, vattene a casa che quella mischina di tua nonna quando non ti vede si preoccupa. Avete visto mio nipote, avete visto mio nipote? domanda. Al bar, davanti alla scuola, in piazza è le dicono. E lei si tranquillizza. Quando penso a quello che fa per te! Meno male che c’è tuo zio dell’America, che altrimenti sareste peggiu di li cani. Si fa per dire, perché a certi cani non manca niente, mentre a voi pure la grazia di Dio mancherebbe se non fosse per lui. E grazie anche alla signora Esterina: quattro ossa, ma con un cuore grande come il mare. Sembra vivere soltanto per gli altri. Ci nni fussiru tanti di cristiani boni comu idda! L’altra volta l’ho incontrata alla bottega, da mastro Simuni, stava facendo la spesa per voi. Se non aiutiamo quelli che hanno bisogno… diceva. Quella è una santa. Se santi ci sono e se paradiso c’è, lei se l’è assicurato! Fosse per me, ‘Ntoni, io a scuola ti farei entrare; e sono sicura che t’insignassi cchiòssa cosi di qualcuno che va a scuola tanto per quariari il banco. Perché, se devo dire quello che ho nello stomaco, di picciriddi cu la testa nna l’aria, menzi o tutti stupiti, a Fucà, ce ne sono tanti. Ma per loro è tutto normale, e lo sai perché? Perché hanno qualche soldo. E a questo mondo, se non hai un soldo, sì nuddu ammiscatu cu nenti, sei nessuno immischiato con niente. Il ricco, anche se è un pezzo di scimunito, passa per uno intelligente, per una persona attraente pure quando è vecchio e decrepito. Tanto per farti un esempio, pensa per un momento a don Serafino Laganà, il duca, quello che viene da Palermo a villeggiare a Fucà in estate, che fa schifo solo a taliarlo ma chi avi tanti soldi, milioni di milioni che neanche io so come si scrivono. Ebbene devi vedere quante beddi fimmine, schette e pure maritate, se lo vorrebbero accalappiare. Lui pensa: oh quanto sugnu beddu! Ma quale bello e bello ‘Nto, che quando diventano vecchi questi ricconi che hanno più vizi della cucca, come si dice, sono più brutti della peste. Avogghia che si ‘nchiappano la testa di capiddi finti, si ‘mpumatanu la faccia, si sucano la pancia: vecchi arripudduti erano e vecchi arripudduti restano, che la gioventù è tutta un’altra cosa, Ntoni, te lo assicuro io. Ma questo lo capirai col tempo, che almeno in quello non dovresti essere diverso dagli altri, che là più del cervello è la natura che comanda».

    Mariantonia più che con ‘Ntoni parlava con se stessa. Se la prendeva col mondo intero e non riusciva a rassegnarsi a quella che a lei appariva un’ingiustizia bella e buona: tutti i bambini del paese a scuola e ‘Ntoni davanti al portone a insistere per entrare.

    «Sono sicura» rifletteva Mariantonia «che, se lo facessero entrare, non resisterebbe più di cinque minuti in quello stanzone umido e semibuio che chiamano aula».

    Chissà ‘Ntoni cosa pensava ci fosse oltre quella porta in fondo alla scala. Sarebbe rimasto deluso, come sospettava Mariantonia? Meglio forse non averlo sperimentato.

    «Perché non te ne vai a casa che c’è un freddo che taglia la faccia… Non vedi che nevica… Ti viene una prumunia sotto la pioggia… Mettiti all’ombra che il sole è forte oggi, anche se siamo ai primi di giugno, che qua in Sicilia fra scirocco, caldo e polvere che arriva dal deserto certe volte sembra di essere in Africa».

    Le preoccupazioni di Mariantonia variavano con le stagioni. ‘Ntoni le sorrideva, ma restava davanti al portone. Era corazzato contro tutte le intemperie, non sentiva né caldo né freddo; poteva diluviare o grandinare, soffiare scirocco o vento di tramontana non gliene fregava niente.

    Sotto quella coppola larga che gli copriva pure le orecchie, si sentiva al riparo da tutte le intemperie. «Copriti la testa che c’è freddo e il tempo è all’acqua».

    Ma ‘Ntoni non aveva bisogno dei consigli della nonna. Assieme alla giacca, infatti, il berretto faceva parte della divisa. Dove c’era lui, c’erano la coppola e quella giacca che gli arrivava sotto le ginocchia.

    2

    Brùm brùm brùm

    'Ntoni era il primo a cominciare dall'ultimo. 'Ntoni aveva diaci, venti, cinquant’anni, nessuna età e tutte le età. Il tempo lo sfiorava senza lasciare segni; non una ruga e neanche un capello bianco. ‘Ntoni era bambino e vecchio contemporaneamente.

    «Uno a cui il mondo non fa né cavuru friddu» diceva di lui Padre Vito, l'arciprete, un uomo sulla cinquantina robusto e con le mani incallite di contadino. «A Fucà c’è bisogno di te» gli aveva detto il vescovo nel dargli l’incarico. E lui obbedì. Venne a Fucà e si mise accanto agli ultimi. Perciò prese a cuore la sorte di 'Ntoni che l’ultimo era e tale sarebbe rimasto. Le parole del Vangelo, che parlavano degli ultimi che sarebbero stati i primi, sicuramente non erano dirette a lui. E questo non soltanto perché aveva qualche rotella in meno, ma anche e soprattutto perché era un morto di fame.

    «Se fosse stato figlio di persone importanti» commentava Gesafà, un pastore di pecore che aveva la sua stessa età «i giudizi su ‘Ntoni sarebbero stati meno severi e non sarebbe passato forse per lo scimunitu ru paisi».

    «Che fai qua?» Era con queste parole che esordiva dopo anni che non ti vedeva. Ti accorgevi subito, dal sorriso che si disegnava sulla sua faccia, che era felice di vederti. Lo eri anche tu; e più di lui.

    'Ntoni era tale e quale lo avevi lasciato prima di andare via: la stessa faccia e l’eterno sguardo di bambino. La sua immagine, nel tempo, era rimasta uguale a se stessa. Non riuscivi a ricordarlo com'era da bambino, forse perché non lo era mai stato o forse perché non lo eri stato neanche tu, in quel posto dove si faceva in fretta a crescere e altrettanto in fretta a morire. Rivederlo ti dava la sensazione che tutto fosse rimasto come lo avevi lasciato. Non era così, ma era quello che tu in quel momento vedevi o immaginavi di vedere e questo ti faceva stare bene.

    «'Ntoni è uno con la testa in aria, come tanti ce ne sono» diceva Gesafà, «uno che fa discorsi strani o sensati da non crederci; a volte parla e straparla e non si ferma più; altre volte non apre bocca per ore, si chiude in se stesso ed è come parlare al muro».

    'Ntoni e Gesafà erano vicini di casa. E come succedeva nei piccoli centri si volevano bene come fossero parenti.

    'Ntoni non era quello che si poteva definire una persona normale, ma capiva perfettamente chi gli voleva bene e chi lo trattava peggio di un animale. Non dava fastidio a nessuno. Frequentava il bar, la bottega del barbiere e quella del calzolaio, gli piaceva il vociare della gente, amava la musica - leggera, operistica, classica non faceva differenza - ed era attratto fino all’inverosimile dalla banda musicale. Non c’era festa patronale in uno dei tanti paesi vicini dove non accorresse per ascoltarla.

    Per un anno intero aspettava l'arrivo a Fucà dei musicanti, il giorno della festa di san Brasi. Quando finivano i festeggiamenti, appena smontata l'ultima bancarella, chiedeva a padre arciprete: «Parrì, parrì quannu torna a musica?».

    «'Ntoni, la festa è finita ieri; ci voli un altro anno per l’altra» rispondeva padre Vito.

    «E quanto è un anno?».

    «Un anno, 'Ntò, sono trecentosessantacinque giorni».

    «Ah, tricentusessantacincu jorna! Un annu è cchiò assai di un jornu, patri Vitu?».

    «Certo 'Ntoni, un anno è più di un giorno: un giorno è un'affacciata e una calata di sole, mentre un anno è tanti affacciati e tanti calati di suli».

    «Ah… e allura ci voli una ternità!».

    «Non un'eternità ‘Ntoni, ci voli lo stesso tempo della festa di San Brasi; San Brasi e i musicanti arrivano nello stesso giorno».

    «Picchì San Brasi veni una sula vota?».

    «Perché ogni santo ha il suo

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