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La guerra di Pietro
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E-book225 pagine2 ore

La guerra di Pietro

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Info su questo ebook

C’è solo una “T” in più, ma la guerra è la stessa. Il Piero di Fabrizio De André ha avuto i suoi papaveri, il Pietro che scriveva queste lettere non ha avuto la sua canzone. Lui, però, è diventato un simbolo ed un pretesto allo stesso tempo. Il simbolo di una famiglia ed un pretesto per raccontare la sua storia, rigorosamente ricostruita sulla base di informazioni certe e lettere reali. È un periodo del Novecento che ha lasciato una cicatrice talmente profonda da continuare a far parlare di sé, generazione dopo generazione. È quella terrificante, sconvolgente, assurda Seconda Guerra Mondiale di cui si è parlato su migliaia e migliaia di libri. Il punto, però, è un altro: cosa accadeva ai margini dei combattimenti? Come viveva chi non era in prima linea ad imbracciare le armi? Ve lo racconterà lo stesso Pietro, ve lo racconteranno Tina e le sue sorelle, ve lo racconterà la penna di Simona Pacini, con uno stile fluido e coinvolgente che vi terrà gli occhi bloccati sulle pagine per un bel po’ di tempo.

Simona Pacini, nata a Colle Val d’Elsa, in provincia di Siena, è una giornalista toscana. Ha lavorato nelle redazioni di alcuni quotidiani locali (a Siena e in diverse città del Veneto) negli ultimi trent’anni. Ha curato la pubblicazione per l’inaugurazione del museo del Cristallo di Colle Val d’Elsa. Ha ricevuto il premio “Giornalista dell’anno 2003” dall’Associazione Nazionale Alpini e ha vinto la seconda edizione del Premio Paolo Rizzi nel 2011. Appassionata di cucina, di lettura, di arte e di animali (gatti in particolare), da alcuni anni, superato lo shock di avere un padre scrittore, ha deciso di dedicarsi anche lei alla narrativa.
Attualmente si occupa di scrittura creativa cercando di impararne i segreti e tentando di trasmetterli ad altri. 
La Guerra di Pietro, storia nata dal ritrovamento di alcune lettere scritte fra il 1939 e il 1943 da uno zio della madre, è il suo primo libro.
LinguaItaliano
Data di uscita9 giu 2018
ISBN9788893845762
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    Anteprima del libro

    La guerra di Pietro - Simona Pacini

    © 2018 Europa Edizioni s.r.l. | Roma

    www.europaedizioni.it - info@europaedizioni.it

    ISBN 978-88-9384-576-2

    I edizione gennaio 2018

    La guerra di Pietro

    Alla mia mamma,

    alla mia cugina Sandra

    e a tutti i Nencini

    Alla mia amica Marcella,

    che questo libro

    non lo leggerà mai

    Ognuno ha il proprio passato chiuso dentro di sé

    come le pagine di un libro imparato a memoria

    e di cui gli amici possono leggere solo il titolo.

    (Virginia Woolf)

    Un popolo che ignora il proprio passato

    non saprà mai nulla del proprio presente.

    (Indro Montanelli)

    Nel corso del 2014, durante lo sgombero di uno stanzino della vecchia casa di famiglia, Sandra Nencini, mia cugina, ha trovato una scatola con delle vecchie lettere.

    Avuto l’assenso dai nuovi proprietari per tenerle, le ha lette, catalogate anno per anno, e poi consegnate, perché le leggesse, alla sua zia Loriana, la mia mamma.

    È così che le lettere di Pietro Nencini, zio di Loriana e Osvaldo, il babbo di Sandra, sono entrate in casa mia.

    Dello zio Pietro avevo sentito parlare in diverse occasioni ma, a parte il fatto che era morto giovane a causa di un’infezione a un piede mai guarita (questa è sempre stata la versione di famiglia), non sapevo nient’altro.

    Come poco sapevo di quell’intrico di fratelli e sorelle, dieci in tutto, fra cui il mio nonno Ferruccio, che costituivano la famiglia dei Nencini di Castiglioni Basso.

    Negli anni ho conosciuto diversi di loro. Ofelio con Olga, Ottavio e Lorena, zia Tina, Carlo, il marito di zia Giovanna, oltre a nonno Ferruccio e nonna Armida. Ma di tanti, come Ida, Rutilio, Arturo e Attilio, non sapevo nemmeno il nome.

    Comparivano nei racconti di mamma, che riferiva vecchie storie di famiglia, ma subito dopo si dissolvevano, persi in un labirinto di nomi senza volto, di cui non riuscivo a ricordare parentele o altri punti di riferimento.

    Il ritrovamento delle lettere di Pietro Nencini sono state per me l’occasione per ricostruire l’albero genealogico dei discendenti di Marziale, il capostipite della famiglia.

    Quando mi è venuta l’idea di pubblicarle, ho pensato anche che la storia incompleta narrata da Pietro alla sorella Giovanna, trasferitasi in Campania dopo il matrimonio, sarebbe dovuta essere ricostruita. E così è scattata la ricerca.

    Nessuno dei fratelli e delle sorelle di Pietro è più in vita, ormai. Ma ci sono figli e nipoti che conservano la memoria di alcuni particolari da loro vissuti o a loro tramandati.

    Io ho cercato di raccoglierne quanti più possibile per comporre il mosaico e poter narrare la vita dei componenti di questa famiglia.

    Dove non è arrivata la ricostruzione storica o testimoniale, è intervenuta la fantasia.

    Le storie di questo libro si riferiscono al periodo che va dal 1939 al 1943, gli anni in cui sono state scritte le lettere. È una narrazione a più livelli: c’è la storia di Pietro, giovane di belle speranze la cui vita fu troncata alla fine del 1943 appunto, dalla malattia; c’è quella della famiglia, i Nencini, da tutti conosciuti, chissà mai perché, come i Buccini, e quella del luogo in cui vivevano, Castiglioni Basso, al confine fra i territori comunali di Colle Val d’Elsa e Poggibonsi; c’è infine un po’ di storia di quei tempi, quella che si svolse negli ultimi anni del fascismo e durante la Seconda Guerra Mondiale.

    Ci sono anche tante storie accadute prima di quegli anni, che i membri della famiglia si raccontano ancora e che hanno contribuito a fare di ognuno di loro la persona che era.

    Questo viaggio a ritroso mi ha permesso di riconoscere finalmente una parte delle mie origini, il quarto rappresentato dai Nencini. Ho potuto memorizzare i nomi e abbinarli, se non proprio a un volto, a delle personalità ben distinte. Ho dato un ordine a legami di parentela che mi erano sempre apparsi caotici e confusi.

    È stata un’occasione anche per allacciare contatti con parenti più o meno lontani.

    Alla fine è stato un bagno di vita alla ricerca delle radici della mia famiglia che mi ha permesso, attraverso le storie del passato, di conoscere meglio il presente.

    Scrivendo di queste persone che non ci sono più ho cercato di immedesimarmi nelle loro vite con affetto e comprensione.

    Le ringrazio dal profondo di me stessa, sperando di non aver offeso e scontentato nessuno.

    Mando infine un saluto di cuore a Pietro, lo scrittore di famiglia, che da lassù mi ha assistito e guidato nel compiere un progetto che, ne sono sicura, se ne avesse avuto il tempo e la possibilità, avrebbe voluto realizzare egli stesso.

    Mi chiamo Pietro e odio la guerra.

    Ma credetemi, avessi potuto ci sarei andato, eccome se ci sarei andato. Di corsa ci sarei andato a combattere. Tutto fuorché star seduto su questa seggiola a chiacchierare con la gente che passa.

    O sul letto, o in ospedale.

    Di corsa nella mia vita, da una certa età in poi, non ho potuto più far nulla.

    Sono un bel ragazzo, così dicono, e io a volte mi sento anche forte.

    Ma con queste gambe di pasta frolla, ragazzi, e i piedi che mi si gonfiano ogni volta che faccio uno sforzo...

    Mi garbava lavorare, facevo il camionista.

    Ma ho dovuto lasciare.

    Mi garbavano le ragazze, meno male le ho potute guardare.

    Però mi accontento di quello che ho. Che altro posso fare?

    Il mio non è un avversario leale, non ho nessuno con cui discutere e, nel caso, lottare. È inutile urlare, bestemmiare, lamentarsi.

    Il mio nemico è dentro di me, subdolo, invisibile.

    I medici non lo riconoscono. Non riescono nemmeno a dargli un nome.

    Sarà per colpa dei tempi.

    In Italia siamo isolati. Pare che all’estero vada meglio.

    Ma qui dobbiamo fare tutto da noi e la medicina arriva dove può.

    Tanti tentativi, credetemi, e tutti andati a vuoto.

    Tutti sulla mia pelle.

    Le visite, le medicine, costose e introvabili, le diete, il riposo. Le speranze.

    Quelle sì che son le ultime a morire.

    Ma a un certo punto se ne vanno anche loro.

    Io leggo. Ho tanto tempo libero da passare in camera, sul letto, all’ospedale, o sulla seggiola davanti a casa.

    Leggo, anche se la gente mi cogliona per questo. Anche se i miei fratelli mi chiamano l’intellettuale.

    E non è mai un complimento.

    Ma se io non avessi i miei libri mi spiegate che vita sarebbe la mia?

    Io sorrido, saluto con gentilezza e mi rimetto a leggere.

    E scrivo. Scrivo lettere alla mia sorella, che si è sposata nel Meridione e che vorrei tornasse a casa più spesso.

    Ormai da quaggiù se ne sono andati quasi tutti. Chi ha cambiato città e chi è partito per sempre.

    Io rimango. Rimango a sedere sulla seggiola di paglia nel cortile di casa. Un libro in mano e un sorriso.

    Se passate di qui almeno fatemi un saluto.

    Osvaldo gioca in cortile. Costruisce fortini di ghiaia intorno a una lucertola. Ogni volta che l’animale riesce a scappare sorge una nuova barriera. Gli uomini della famiglia sono chi al lavoro nei campi, chi militare o alla guerra. A Castiglioni si vive ancora abbastanza bene ma Osvaldo sa che i suoi si stanno preparando per andare alla Rocchetta, nella casa della famiglia della mamma, Armida, dove sono nati lui e la sua sorellina Loriana.

    Mamma ha detto sfollati e a lui quella parola strana risuona in testa, mentre cerca di imprigionare la lucertola impaurita.

    L’estate sta finendo ma fa ancora caldo. L’aria è ferma e il sole batte forte. Il cortile della casa dei Nencini è il posto più fresco che si possa trovare nel raggio di un bel po’ di metri. Osvaldo è solo. Anche zia Ida è impegnata con qualcuna delle sue attività. Sarà a rimettere a posto la cucina o a preparare per il bucato.

    Da una finestra delle urla di dolore spezzano il silenzio. Non è la prima volta che le sente, Osvaldo. Quel pomeriggio, solo nel cortile con l’unica compagnia di una lucertola in cerca di una via di fuga, quelle grida si incideranno nella sua carne come un marchio a fuoco.

    Osvaldo ha otto anni ma non le dimenticherà per tutta la vita.

    Eccolo, vai! Boni tutti, arriva Binda.

    O Pietro e tu sei grullo, sei. Hai sempre voglia di scherzare te.

    Il postino fermò la bicicletta nel cortile della grande casa sulla curva e scese.

    Che c’è Ida in casa? chiese al giovane. Se mi potesse dare un bicchier d’acqua....

    Per esserci c’è di sicuro - disse Pietro, seduto a cogliere un raggio di sole -. Poi se hai voglia di questionare subito di prima mattina, contento te.

    Che c’hai da dì te sulla tu’ sorella, sentiamo....

    Ida gli era arrivata alle spalle all’improvviso, silenziosa come un gatto.

    No no, io non c’ho da dire proprio nulla, figuriamoci disse Pietro mettendo le mani avanti.

    Sì perché qui sono tutti boni a parlare, a parlare e a mangiare. Qui in questa casa non si fa altro, tutti parlano e mangiano - disse Ida, alzando la voce. - E a tradimento, ma un giorno io, se Dio m’ascolta, si fa come dico io.... .

    O Ida, gnamo e smettila un pochino di brontolare una volta tanto. Glielo vuoi dare un bicchier d’acqua a questo povero cristo?.

    L’uomo, un brindellone alto, magro e nodoso, con dei baffetti che facevano il paio con gli occhi furbi da faina, chiamato in causa, accennò un inchino.

    Se non è di troppo disturbo, Ida....

    Fai lo spiritoso anche te e poi te lo do io il bicchier d’acqua sì, ma col veleno dentro.

    E s’allontanò brusca, infilando la porta di casa.

    Stamani non c’ho nulla per te Pietro, però due minuti al fresco su questa seggiolina mi ci metterei.

    Fai fai, e non ti preoccupare per Ida. Cattiva non è cattiva, tanto ormai la conosci anche te. Ma è fatta a modo suo.

    Non mi preoccupo per lei, tranquillo. Te invece, come stai? Quando ritorni a guidare il camion? Ho sentito quelli di Colle laggiù che non aspettano altro.

    Ma guarda, benino sto benino... ora fo delle visite per capire da dove viene questo malanno. Poi appena si trova la cura giusta, vedrai che ci metto un attimo a guarire.

    Ecco qua, bada di non strozzartici, che non vorrei passare dei guai anche per il postino, io disse Ida, porgendo sgarbatamente un bicchiere d’acqua all’uomo.

    E badiamo di non piantare subito le tende qui, che non ci s’ha da mangiare più per nessuno noi.

    Ovvia Ida stai tranquilla, s’è fermato per riposarsi un minuto, che tende vuoi che pianti Remo che deve solo ripigliare la su’ bicicletta e continuare il giro disse Pietro.

    Sì sì, dici bene te. Meno male che ci s’ha un santo in casa noi... hai visto Remo com’è bono il mi’ fratello? A Pietro gli va sempre bene tutto, dà sempre ragione a tutti. E gli darebbe anche da mangiare... nemmeno fosse San Francesco, lui... poi, sa’, con la roba dell’altri è anche facile.

    Gnamo gnamo Ida, non mi dire più nulla... Ora bevo questo bicchier d’acqua prima che tu me lo mandi di traverso e poi parto, che c’ho ancora qualche cartolina da consegnare. Prima d’andà a Castiglioni Alto però un riposino almeno fammelo fare, che ti ci manderei te fin lassù in bicicletta. Con questo sole, poi...

    Ma la donna era già rientrata in casa, senza avergli dato nemmeno la soddisfazione di una risposta.

    Non te la pigliare Remo, lo sai com’è fatta Ida...

    O che problema c’è? Sapessi quante ne vedo a andare a giro di casa in casa... anche di peggio sai? Di molto peggio. Però, ora che ci penso, te non ci crederai. A Staggia uno m’ha chiesto di lei.

    Di chi, di Ida?

    Sì, proprio di lei. Voleva sapere se era sempre signorina.

    Ma proprio di Ida Nencini? Ti sarai sbagliato.

    No no, non mi sbaglio Pietro. Ha detto proprio Ida dei Buccini. Non ci si può sbagliare.

    Mah, allora vuol dire che a questo mondo non si finisce mai di vederne di nuove.

    Che pensi, lo dico ai gemelli? Magari ne viene fuori qualche cosa di bono.

    Oh guarda, non saprei proprio... A lei un marito gli farebbe bene anche se, rustica com’è, bisognerebbe trovare un santo... altro che San Francesco!

    Quando vedo Attilio e Arturo gli fo due parole. Che dici, s’ha a sentire anche Ferruccio?.

    Io dico che bisognerebbe parlarne a Ida più che a tutti quegli altri.

    Hai ragione Pietro... lo fai te?

    E, inforcata la bicicletta con le sacche di cuoio nero appese alla ruota posteriore, uscì dal cortile e prese di slancio la ripida salita sulla sinistra, per rallentare fin quasi a fermarsi dopo pochi metri.

    Chi è vecchio e non ci crede – gli urlò dietro Pietro – arriva all’erta e se n’avvede.

    Remo gli fece solo un gesto con il braccio, qualcosa che poteva anche sembrare un saluto, mentre spingeva la bicicletta.

    Il primo maggio 1939, il Giro d’Italia sarebbe passato non lontano da Castiglioni.

    Nella grande casa sulla curva tra Poggibonsi e Colle, dopo il Ponte dell’Armi, il movimento era cominciato fin da prima che spuntasse il sole. Ma quella volta non era per i soliti lavori: mungere le vacche, governare maiali, polli, conigli e anatre, coltivare i campi, accudire i frutteti e l’orto.

    La quarta tappa, Pisa-Grosseto, di 187 chilometri, avrebbe attraversato la Val di Cecina. Da Colle Val d’Elsa, andando su per le curve di Volterra, pedalando veloci, si poteva arrivare fino alle Saline e fermarsi a vedere il passaggio dei corridori. Erano 40 chilometri, più o meno. Una gita.

    Il Giro sarebbe passato anche per Pomarance e Larderello. Ma alle Saline si arrivava prima.

    Ottavio e Ofelio ne discutevano ormai da giorni e avevano deciso.

    Sarebbero partiti alle 5 del mattino in bicicletta con Steno. A Castel San Gimignano avrebbero incontrato Baldo e insieme sarebbero andati fino alle Saline. Lì si sarebbero trovati un posticino buono, non troppo al sole, dove stare comodi e aspettare il passaggio dei ciclisti.

    Ida, brontolando come al solito, aveva preparato un sacchetto per ognuno con pane, una fetta di formaggio e qualche pomodoro da mangiare a morsi. In segno di pace ci aveva messo dentro anche un ricciarello e due cavallucci, tirati fuori chissà da quale cassetto della madia.

    Pietro non poteva andare. E questo era un ulteriore dispiacere che si sommava a tutti gli altri. La gita in bicicletta su per Le Grazie e poi Campiglia, fermarsi dallo zio Rutilio, andare su fino alle Saline di Volterra con i fratelli e i nipoti. Fermarsi sotto un bel quercione e mangiare all’ombra, fare la pipì tra le frasche, guardare i capelli lunghi e i vestiti colorati delle ragazze.

    Avrebbe voluto più d’ogni cosa vedere con i propri occhi quella corsa di cui seguiva le radiocronache e di cui leggeva i resoconti sui giornali senza perdere una sola parola.

    Magari avrebbe potuto scriverne anche una lui, di cronache, se

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