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Tutti blu per terra
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E-book189 pagine2 ore

Tutti blu per terra

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Info su questo ebook

 Pistoia è la città del blues
E questo romanzo racconta nelle tonalità del blu(es) le storie di ragazzi e ragazze alle prese con gli ultimi anni di scuola. 
I punti di vista si avvicendano come i loro stati d’animo, alle prese con le prime decisioni importanti. 
Gli adulti invadono il mondo di Tommaso, Amina, Chiara, Pietro, Giovanna, Umi e Simone; non fanno le domande giuste per capire, non esitano a predicare la “scelta migliore”. 
Eppure è tra gli adulti che si diffonde l’odio più nero, riemerso dalla Storia a rivendicare ancora una volta il Potere di annientare il futuro. 
“Tutti blu per terra” è il verso di una canzone che risuona nello spazio libero di Casa in Piazzetta, dove i ragazzi e le ragazze si incontrano per stare insieme. 
Uno spazio che è un grande racconto, come questo romanzo, in cui ciascuno può cercare la propria strada.
LinguaItaliano
Data di uscita7 apr 2020
ISBN9788885629677
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    Anteprima del libro

    Tutti blu per terra - Antonio Sofia

    writeupsite.com

    Esergo

    Ma noi non faremo l’errore

    Come fanno le altre persone

    Di fare sempre la scelta più giusta

    Invece di quella migliore

    Siamo giovani come la notte

    E urliamo quel nostro timore

    Che questo vedere più chiare le cose

    Andrà via con la notte, accecato dal sole

    Massimo Pericolo, Amici

    Premessa

    Questo è un romanzo breve, scorrerà in un lampo.

    Forse non avrete il tempo di conoscere i suoi personaggi al punto da affezionarvi a loro: è solo colpa mia.

    Vi chiedo, però, di fare uno sforzo e riempire la storia con ciò che le manca. Potreste essere autori migliori di quanto ho saputo essere io, e scoprire di amarli per tutto ciò che non vi dirò di loro.

    Dedicato con amore a Laura ed Evelina e, con ammirazione infinita, al ricordo di Chris Fuhrman e Sarah Kane.

    Grazie ai compagni di viaggio immancabili: Federico, Angela, Nu e Dania.

    A Francesca e Michele, per la cura sapiente e amorevole.

    E poi all’Associazione di volontariato Arcobaleno e a tutti i ragazzi di Casa in Piazzetta, al Circolo Bugiani, all’Associazione Palomar, a Nadia del Joker Comics e a L’edicola di Igor, all’ARCI di Pistoia.

    Grazie, infine, a Giancarlo Sturba e agli studenti dell’ITS Mazzocchi di Ascoli Piceno, lettori preziosissimi.

    Tutti blu per terra è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, istituzioni, luoghi ed episodi sono frutto dell’immaginazione dell’autore e non sono da considerarsi reali. Qualsiasi somiglianza con fatti, scenari, organizzazioni o persone, viventi o defunte, veri o immaginari è del tutto casuale.

    Ottobre

    Tommaso salì in cima al campanile di San Jacopo.

    Nel tardo pomeriggio del sabato, piazza del Duomo era molto popolata: famiglie a passeggio, ragazzi e ragazze, anziani. Poteva esserci un suo compagno di classe o qualche conoscente, da lassù non distingueva, e non gli dispiaceva essere indistinguibile. I capelli corti, il fisico non un granché sviluppato nonostante la prossimità dei diciotto, banale da vicino o da lontano, sarebbe stato un perfetto infiltrato per conto degli extraterrestri, ma non possedeva ricordi di uno sbarco o altri elementi che potessero confermargli un’appartenenza aliena.

    Il centro storico era una catasta di scatole. Stese le braccia nel vuoto, come volesse afferrare i palazzi per tirarli su, al modo dei peluches nella gabbia del Luna Park; svuotava la città, un pezzo per volta, gli edifici, i vicoli, i chiostri diventavano roba sua, e sorrideva a pensarsi padrone di ogni cosa.

    Aveva quasi liberato l’orizzonte, quando alle sue spalle udì il fruscio che aspettava. Si affrettò a ricomporsi, senza fare in tempo. Amina era arrivata. I suoi occhi neri, i ricci, il naso breve, a una rapida occhiata ritrovò ogni dettaglio della mappatura che l’aveva convinto, sin dal primo momento, a considerarla bella.

    – Eccomi. Oh, ma che fai, pari uno zombie .

    – Sì, leccamelo.

    Tommaso aveva imparato a sue spese che nel gergo pistoiese leccamelo è una manifestazione di noia o di incredulità. Si era trasferito a Pistoia durante le medie, e al primo leccamelo aveva scatenato una rissa. Col tempo si era abituato alle espressioni dialettali e aveva persino modificato l’accento, ma le vocali chiuse continuavano a perseguitarlo.

    Aveva dato una svolta alla sua popolarità alle superiori, grazie ai festini esclusivi che organizzava per una cerchia ristretta di coetanei della Pistoia benestante, eventi privati su cui circolavano leggende. Aveva a disposizione un monolocale al pianterreno della palazzina in cui si era trasferito: la stanza per gli ospiti, così la chiamavano in famiglia per dissimulare il valore di un appartamento non necessario, un’aggiunta a quello già grande in cui vivevano, al piano superiore. Non aveva mai mostrato ad Amina la stanza degli ospiti, né ne avevano parlato.

    – Perché siamo venuti quassù?

    – Non ti ho obbligato a salire, mi pare.

    – Oh, parla, che hai?

    Amina l’aveva abbracciato con cautela, ma Tommaso provava solo il desiderio di volare via e ricongiungersi alla sua progenie interstellare.

    Si scostò.

    – Niente, non ho niente.

    Imboccò le scale e prese a scendere di corsa.

    – Sei scemo o cosa? – la sentì urlare.

    Giunto in fondo avvertì il panico montare, stava rovinando tutto: si appoggiò alla parete e non si mosse, finché Amina non lo raggiunse.

    Senza rispondere, Tommaso si forzò a ripartire e Amina lo seguì, restando di poco indietro, come aveva fatto per tutto il pomeriggio.

    *

    I rimbalzi a canestro erano la sua specialità. Pietro era determinato a usare il suo metro e ottantacinque per farsi strada. Si allenava da solo al campetto, lanciava il pallone contro il tabellone per migliorare nel tempo e nell’elevazione, morso dalla paura di non crescere più, di non restare il più alto di tutti. Era riuscito ad arrivare al terzo anno senza farsi bocciare né si reputava uno stupido, ma voleva brillare sotto canestro, quello era il suo posto, come Chiara brillava alla cattedra a ogni interrogazione. Chiara scioglieva i nodi di qualsiasi materia, lo incantava per la spavalderia con cui rispondeva a qualsiasi domanda. Era minuta, Chiara, alternativa a giudicare dai suoi vestiti: felpe e pantaloni larghi, le stesse scarpe di tela ai piedi tutto l’anno.

    Pietro evitava di parlarle per il terrore di sembrare stupido. Non sapeva di che colore avesse gli occhi, ma adorava i suoi capelli blu: condannato all’ultimo banco, la cercava nelle prime file, la osservava per calmarsi, quando stare a scuola gli era insopportabile, e aveva soltanto voglia di liberare le gambe dalla morsa in cui erano costrette.

    Di ritorno dal tabellone, la palla a spicchi interruppe la traiettoria prima del previsto, in altre mani.

    – Stai sempre qua.

    – Se mi vedi sempre qua, è perché anche tu sei sempre qua.

    Ivan era del quinto anno, meno alto di lui, però dotato di buona tecnica e robusto, difficile da spostare: un ottimo test nelle sfide uno contro uno.

    *

    Chiara esitava davanti alla porta. Con una mano teneva lo zaino pieno di libri, con l’altra reggeva un romanzo, l’indice tra le pagine per non perdere il segno della lettura.

    Non sarebbe entrata. Nei tre anniversari trascorsi dalla morte dei suoi genitori, Chiara e sua nonna avevano finito sempre per litigare.

    Per la prima commemorazione, la nonna aveva invitato amici e conoscenti, e Chiara aveva dovuto sopportare la falsa mestizia dei pettegoli: era sopravvissuta all’incidente, non voleva morire asfissiata dagli estranei.

    Al secondo anniversario, la nonna aveva preparato una cena speciale, ma Chiara si era presentata in preda alla sua prima sbornia, e aveva sbraitato maledizioni.

    L’anno successivo si erano rinfacciate di aver trascurato il ricordo, di aver smesso di celebrarlo, tanto che alcune amiche avevano invitato Chiara a un pigiama party nel giorno della ricorrenza: la loro tragedia famigliare non era più segnata in rosso nella memoria collettiva.

    La nonna, poi, aveva quel nome: Vita.

    Era come se quel disastro fosse incompatibile con la sua essenza, quella di chi riconosce la via della morte in modo inconsapevole e la evita, ma nulla può fare per salvare chi ama. Il rifiuto a salire sull’auto diretta all’Abetone, nonostante l’insistenza della nipotina, della figlia e del genero, aveva ragioni che andavano oltre la tremenda cervicale di cui aveva sofferto la notte prima.

    Anche quando era morto suo marito, Vita era rimasta a casa. Aveva ricevuto la chiamata dall’ospedale, dove Giorgio non era arrivato da solo. Doveva andare in bicicletta, testardo com’era, nonostante il caldo afoso e cinquant’anni di vene gonfie ai polpacci.

    Le aveva chiesto di pedalare insieme, come quando erano ragazzi. Lo faceva ogni volta: saliamo in cima, diceva, che su si respira aria buona. Giorgio la prendeva in giro, con gli occhi neri che sparivano quando sorrideva, i denti perfetti e finti, i capelli pettinati, nonostante il caschetto da indossare: sapeva benissimo che non ci sarebbe andata. Era successo con la maternità, da allora non l’aveva più seguito.

    E lei sapeva altrettanto bene che suo marito si sarebbe sentito sollevato dal non averla accanto per qualche ora.

    Giorgio, però, era stato altrove, e lei non aveva potuto rinfacciargli quella menzogna che durava chissà da quanto.

    Era morto tra le braccia di una sconosciuta, una di quelle si trovò a pensare, così appariscente, così diversa da lei.

    La donna le disse che, mentre il cuore gli scoppiava, aveva chiamato il suo nome; ma il suo nome, Vita, non era bastato.

    *

    Giunsero per inerzia alla piazza davanti al teatro Manzoni. Sotto l’ampio pergolato, in una serata spensierata dello scorso settembre, Tommaso e Amina avevano riso fino alle lacrime scambiandosi commenti sul pubblico all’ingresso: la donna ninja, scheletrica, col viso nascosto; la signora troppo elegante e la sua amica troppo dimessa; l’intellettuale coi risvolti che si guardava intorno con ostentata noncuranza; la fricchettona bardata di petali e campanelli che sperava di essere notata. Li avevano dimenticati tutti. Sedettero sulla spalliera della solita panchina con gli occhi bassi, in un silenzio difficile da arginare.

    *

    Pietro inventò una finta e lanciò la palla verso il cesto con un balzo in sospensione, le braccia perpendicolari al cielo. Ivan e il campo svanirono: Pietro spinse lo sguardo oltre le abitazioni, oltre i colli e le montagne pistoiesi, lontano fino a interrogare il futuro: cercò immagini di successo, titoli e interviste, un’anticipazione che potesse estirpare la paura di fallire, una tenia silenziosa. Tornò giù senza avere risposte, la palla attraversò il retino senza fare rumore, e Ivan chiese l’ennesima rivincita senza speranze, dopo aver imprecato.

    *

    – Pronto, Matteo?

    – Chiara, non dovresti chiamarmi in ufficio.

    – Allora rispondi al cellulare.

    – Ero al banco in sala lettura, niente suoneria. Tutto ok?

    – Non entro in quella casa, non stasera. Posso stare da te?

    – Eh, sta’ calma. Tua nonna che dice?

    – Posso dormire da te o no?

    – Non voglio problemi con lei. E sto per andare a uno spettacolo.

    – Vengo anch’io.

    – Non ti piace il teatro.

    – Paghi tu il biglietto, infatti.

    – Dove sei adesso?

    – Sono davanti a casa mia. Ti aspetto.

    – Non vengo a prenderti, ti ho detto che non voglio rogne con lei.

    – D’accordo.

    – Hai cenato?

    – No.

    – Chiarina sei uno strazio. Ti compro un panino.

    – Non ho fame.

    – Scordati l’ospitalità, allora.

    – Che palle. Va bene.

    – Chiudo e mi metto in macchina. Se non sei lì tra un quarto d’ora, io entro.

    – Vaffanculo, Matteo. Sto in monopattino.

    – Dieci minuti da adesso, via!

    *

    Amina l’aveva lasciato solo con la scusa di comprare una Coca. Tommaso aveva una gran voglia di fumare. Ogni tanto si rollava una canna, avevano anche provato insieme: seduti lungo la Brana, era stato romantico, ma lei non si era sentita bene, le era girata la testa ed era inciampata sbucciandosi un ginocchio. Si era sentito in colpa.

    Nel fumo Tommaso non cercava più l’euforia delle prime volte, come quando, dopo aver fumato nell’intervallo, gli era presa la ridarella in classe, e la prof gli aveva messo la nota più divertente della sua vita. Poche boccate lo rilassavano, il tempo fluiva oltre l’ansia del bilancio continuo: i voti insignificanti, l’inconsistenza delle giornate, la ritrosia con gli altri, e una specie di ragazza che non sapeva niente di lui.

    Intorno al pensiero di Amina si raccoglievano i suoi più tortuosi ragionamenti. La scomponeva e ricomponeva in migliaia di parole dette o taciute, inventava scenari di buoni propositi e si fustigava nella certezza di tradirli, di sbagliare a prescindere, per un difetto di fabbricazione, un DNA sgangherato.

    Nel fumo Tommaso riusciva a cedere il controllo, appagato o rassegnato, azzerava affanni e desideri, come chi ha già vinto o già perso tutto.

    *

    Concesse a Ivan di vincere per la prima volta e, come aveva previsto, quello si dileguò subito dopo il canestro risolutivo. Si era fatto tardi. Pietro corse a casa con le energie che gli erano rimaste e si precipitò nella doccia.

    Sua madre gli aveva estorto la promessa di accompagnarla a teatro: doveva presentargli qualcuno o qualcun altro, gli toccava pure vestirsi bene.

    La gelosia per gli uomini con cui usciva era sfumata quando si era reso conto di come nessuno durasse di più di qualche sera: il suo compito era imbastire frasi di circostanza e sorridere. Se sua madre lo portava a un appuntamento, era probabile che volesse accelerare l’ennesima chiusura, il figlio adolescente era di fatto un’ottima strategia di uscita. In quelle occasioni la mamma si mostrava fin troppo affettuosa, minava le certezze dell’allocco di turno destinando attenzioni e smancerie a quel ragazzotto bruno, già alto e ben messo, affinché risultasse più un rivale che un figlio. Pietro, comunque, era contento di quella messa in scena, perché poteva illudersi, per qualche ora, che lei lo amasse più di chiunque altro.

    Prima di uscire dalla doccia, rilassò i muscoli ancora tesi, abbandonò le braccia parallele al corpo. In una parentesi rituale di cui non poteva fare a meno, lasciava che l’acqua lo spingesse verso la terra: così restava immobile e placava ogni ansia.

    *

    Amina fece scorrere la lattina gelata sotto la felpa: le mancò il respiro, per calmarsi lei faceva così.

    La pelle nera era la lingua in cui talvolta sognava, ma che non parlava più; sapeva di essere chi era, ma non aveva rimpianto delle sue origini. C’era stata la guerra, o era stata solo una strage, non ricordava i suoi genitori: la Nigeria era per lei il recinto in cui stava con gli altri bambini, ammassati uno addosso all’altro ; senza lo spazio minimo per poter stare in piedi, nessuno sapeva camminare.

    Era stata adottata a tre anni. Era cresciuta con Simone, il suo fratellastro, nato pochi mesi dopo di lei, ma figlio sin dal principio. Amina si era imposta nel tempo il ruolo della figlia giudiziosa e responsabile; stabiliva ciò che aveva

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