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Possanza della luce
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E-book135 pagine1 ora

Possanza della luce

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Fantasy - romanzo breve (101 pagine) - Grauk Malacarne ha commesso due affronti irreparabili agli occhi degli orchi. Per prima cosa ha abbandonato il clan e poi ha creato la scrittura.
Tuttavia per lui non è un problema. Scopre che il silenzio e la pace della sua nuova dimora sono ciò che ha sempre desiderato. Fino a quando qualcuno non arriva a prenderlo...


Bernard Guyhaarm e la sua banda hanno ricevuto l’incarico di rapire un orco e portarlo vivo alla capitale, e quel solitario misantropo sembra proprio la preda giusta e la possibilità di intascare oro facile.

Alle porte della capitale, è il capitano Lukkar Montego a dover gestire l’arrivo di una strana compagine di personaggi con un carico segreto, che vorrebbero introdurre fra le mura. Il capo della banda ha in mano niente di meno che un lasciapassare del Consiglio, che impedisce ai Guardiani di perquisire il carro, in cui c’è qualcosa di vivo. Montego non è tipo da arrendersi e incarica tre orchetti di seguire il gruppo e vedere a chi verrà consegnato il carico.

La faccenda diventa più seria con la morte dei tre orchetti e una sorta di omertà che protegge qualcuno di molto influente. Il capitano non si dà per vinto e comincia le indagini fra maghi, bordelli e nobili, protetti dai più feroci guerrieri della nazione.

Arrivare al colpevole non sarà facile, dovrà allearsi col suo avversario, e riuscire a raccogliere prove inoppugnabili.


Umberto Maggesi è nato a Bologna l’11 novembre 1970. Vive a Milano dove svolge la professione di formatore e mental coach. Insegna e pratica Qwan Ki Do – arte marziale sino vietnamita. Appassionato di lettura e scrittura fin da bambino ha pubblicato vari romanzi con case editrici quali: Stampalternativa, Delos Books, Ugo Mursia, GDS edizioni.

Redattore del periodico dell’Unione Italiana Qwan Ki Do, ha collaborato per molti anni alla rivista di settore marziale Samurai.

Ha pubblicato numerosi racconti in riviste di settore come: Tam Tam, Inchiostro, Writers Magazine Italia, in tutte le storiche 365 racconti di Delos Books e in appendice al “Giallo Mondadori”.

LinguaItaliano
Data di uscita3 ott 2017
ISBN9788825403497
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    Anteprima del libro

    Possanza della luce - Umberto Maggesi

    9788825403268

    1

    Il cinghiale scattò in avanti, uscendo dal basso acquitrino. Si fermò usmando l’aria con le froge dilatate. La testa scattò a destra e a sinistra. Davanti ai suoi occhi si alzavano colonne di tenebra e nebbia. Arretrò di un paio di passi e si girò improvvisamente. Le pupille dilatate dalla paura. Sapeva che il pericolo era in agguato nella tenebra, ma non riusciva a capire dove fosse. L’animale saltò un tronco caduto, si avventurò su una delle poche zone asciutte della palude, con gli zoccoli raspò la morbida terra. L’olfatto catturava gli odori muschiati dell’acquitrino, non quello del predatore. Ma l’istinto gli diceva di tenere tutti i muscoli pronti, non rilassarsi. La tenebra lo stava guardando ed era pronta ad azzannare. Un basso mugghiare si liberò dalle zanne, un suono infelice che stava cedendo il passo al panico. Terrorizzato non si decideva per una direzione precisa, l’esperienza insegnava che era pericoloso fermarsi. La differenza fra vivere e morire.

    Grauk era accosciato nella melma.

    Immobile.

    Coi muscoli potenti pronti al balzo.

    Gli artigli desiderosi di colpire.

    Le zanne schiumanti di bava.

    Un orco in caccia.

    Gli occhi bucavano la notte, inquadrando la sagoma del cinghiale tremante di paura. Le volute di nebbia s’innalzavano dall’acquitrino accarezzandolo, entravano fra i peli confondendo il suo odore. Grauk ne poteva sentire il lievissimo fruscio con il suo straordinario udito. L’afrore del cinghiale inebriava i sensi. L’orco strinse gli artigli nel fango, espirò a lungo godendosi quegli istanti di calma apparente. Raccolse l’energia ereditata da secoli di dura selezione naturale, la costrinse nei muscoli tesi, duri come pietra.

    Il balzo dell’orco fu poco più che un sospiro nel vento. Dalla tenebra arrivarono artigli affilati, duri come diamanti. Denti aguzzi e taglienti, perfetti per sbranare. Il collo del cinghiale fu lacerato. La vita dell’animale spruzzò nella notte, perdendosi insieme agli squittii sempre più deboli. Zanne devastarono tessuto e carne. L’orco sbranò in rapidi e secchi colpi dei potenti muscoli del collo. Pochi istanti e la legge del più forte venne celebrata ancora una volta.

    Grauk ringhiò alla notte. Lontani coyote risposero in lunghi ululati.

    Poi l’orco depositò la preda a terra e si raccolse nel rituale del ringraziamento per chi si era immolato permettendogli di sopravvivere.

    Finita l’eccitazione della caccia, la palude tornò uguale a se stessa. Quella notte non aveva voglia di esplorare, nessuna passeggiata fra le nebbie, sotto gli sguardi delle lune. Tornò nella tana a consumare il pasto.

    Le zanne affondarono nella fibrosa carne del cinghiale. Una bava vischiosa accompagnava il masticare solitario di Grauk. Un masticare distratto, poco attento al sapore del cibo. Ultimamente la malinconia gli era spuntata nel petto come un fiore maligno. La casa che si era scavato non sembrava più tanto accogliente. Le pareti, rinforzate da grossi tronchi, parevano volerlo schiacciare. Neppure l’amata palude e gli esseri notturni che la abitavano, riuscivano più a dargli il conforto che aveva trovato in quegli anni. Addentò un altro pezzo di carne, immediatamente morse il vegetale dal sapore piccante. L’aveva scoperta lui quella radice, aromatizzava la carne dandogli un sapore deciso. Avrebbe voluto dirlo alla sua gente, tornare con quella scoperta che, seppur modesta, doveva valere qualcosa davanti agli occhi dei golosi. Ma lui non aveva più una gente a cui tornare.

    Spolpò l’osso con cattiveria, lavorando di zanne, stappando brani di muscolo e nervi, succhiando il midollo in modo da esaurire tutto il potere nutritivo. Ultimamente i cinghiali erano diminuiti, sospettava che fosse colpa sua. Mica erano animali stupidi, lo sapevano che era arrivato un nuovo predatore. Sparecchiò la tavola con una zampata. Gli insetti, rimasti in attesa fino a quel momento, emersero dalla terra approfittando di tanta grazia, intrufolandosi nelle ossa con zampe e antenne, saggiando i rimasugli, succhiando i minuscoli frustoli di carne che l’orco aveva lasciato.

    Grauk osservò le cortecce, non aveva voglia di incidere, e poi per chi? Aveva cominciato per noia, scoprendo come era facile infrangere le leggi quando la strada è già aperta.

    Prima abbandonare il clan.

    Poi mettersi a scrivere.

    Ai tempi della guerra aveva conosciuto tanti goblin, quando ancora erano alleati degli orchi, prima del tradimento. Con Tarik Sul Dimrik, aveva passato molti giorni di trincea, ai tempi del grande assedio dei clan. Quando la grande città degli uomini sembrava sul punto di crollare. Tarik scriveva continuamente, su grossi volumi di spessa carta. Non importava che fossero in mezzo al fango, in attesa dell’attacco o pronti a respingere il nemico. Tarik Sul Dimrik impugnava il suo stilo, intingendolo nell’inchiostro raccontava la sua guerra.

    – Perché scrivi tanto?

    Gli aveva domandato un giorno Grauk. Non lo infastidiva la blasfemia dell’atto. Era semplicemente curioso di capire per quale motivo, il goblin, si affaccendasse tanto, quando c’erano cose molto più importati da fare, tipo salvare la pellaccia.

    – Abbiamo vite corte, sbuffi nel vento dell’eternità. Scrivere è come lasciare un po’ di noi stessi in questo mondo, prima di ricongiungerci alla Forza Creatrice. Io morirò, se non sarà per un’arma nemica sarà per la vecchiaia. Ma le mie parole rimarranno per chiunque le voglia leggere, sarà un po’ come essere ancora vivo.

    Per tanto tempo, quelle conversazioni, erano riecheggiate nella sua testa, soprattutto durante i solitari anni alla palude. Dal goblin si era fatto spiegare il mistero della scrittura, bene attento che altri orchi non sentissero. Ascoltava con attenzione, come un giovane scolaro desideroso di apprendere.

    – Non fai altro che dividere le parole della tua lingua in suoni semplici. Vedrai che sono sempre gli stessi che si ripetono. Inventi un simbolo per ogni suono, poi ricomponi le parole sulla carta e avrai la tua scrittura.

    L’orco aveva scoperto che non era proprio così semplice, ma lui aveva tempo e volontà. La palude di Fajguolath, che gli altri popoli chiamavano Lotloch, non offriva molte distrazioni. Giusto la tranquillità che lui cercava fuori dal clan, dove ogni cosa era lotta e prevaricazione. Aveva cominciato a tracciare segni nella terra, poi sulla corteccia. Legni appuntiti come stilo e sangue di rospo come inchiostro. Funzionava! Accidenti se funzionava! Era arrivato al punto di incidere con gli artigli i tronchi della sua casa. C’era scritta la storia di Grauk il Reietto, un tempo Grauk Malacarne, che una notte aveva messo un piede davanti all’altro, senza voltarsi, allontanandosi dalla tana del clan, per non far più ritorno. Quel ricordo contribuì a farlo sentire ancora più triste. Il fiore maligno della malinconia tornò a tormentarlo.

    Malinconia per cosa?

    Se lo era chiesto spesso in quelle ultime settimane. Del suo clan no di certo. Delle lotte per il cibo migliore o per le femmine più feconde ancora meno. Non era stato un gran combattente, anche per questo il suo soprannome: Malacarne, di chi ricava sempre i bocconi peggiori. Guerriero mediocre come migliaia di altri, il cui unico merito era stato portare a casa la pellaccia. Messo in ombra da suo padre, che aveva immolato la vita al bosco della mestizia, contro il terribile Trianoch.

    Con l’artiglio scrisse i simboli che costituivano la parola padre, rimirandoli con un senso di disagio.

    Aveva amato quella palude, fin dalla prima notte. I vapori che salivano dalle acque disegnando un tendaggio opalescente. Gli alberi malati e contorti, ultime propaggini della Foresta del Levante, reietti come lui. Sapeva esattamente dove i fiori di Salee dispiegavano i petali violacei. Il suo udito fine lo informava immediatamente quando, un incauto insetto, si posava sui loro pistilli chiari, per poi essere ingoiato dal famelico scatto della corolla.

    Si era scavato la casa a nord dell’acquitrino, vicino al braccio perdente del fiume Ahrruwatt. Forse lo chiamavano così perché rallentava la sua corsa dai monti, dilatandosi in un ampio delta che andava a impantanarsi nell’estesa palude di Fajguolath. Ma Grauk il Reietto aveva scoperto che la palude pullulava di vita, dai piccoli insetti che zampettavano sulle acque, ai grossi cinghiali che grufolavano. Anche di una meravigliosa singolarità: una luce pulsante che non faceva male all’orco, mandando i suoi bagliori dal fondo di uno dei tanti stagni che s’intersecavano senza soluzione di continuità. Sapeva che cosa era e sapeva anche che poteva essere molto pericolosa. Era da cose come quelle che erano usciti i goblin, gli elfi e altre creature sconosciute al loro mondo. Gli sciamani del clan raccontavano di un tempo quando gli orchi scorrazzavano per tutte le pianure e gli uomini se ne stavano rintanati sulle montagne.

    Una volta quel mondo era degli orchi, ben oltre il Mewhes e l’Ahrruwatt. Ora, le altre razze, avevano costretto i clan in una piccola zona di colline, cambiato i nomi alle terre, ai corsi d’acqua, avevano costruito città e scavato le montagne, persino deviato i corsi di alcuni fiumi. Spesso gli sciamani raccontavano di questi tempi, auspicando la Grande Rivalsa.

    Sicuramente alla Grande Rivalsa, lui non ci sarebbe stato.

    Grauk non era certo che avrebbe preferito trovare soltanto orchi sulla sua strada. Era incuriosito dalle altre genti, così come lo era stato per i goblin. Anche uomini, nani ed elfi risvegliavano il lui il

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