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La Madre
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E-book285 pagine3 ore

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Fantasy - romanzo (196 pagine) - Una nuova avventura di Lukkar Montego!


Dalle sperdute foreste del nord, un viaggiatore cammina per le strade del Nehar Emìon. L’aspetto di un ragazzo nasconde un guerriero formidabile, dalle abilità che soverchiano quelle umane. Vede al buio, può cambiare colore alla pelle e bloccare gli odori del proprio corpo. Si muove a velocità impossibile e può cambiare aspetto in pochi momenti. Da dove arriva questo essere che chiama sé stesso Figlio? È una creatura naturale o il risultato dell’intenzione di qualcuno?

Lui non si fa tante domande, ha una missione da compiere e un’urgenza che gli brucia nelle vene. Tutto ciò che si frappone nel mezzo è solo un ostacolo da eliminare.

Nel frattempo, Lukkar Montego ha ottenuto il grado di maresciallo. Ora può iniziare a lavorare per il progetto che ha nell’animo, cioè costituire una squadra speciale di Guardiani, con la partecipazione di maghi e sacerdoti. Per combattere ad armi pari la magia e gli esseri che abitano il Piano spirituale.

Ancora una volta Montego si troverà dilaniato fra il proprio dovere e la coscienza. Tra la legge e la comprensione che ogni essere merita. Ancora una volta dovrà cercare di destreggiarsi fra le trame dei potenti.


Umberto Maggesi è nato a Bologna l’11 novembre 1970. Vive a Milano dove lavora come counselor e coach Insegna e pratica Qwan Ki Do – arte marziale sino-vietnamita. Ha pubblicato vari romanzi con case editrici quali: Stampalternativa, Delos Digital, Ugo Mursia. Ha pubblicato vari racconti in riviste di settore come Tam Tam, Inchiostro, Writers Magazine, e in appendice al Giallo Mondadori.

LinguaItaliano
Data di uscita29 set 2020
ISBN9788825413120
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    Anteprima del libro

    La Madre - Umberto Maggesi

    9788825411362

    Prigionia

    Fine stagione Anziano/Saggio (piovosa autunno)

    periodo dell’orso 1356 d.f.c.

    Ancora una volta spinse la percezione oltre i vincoli magici.

    Ancora una volta, la barriera eretta dai glifi, bloccò il suo tentativo.

    Era stato frustrante per tutti gli anni di prigionia. Era angosciante, ora che lui era fuggito.

    Era fuggito?

    Era riuscito a superare gli artifici del maledetto mago? Le bestie di cui si circondava?

    Non aveva modo di saperlo, se non per la punizione che sarebbe arrivata dal suo carceriere.

    Non aveva idea di che Mondo fosse quello dove aveva mandato il Figlio. I glifi impedivano alla Visione di espandersi.

    Che crudele ironia, per chi aveva avuto tutta l’Esistenza a sua disposizione.

    Ne aveva conosciuti di Mondi, centinaia di migliaia. Molti pericolosi. Tutti con qualche insidia nascosta. Alcuni impregnati del potere di spiriti oscuri, da cui si teneva alla larga persino lei. Spiriti oscuri che donavano ai propri fedeli odio, guerra e dolore.

    I mortali che l’avevano venerata erano stati ricambiati con prosperità, crescita e abbondanza. I suoi nomi erano vibrati nella Rete che Tutto Unisce di Mondo in Mondo, facendo di lei uno degli spiriti più potenti dell’Esistenza.

    Grande Madre.

    Progenitrice.

    Cibele.

    Nemianaar.

    Clothes.

    Ištar.

    Minallea.

    Paqua.

    Amaterasu-ō-mi-kami.

    Demetra.

    Saokkan.

    Asase Ya.

    Maria Vergine.

    Tugha.

    Al-'Uzza.

    Kerres e migliaia di altri.

    Negli anni di prigionia aveva ripetuto ossessivamente i suoi molti nomi, come un mantra apotropaico che l’avrebbe tenuta legata alla sua vera vita.

    Aveva rivissuto i rituali con cui i mortali l’adoravano, sia come Creatrice che come Distruttrice.

    Non c’è nascita senza morte.

    L’Esistenza oscilla fra i due estremi. Nel mezzo la vita.

    Costruzioni erette in suo onore. Maestosi templi in pietra e piccoli boschi pieni di vita. Folle oceaniche che la celebravano e piccole comunità raccolte intorno a un altare. Qualcuno offrendo i frutti della natura, altri compiendo sacrifici.

    Creazione e distruzione.

    Lei accoglieva tutto, benedicendo i fedeli con raccolti abbondanti e prole numerosa. Ah, la bellezza della vita che si spiega nelle sue forme! Miliardi di miliardi di forme. In un’esistenza lunga come la sua non era riuscita a vederle tutte.

    A volte sognava che, tutti i mondi dell’Esistenza, sarebbero morti senza di lei. Ogni fiore seccato. Ogni pianta privata della forza per crescere. Ogni creatura resa sterile.

    Sapeva che non sarebbe andata così. Quello era ciò che raccontava agli esseri mortali che l’adoravano.

    Più facile che sarebbe seccata lei, imprigionata in quella stanza.

    Recisa dalla Rete che Tutto Unisce, allontanata dalla fede dei suoi, già si sentiva più debole e precaria. Eoni di una vita meravigliosa, al servizio della creazione, finita in quell’angusta stanza.

    Sentì il vuoto che si apriva dentro. Il dolore per la prigionia l’aveva inizialmente riempita di furia, poi disperazione, ora solo un grande vuoto. Un enorme niente dentro cui rischiava di precipitare annullandosi completamente. Solo il pensiero della sua creatura la salvava. La speranza…

    La presenza dell’Aguzzino la distrasse dai suoi pensieri. Il volto deformato dalla collera e le urla, provarono che lui era riuscito a fuggire.

    Se avesse avuto forma fisica il sollievo si sarebbe letto sul volto.

    Il mago urlò accusandola e chiedendole come avevano fatto. Rimase in silenzio. Non comunicava con lui da… non sapeva da quanto. Il tempo non aveva mai significato molto nella sua esistenza. Aveva provato a implorare, minacciare, far ragionare. Nulla. L’Aguzzino aveva i suoi scopi e lei era il mezzo.

    Ancora urla. Nessuna reazione. L’uomo annuì e fece un movimento vago, quasi con tedio.

    L’agonia la sommerse, riempiendo la sua essenza, i ricordi e i sentimenti. Fu sparpagliata in mille frammenti, affondati in un immenso dolore.

    1

    Strisciò fra le piante del giardino, verso il muro grigio che aveva circondato la sua vita da quando era nato.

    All’udire un fruscio si immobilizzò. I tre spicchi di lune erano coperti dalle nubi. Il ragazzo penetrò il buio, trasformando il Mondo in scintillanti cromie di verde. Il piccolo scoiattolo voltò la testa puntandogli due occhi bianchi addosso, poi si girò indifferente.

    Non lo sentiva. Non poteva nemmeno cogliere il suo odore. Il ragazzo aveva bloccato la sudorazione e respirava talmente piano che il petto non si muoveva quasi.

    Scattò veloce correndo nel piccolo corridoio formato da muro e piante. La parete era alta quattro volte un uomo, interrotta da glifi di potere che rilucevano alla luce lunare. Bave di mana serpeggiavano, come velenosi rampicanti.

    Ricordava bene la fine che aveva fatto Sereck. Il semiorco, poco avvezzo alla prigionia e intollerante alle punizioni dell’Aguzzino, aveva cercato di fuggire.

    I glifi avevano consumato la sua pelle, sciogliendola come cera e lasciandolo agonizzante a morire, con le viscere esposte.

    Scartò quelle immagini e aumentò la corsa tenendo il muro a sinistra. Il vento soffiava forte nelle orecchie scompigliandogli i capelli. I glifi si animavano al suo avvicinarsi per poi tornare quieti. Sentinelle di morte che non dormivano mai. Sopra la sua testa lunghi rostri neri sembravano attenderlo. Aumentò ancora la corsa. Il vento fischiava fastidiosamente. Irrigidì i timpani abbassando il rumore, poi improvviso saltò di lato piantando i piedi su un tronco, rimbalzando poi contro il muro. I glifi si attivarono pronti, ma l’incantesimo fuggì da lui perdendosi nel nulla. Di nuovo contro l’albero, spinse sul ramo e poi si lanciò verso l’esterno. I rostri acuminati passarono a due dita dal suo ventre. I glifi brillarono cromie di morte, estroflettendo bave di mana che si logorarono intorno al suo corpo. Rotolò giù dal pendio rimbalzando contro sassi, radici e rovi. Lasciò che il piano inclinato lo portasse lontano dalla Dimora, fino a un avvallamento ricoperto di foglie marce.

    Era fuori!

    Controllò la sacca che aveva sulla schiena. Le cinghie tenevano e il metallo all’interno non faceva il minimo tintinnio.

    Si alzò guardandosi intorno.

    L’assenza dei muri gli provocò una vertigine. Respirò a fondo l’aria grigia. Sembrava diversa da quella nella Dimora. Più fresca, rigenerante. Respirò a pieni polmoni, rilasciando i timpani e cogliendo i rumori degl’infiniti abitanti dei boschi.

    Poi l’orizzonte s’incendiò.

    Non aveva mai visto nascere un’alba. I muri della sua vita gli avevano precluso quella meraviglia. Cromie dapprima viola scivolarono nel rosso arancio e giallo, accendendo le nuvole, rifrangendosi sulle cime degli alberi e tinteggiando il cielo. Restò immobile bevendo ogni goccia di quello spettacolo. Poi apparve il secondo sole, contornato da un’aura rosata. I colori s’incrociavano, si dividevano, si fondevano in cromie elaborate. Allargò le pupille, arrampicandosi su diversi spettri d’onda. Nuovi colori e disegni su quella meravigliosa tavolozza. Una parte della sua mente si accorse che stava piangendo, ma non di dolore, non di tristezza. Lacrime strane, portate da un’immensa emozione benefica che gli riscaldava il petto.

    Possibile piangere di gioia? La Madre avrebbe avuto la risposta.

    Improvvisi i ringhi dei mannari lo riportarono alla realtà. Iniziò a correre tenendo l’alba a sinistra. Non avrebbero sentito il suo odore. Aumentò la sensibilità dei timpani e miriadi di suoni gli riempirono la mente. Fra tutti il frusciare dei corpi delle belve contro gli alberi. I colpi unghiuti degli artigli nel terreno. Insieme al ringhiare sommesso, l’usmare del cacciatore frugava fra gli alberi.

    I mannari erano feroci, ma stupidi. Una delle prime creature che aveva sconfitto nell’Arena.

    Il bosco che scorreva intorno a lui era di una bellezza da togliere il fiato. Non se ne vedeva la fine, in estensione e anche nei particolari di ogni foglia e corteccia, di ogni pianta e filo d’erba.

    Sedersi a contemplare tutta quella meraviglia! Sì, un sogno.

    Ma non poteva. L’Aguzzino si sarebbe vendicato su di lei, lo sapevano entrambi. Fino a quando lui non fosse tornato a salvarla, l’avrebbe torturata.

    Tuttavia, l’occhio indugiava sui vasti campi fioriti, che avevano preso il posto dei boschi. Lanciava lo sguardo su spazi cui non era abituato. Una delizia. Le file di corolle addormentate si perdevano in fughe prospettiche. Stormi d’insetti dalle lunghe ali trasparenti, che baluginavano in verdi e viola, celebravano la libertà in voli radenti. Dalla nascita la Dimora era stata tutto il suo mondo. La Madre l’unico rifugio e la sola speranza.

    Incontrò un torrente e prese a correre insieme all’acqua, verso la pianura, verso le grandi città.

    – Ci sono certamente dei maghi, in questo Mondo – le aveva ripetuto più volte Lei. – Lui li teme, ha fatto di tutto per nascondersi a loro. Cercali e fatti aiutare.

    Il paesaggio si aprì su erba verdissima che s’innalzava in numerose alture tondeggianti.

    Proseguì meravigliandosi di ogni filo d’erba, fiore, bacca e foglia.

    File regolari di vegetazione, arrampicate su piccoli pali, correvano su dolci declivi. Le foglie erano larghe, seghettate ai lati. I frutti, di un rosso scuro, riuniti in grappoli.

    Rallentò il passo guardandosi intorno. I soli avevano raggiunto l’apice del cielo. I suoni dei mannari si erano persi velocemente fra gli alberi. Le stupide bestie erano cieche senza un odore da seguire. Si voltò indietro. La nostalgia gli strinse il cuore, strizzando gocce di dubbio. Non certo per la Dimora o l’Aguzzino, ma per Lei.

    Se non l’avesse più rivista?

    No!

    Il maledetto non l’avrebbe estinta, su questo era certo. L’avrebbe torturata con i suoi glifi di dolore, ma non estinta. Gli serviva, come gli era servito lui.

    Fra la vegetazione ci fu un movimento. Si accovacciò dietro a un cespuglio. La pelle virò al verde scuro. L’esatta tonalità della vegetazione alle sue spalle.

    Due umani. Uno alto e l’altro piccolo. Tastavano i frutti e parlavano fra loro. Non capiva cosa dicessero, ma il tono era tranquillo, nessun allarme.

    Prima esigenza: imparare la lingua. Avrebbe dovuto interagire con la popolazione. Fare domande. Imparare.

    Silenzioso pedinò i due, tendendo le orecchie e assimilando quella ridda di suoni senza significato.

    Con il procedere della giornata arrivarono altri esseri. Alcuni piccoli e squamosi con grandi orecchie triangolari. Goblin. Ne aveva visti e combattuti alla Dimora. Invece i piccoli esseri pelosi dal muso nero, simile ai maiali che i servi allevavano per l’Aguzzino, non li aveva mai visti.

    Raccoglievano i frutti deponendoli in grossi contenitori di fibre intrecciate. Stagione di raccolta. La Madre gli aveva spiegato molto bene il ciclo della vita. La Madre era la vita stessa in ogni cosa che nasce e cresce.

    Assaggiò qualche chicco, mentre scivolava lontano da occhi indiscreti. Dolci e succosi. Si accorse di avere sete e staccò un grappolo gustandolo con calma.

    – Salve…

    Disse un umano a uno dei piccoli pelosi.

    Ora distingueva quella forma di saluto. Usavano anche stringersi una mano. Ma non lo facevano sempre, per cui non aveva ancora colto a pieno il significato di quel gesto.

    – Sa…salve – ripeté in un sussurro. Durante la giornata osservò, ascoltò e imparò tante parole.

    Muoviti! Detto con un tono alto e perentorio, significava fare il lavoro più velocemente.

    Uva. Era il frutto che lo circondava. Rosso scuro e verde. Il primo coltivato nella parte bassa dell’altura. Il secondo sulla sommità.

    Ceste. I contenitori dove depositavano i frutti.

    Pianta, terra, falcetto, prendere, lasciare, tagliare…

    I soli erano quasi al declino. L’aria si stava facendo fredda e gli esseri si allontanavano dal raccolto.

    Scivolò dalla parte opposta, fino a un albero le cui radici sarebbero state un perfetto riparo per la notte. Il pensiero di lei torturata venne a molestarlo. L’urgenza gli pungolava il cuore, ma era una pessima consigliera. Lui era la sua unica speranza, non poteva commettere errori. Espirò piano rallentando i battiti del cuore. La cute si era fatta color del legno, radice in mezzo ad altre radici. Chiuse gli occhi e cominciò a ripetere le parole che aveva imparato.

    2

    La prima sensazione fu il vento sulla pelle. La seconda lo spazio enorme dietro le palpebre.

    Non era nella sua cella!

    Profumi s’intersecavano a profumi. Cinguettare d’uccelli rifrangeva sullo stormire delle foglie. Zampettii e fruscii, batter di becco e strusciare di unghie su rami.

    Aprì gli occhi su un mondo grigio ed enorme. I ricordi arrivarono improvvisi, insieme alla nostalgia.

    – Madre.

    Fu un sussurro, timida evocazione apotropaica che avrebbe dovuto guarire il dolore.

    Non funzionò.

    Si alzò scrollando foglie e terra dal corpo. La pelle ritornò al consueto colore. S’immerse in un piccolo torrente per togliere le ultime bave di sonno e la sporcizia, facendo attenzione che la sacca non si bagnasse.

    Il giorno si aprì nel suo spettacolo quotidiano.

    Fra i tronchi sfolgorava un fuoco maestoso. Folgori rosse, arancioni e gialle che, come lance, penetravano fra gli alberi. Uscì dal bosco a osservare quella meraviglia.

    L’orizzonte era talmente enorme da fare male. Talmente colorato da togliere il respiro. Il primo sole era già emerso. L’altro, grande un terzo, sporgeva per meno della metà, proiettava un’aura violetta che andò a infilarsi fra le lance. Il viola danzò come un drappo nel vento, mentre il rosso e l’arancione cedevano posto al giallo. Aspettò che il cielo diventasse azzurro, con la bocca aperta e gli occhi sgranati.

    Poi il senso di colpa bastonò il cuore!

    Stava perdendo tempo!

    Ritornò alle coltivazioni del giorno prima.

    – Uva… – disse. – Uva rossa e uva verde. – Annuì ripercorrendo ciò che aveva imparato. – Salve… ceste… muoviti…

    Quella cantilena calmò il dolore. Continuò ad avanzare tra i filari, sfuggendo gli esseri che arrivavano per continuare il raccolto.

    Procedette tenendo l’alba a sinistra, fino alle prime costruzioni. Piccole case di tronchi, con tetti ricavati da pietre piatte. Le visioni della Madre gli avevano mostrato l’opera degli esseri mortali. Per lo più i templi costruiti in suo onore, ma anche i molti tipi di abitazioni che costruivano per difendersi dagli elementi.

    Osservò gli esseri intenti nelle loro faccende. Un goblin affilava la sua falce, un altro era intento a intrecciare una cesta, una femmina umana stava pulendo dei vegetali, da una casa proveniva un raschiare ritmico. Le voci s’incrociavano sopra i rumori.

    Ascoltò quella lingua, sempre meno aliena, restando fra i filari di uva. Più avanti, le case raggruppate pulsavano di vita. Abitanti che andavano e venivano per le strade, impegnati in mille faccende di cui ignorava il significato.

    Avvicinarsi di giorno era rischioso e poi aveva bisogno di quelle cose che si mettevano i mortali.

    – Abiti. – Ricordò una conversazione con la Madre, quando ancora era un cucciolo. – Si indossano per il freddo, ma anche per piacere.

    – Che piacere? – Aveva domandato lui. Le uniche cose che conosceva erano la nudità, o le protezioni che l’Aguzzino gli faceva indossare durante i combattimenti.

    – Non lo so Figlio. Lo chiederai tu stesso a loro.

    La Madre aveva fatto tutto ciò che era in suo potere.

    – Dovrai imparare Figlio. Un giorno alla volta. Imparare la lingue e i modi di questi popoli. Confonderti con loro e trovare i maghi.

    Si avvicinò alla città quella sera stessa, frusciando fra le ombre. Osservò il via vai sulle strade e il bisogno di torce che quegli umani, dalla vista limitata, erano costretti ad accendere. Assorbì conversazioni e nuove parole.

    Si acquattò dietro una casa. Gli abitanti sostavano a chiacchierare in piccoli capannelli. Quando il buio divenne più fitto la gente rientrò nelle rispettive abitazioni. La poca luce filtrava dalle finestre e dagl’interstizi delle porte. Restando fra le ombre più scure si avventurò sbirciando nell’intimità di quella gente. Notò che, all’interno delle dimore, le razze rimanevano distinte. Mangiavano o si scaldavano davanti al fuoco. Qualcuno leggeva grossi libri o faceva musica con strumenti bizzarri. Quei suoni non poteva competere con le meravigliose melodie che la Madre gli cantava nella Dimora.

    Si procurò una camicia, pantaloni e giacchetto. Per le scarpe fu più complicato. Le trovò della sua misura la sera successiva. Aveva imparato molte altre cose nel frattempo. La città si chiamava Setturnio e l’uva, oltre che mangiata, veniva pestata estraendone il succo che mettevano in botti di legno.

    Il mattino del terzo giorno fece il suo ingresso a Setturnio. Il nome della città era inciso su un monumento all’inizio della via principale. Osservò con attenzione i simboli, presto avrebbe imparato a leggere e scrivere.

    Nel centro della cittadina c’erano costruzioni con porte aperte e con porte chiuse. Qualcuna aveva dei tavoli all’esterno, ricoperti da… oggetti. La gente li osservava, a volte li prendeva in mano. La creatura che stava dall’altra parte del bancone lanciava occhiate alle mani, sguardi intorno. Avevano paura di essere derubati! Comprese che si aspettavano un compenso per quegli oggetti. La Madre gli aveva raccontato di questa usanza. Il denaro! Per questo aveva violato la cassaforte dell’Aguzzino. La borsa era assicurata a un fianco, al modo dei villici.

    Percorse la via principale curiosando e ascoltando.

    – … st’anno una vera sciagura. Ho tre filari compromessi!

    – Le viti sono in pericolo, quella merda dei druid non funziona.

    – È un insetto balordo, duro a morire.

    Le viti erano le piante, da cui nasceva l’uva. Il cibo di cui si era nutrito in quei giorni, insieme a un frutto protetto da un guscio duro che i villici chiamavano noce. Desiderava della carne e il naso lo condusse al posto giusto. Fece un lungo respiro ed entrò.

    Osservò la sala, i tavoli, le sedie e le cinque persone sedute. Tre a un tavolo. Uno verso il fondo, in ombra. L’ultimo a un lungo banco, teneva la testa ciondoloni e lo fissò di sbieco con occhi vitrei, deturpati da venuzze rosse e collassate.

    Si avvicinò fissando il grosso umano che maneggiava caraffe, boccali e piccole botti. Sperò di non commettere errori che avrebbero precluso la missione. Non gl’importava di morire, ma non poteva lasciare la Madre in mano all’Aguzzino.

    3

    – Salve! Del cibo, per favore.

    Aveva notato che, se si utilizzava una cerca cortesia, si otteneva più collaborazione.

    – Che cibo? – rispose quello, evidentemente infastidito.

    Aveva sbagliato qualcosa, ma non sapeva cosa.

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