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Il Nastro di Sanchez
Il Nastro di Sanchez
Il Nastro di Sanchez
E-book413 pagine5 ore

Il Nastro di Sanchez

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Info su questo ebook

Fantascienza - romanzo (285 pagine) - Due mondi, due modi di essere, due sfide che lo costringeranno ad affrontare i propri limiti.
Romanzo finalista al premio Urania


La vita di Marco non era esattamente piena di soddisfazioni. La fidanzata l'aveva mollato, il motorino glielo avevano bruciato, il computer non dava più segni di vita. E il lavoro, quello di dog sitter, non è che offrisse molte prospettive. Sarebbe stato normale, per uno come Marco, sognare una vita diversa. Ma nel modo in cui la sognava Marco non c'era molto di normale: su un altro mondo, un mondo alieno, con un altro nome, e soprattutto con un paio di ali con cui librarsi nel cielo.

Ma il sogno non poteva durare per sempre. Prima o poi sarebbe arrivato il momento della scelta, avrebbe dovuto decidere se tornare per sempre sulla Terra o restare là, in quell'altro posto. E rinunciare anche alle poche cose davvero belle che la vita gli aveva offerto.


Giovanna Repetto, nata a Genova e residente a Roma, è psicologa e psicoterapeuta.

È redattrice della storica rivista letteraria online Il Paradiso degli Orchi fin dalla sua fondazione.

Ha pubblicato per Moby Dick i romanzi La banda di Boscobruno (1999, premio Selezione Bancarellino), Palude, abbracciami! (2000, premio Navile Città di Bologna). La gente immobiliare (2002) e Cartoline da Marsiglia (2004), e per Gargoyle L'alibi della vittima (2014). Col romanzo Il nastro di Sanchez è arrivata in finale al Premio Urania.

LinguaItaliano
Data di uscita2 mag 2017
ISBN9788825401936
Il Nastro di Sanchez

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    Anteprima del libro

    Il Nastro di Sanchez - Giovanna Repetto

    9788825409406

    I

    Contemplava dall’alto la vallata respirando a pieni polmoni, con un senso di gioia e libertà. In piedi su una minuscola sporgenza, con la schiena appoggiata alla roccia ripida, si trovava nel più alto punto accessibile del Picco del Desiderio.

    Le due piccole lune inondavano di splendore il paesaggio notturno. Fra poco sarebbe sorta la terza, più grande e nitida, spandendo per il cielo una luce quasi diurna.

    A ogni respiro Halcon assaporava la vitalità che gli scorreva nelle vene. Il lieve fremito che gli percorreva la pelle della schiena, simile a un prurito, gli preannunciava lo sbocciare ormai prossimo delle ali. Fra pochi giorni avrebbe potuto planare da quella stessa roccia abbandonandosi alla carezza del vento.

    Così avrebbe raggiunto la completezza. Sarebbe stato pronto per il dono che Zio Farfalla stava preparando per lui.

    – Ti darò una bellissima sposa – gli aveva detto.

    – Chi è? Posso vederla?

    – Non ancora. È troppo giovane, ma presto maturerà e sarà pronta.

    – Ma lei… lei mi vorrà?

    – Ti vorrà, certo. Perché la bellezza cerca la bellezza. E insieme raggiungerete la perfezione.

    In lontananza vedeva scorrere il fiume fosforescente. La sua ansa più ampia abbracciava un prato scuro su cui brillava uno sciame di punti colorati in perenne movimento: era la valle delle Meduse Volanti. Poco prima dell’alba i Cacciatori avrebbero teso le loro reti per catturarne un buon numero.

    Un suono melodioso e scampanellante riempì l’aria. Proprio sotto di lui, alla base della rupe, stava passando un Cespuglio Danzante. Si sporse leggermente per vedere quel groviglio di fili incandescenti che rotolavano intrecciandosi e dipanandosi in infinite forme. Il canto si affievolì man mano che il cespuglio si allontanava schizzando lampi di luce fra le ombre della valle.

    Sono felice, pensò. I desideri che ancora non aveva realizzato abbellivano il suo futuro.

    Proprio all’apice di quella pienezza si sentì spossato. Ecco che il solito languore lo invadeva, faceva tremolare i muscoli, gli affievoliva il respiro. Come sempre a quel punto, gli parve di essere prossimo a morire.

    Cercò con gli occhi un appiglio che gli desse sollievo. In lontananza la colata di lava che perennemente scendeva lungo il fianco del Vecchio Brontolone gli offrì il suo luccichio rossastro venato da guizzi blu. La posizione in cui si trovava, con i piedi ben poggiati sulla sporgenza e la schiena incastonata nella roccia, gli dava sicurezza, e si abbandonò senza timore a una breve perdita di conoscenza.

    1

    Quasi distrusse la sveglia mentre tentava di spegnerla con una manata. O forse la spense mentre tentava di distruggerla. Le intenzioni del mattino non sono mai così chiare.

    Aveva già suonato, probabilmente. Era programmata per reiterati tentativi.

    Lo aspettava una giornata piena. Marco lasciò scorrere l’acqua della doccia per darle il tempo di scaldarsi. Quando ci si buttò sotto era ghiacciata. Schizzò fuori imprecando prima di ricordarsi che gli avevano tagliato il gas. Colpa di quella bolletta astronomica, sballata, che non era riuscito a far correggere in tempo e che non aveva potuto pagare.

    Si lavò e asciugò sommariamente. Infilò i jeans e una maglietta pulita, continuando a borbottare fra sé. Lo specchio gli rivelò la presenza di un brufolo disgustoso sulla punta del naso. Per farsi la barba non c’era tempo, e nemmeno bisogno. I suoi clienti non erano schizzinosi. Piuttosto esigenti sull’orario, questo sì.

    Dedicò la prima visita alla volpina bianca, per togliersi il pensiero. La sentiva abbaiare già dalle scale, con la sua vocetta isterica, mentre si preparava ad accoglierlo con cipiglio feroce. L’antipatia era reciproca e insanabile. L’abbrancò senza tanti complimenti, le infilò il guinzaglio e la portò giù sottobraccio per fare più presto. Per fortuna le femmine non hanno tanto bisogno di marcare il territorio, ma la deontologia professionale lo spinse a farle fare un minimo di passeggiata. Dopo tutto lo pagavano per questo.

    Gli altri cani del giro erano più amichevoli, e qualcuno anche abbastanza simpatico da indurlo a giocarci un po’. Qualche volta aveva provato a portarne fuori due o tre insieme, ma c’erano sempre state baruffe e imprevisti d’ogni genere.

    Lasciava i gatti per ultimi, perché non avevano bisogno di uscire. Con loro aveva imparato a distribuire croccantini e pulire lettiere alla velocità della luce. L’allenamento serve, dopo tutto.

    Chiedeva cinque euro per ogni gatto, dieci per i cani, venti se erano grossi e impegnativi. In passato aveva provato ad alzare le tariffe, ma era stato costretto a ridimensionarle dopo aver perso qualche cliente. Portava in tasca un mazzo di chiavi di proporzioni mostruose. Meglio così, perché voleva dire che era riuscito a procurarsi un bel giro. Alcuni lavori erano occasionali, per chi lasciava gli animali partendo per un viaggio. Altri li lasciavano ogni giorno per andare al lavoro, e avevano un abbonamento forfettario. A volte era necessario anche un giro pomeridiano, e in quel caso faceva uno sconto.

    Preferiva lavorare nel quartiere, specialmente da quando un fottuto piromane gli aveva incendiato il motorino lasciandolo senza mezzi di trasporto propri.

    Il mastino era addestrato, per fortuna, altrimenti non avrebbe saputo come tenerlo a freno. Purtroppo non c’era alcun tipo di addestramento che gli impedisse di depositare ogni volta una montagna di feci. Perché non ne tieni un po’ per il tuo padrone, borbottava Marco mentre lavorava con la paletta. Ormai si accorgeva di essere ripetitivo come un vecchio brontolone.

    Cercava di sbrigarsi, schivando grane e contrattempi, per tornare presto a casa dove doveva inoltrare il suo curriculum a una dozzina di nuovi siti. Poi si ricordò che il computer gli si era impallato il giorno prima, e non aveva più dato segni di vita.

    II

    – Zio Farfalla, tu…

    – Non riesci proprio a chiamarmi col mio nome?

    L’aveva raggiunto sul Picco del Desiderio, planando sulle ampie ali. Non doveva fare, beato lui, la fatica di arrampicarsi.

    – Mi viene più naturale chiamarti così. Che male c’è?

    Hombre, tu fai sempre come vuoi.

    C’era un blando rimprovero, ma forse anche compiacimento per la cocciutaggine con cui gli teneva testa.

    Era sorta la Terza Luna, nel frattempo, e la volta del cielo splendeva meravigliosamente.

    – Tu – continuò Halcon, vuoi darmi una sposa. Ma una sposa per te non ce l’hai?

    L’alato scoppiò a ridere, poi alzò le spalle con un leggero fremito delle ali. Erano morbide e membranose, munite di viticci che durante il volo si attorcigliavano intorno ai polsi e ai gomiti, formando un corpo unico con le braccia.

    – Io ci ho provato, chico, più di una volta. Ma non è andata bene.

    – Perché non è andata?

    – Ero troppo inesperto.

    – E adesso?

    – Uhm… chissà. Mañana, forse.

    Lo zio parlava sempre così, con un linguaggio che mescolava parole diverse.

    Quien sabe? – mormorò ancora fra sé.

    Era un bell’uomo, con i capelli neri e gli occhi scuri che sembravano osservare il mondo da abissali profondità. Le ali che gli partivano dal centro della schiena gli davano un aspetto imponente. Quando poi si levava in volo c’era da rimanere a bocca aperta.

    A bruciapelo gli rivolse un’altra domanda.

    – La mia sposa ha le ali?

    Lo zio rise di nuovo, questa volta con malizia. Si era appollaiato su uno sperone di roccia poco più in alto di lui, con le ginocchia rannicchiate contro il petto.

    – Sei impaziente di vederla, vero? Certo che ha le ali. Anzi, le avrà presto. Quando le vostre ali saranno grandi e forti potrete compiere il vostro volo nuziale.

    – Volo nuziale?

    Halcon si sentiva pieno di eccitazione, ma anche contrariato dall’idea di dover attendere.

    – Quanto tempo ci vorrà?

    – Come posso prevederlo? Si vedrà quando sarete pronti.

    Era esasperante quel modo vago di promettere e anticipare eventi futuri, meravigliosi quanto indefiniti.

    – Sarà meglio rientrare – disse lo zio cominciando a sgranchirsi le gambe. – Tra poco è l’ora della comida. Non hai fame?

    – Non so. Poco fa mi sentivo così debole.

    – E ora?

    – Sto bene, ora. Mi sono ripreso.

    – Ahi ahi! Guarda cosa sta arrivando!

    L’attrazione della Terza Luna aveva smosso i grappoli della Bella Ridente, giù nella valle, e ora le bolle iridate veleggiavano trasportate dal vento.

    – Non saliranno fin qui – disse Halcon. – Siamo troppo in alto.

    – Credi? Ecco che arrivano. Ahi ahi! Ci tocca, sì. Ora tocca a noi.

    Aveva ragione. Le grandi bolle salivano, con un moto sparso e ondeggiante. Li stavano raggiungendo.

    Halcon fu il primo a trovarsene una in faccia, dove si sciolse inondandolo di profumo. Era impossibile trattenersi. Fu assalito da un riso irrefrenabile. Poco dopo udì la fragorosa risata dello zio. Colpito anche lui.

    Risero a lungo, sganasciandosi finché non sentirono dolere i muscoli del torace. Poi lentamente l’effetto svanì, le risate si spensero. Le bolle della Bella Ridente si erano allontanate.

    Voltandosi, Halcon vide che lo zio si era alzato in piedi per spiccare il volo. Lui, invece, per scendere, avrebbe impiegato più tempo. Per ora, ma poi…

    In un attimo di perplessità si domandò se davvero, e quando, le sue ipotetiche ali sarebbero sbocciate. Lo zio sembrò leggergli nel pensiero.

    – Tranquillo, chico. Volerai più in alto di me. Farò di te un principe, un re. Forse un dio. Non so, sono ancora indeciso. Fondare una religione comporta dei rischi.

    Spalancò le braccia, e con esse le ali. Prima di staccarsi dalla rupe lo ammonì.

    – E impara a usare il mio nome. Mi chiamo Mentore.

    2

    Non se ne veniva a capo. Il disordine della casa era irreparabile. Marco aveva tentato tutti i metodi a lui noti e azzardato perfino qualche slancio innovativo per crearne qualcuno estemporaneo. Niente da fare. Aveva provato a suddividere gli oggetti per categorie, poi a gettare tutto alla rinfusa negli armadi, poi a etichettare dei contenitori improvvisati. Non si sa come, gli oggetti gli si ribellavano, si moltiplicavano sotto i suoi occhi, debordavano fuori dai confini. E su tutto aleggiava il puzzo di muffa sporca proveniente da una tinozza in cui aveva lasciato a mollo, dimenticandosene, un certo numero di calzini spaiati.

    Si grattava la testa con un devastante senso di impotenza, mentre l’orologio gli annunciava con crescente malvagità l’imminente visita della padrona di casa. Per la prima volta rimpianse Mirella. Quell’aguzzina milanese che gli dava del pirla ogni due minuti, che aveva tentato per ben quattro mesi di irreggimentarlo in uno stile di vita sano e ordinato, e che venti giorni prima era scappata sconfitta, sapeva come farsi trovare impeccabile al cospetto della vecchia megera. Lui no, non avrebbe superato l’esame.

    Il suono del citofono, per quanto atteso, lo gettò nel panico. Prese a correre qua e là, inciampando e scompigliando quel poco che gli era riuscito di sistemare. Pensò perfino di fingersi malato, o di uscire dalla finestra e tentare la fuga sui tetti.

    Stava ancora rimuginando su giustificazioni improbabili, quando se la trovò davanti.

    Era, se possibile, più brutta e livorosa del solito. La vide guardarsi intorno attonita prima di abbozzare una smorfia di disprezzo.

    – Non c’è la signorina Mirella?

    Domanda diretta, ineludibile.

    – No, ha dovuto… È partita. Sì, insomma…

    – Mi sta dicendo che se ne è andata?

    Marco allargò le braccia. Aveva pensato di mentire spudoratamente, ma si sentì smascherato prima ancora di provarci. Del resto era evidente che lì, in quel prezioso nido di eleganza che la signora aveva affidato loro con tante scrupolose raccomandazioni, la mano di Mirella non c’era più. L’ordine, la lucentezza, il profumo, avevano lasciato il posto a un caos maleodorante.

    – Le ho preparato il mensile – esalò Marco con un filo di voce.

    Almeno la vista dei soldi, sperava, l’avrebbe placata.

    Illusione. La signora Celeste era un osso duro.

    – Un momento. Io vi ho dato la casa con un certo tipo di accordo.

    – Sì… eravamo d’accordo.

    – Ma adesso le cose cambiano. Io non ho mai affittato l’appartamento a scapoli. È una casa arredata con mobili miei, di valore. E il parquet… E la moquette… La casa richiede manutenzione. Vuol farmi credere di fare tutto da solo?

    La signora Celeste era magra e con una sgradevole voce stridula. Non dovrebbero esistere delle vecchie magre, pensava Marco confusamente. Le vecchie dovrebbero essere dolci vecchine paffute e materne. Delle buone zie che ti portano la crostata fatta con le loro mani e si inteneriscono davanti alla goffaggine di un ragazzo, e sorridono indulgenti.

    – Io… io ci provo. Sto sistemando tutto. Oggi…

    Ma la Signora Celeste nemmeno lo ascoltava. Man mano che si guardava attorno, una piega di orrore prendeva forma sulle sue labbra.

    – Vede – tentò Marco all’apice della disperazione – Mirella nel far le valigie ha lasciato un po’ di disordine…

    La vecchia lo fulminò con lo sguardo. Ebbene sì, era anche vigliacco.

    – La signorina Mirella teneva la casa come un fiore!

    A Marco venne in aiuto un’idea improvvisa.

    – Ho già trovato una persona per le pulizie – disse in fretta. – Verrà domani.

    – Davvero?

    Era chiaro che non gli credeva.

    Marco si studiava di assumere un’espressione rassicurante, mentre si dondolava sulle gambe senza spostarsi troppo. Era riuscito appena in tempo a coprire con un piede una macchia corrosa sulla moquette.

    – È sicuro – continuò la donna – che potrà permetterselo?

    – Perché no?

    – È una spesa in più, e se ho ben capito ora dovrà pagarsi l’intero affitto da solo.

    Perché quella megera si impicciava dei fatti suoi?

    – Che c’è di strano? – sbottò risentito. – Io lavoro.

    Celeste lo osservava con diffidenza. Marco tirò fuori il mazzo dei quattrini e cominciò a contarglieli sotto il naso.

    – Di che cosa si occupa esattamente?

    – Io… io lavoro con gli animali.

    La donna fece una smorfia di disgusto, annusando l’aria.

    – Animali?

    Lo disse come se lo sospettasse di allevare pulci ammaestrate o ragni da collezione. Anche se l’odore che ristagnava faceva pensare piuttosto alle capre.

    – Sì, faccio… – Non poteva dirle che era un precario dog sitter. – Sono assistente di un veterinario.

    – Ah, lavora in ambulatorio?

    – Sì, cioè… – Mancava solo che gli chiedesse l’indirizzo. – Lavoro a domicilio.

    – A domicilio?

    – Sì, prelevo gli animali e li accompagno dal veterinario.

    In fondo gli era già capitato di portare un gatto a fare delle flebo quotidiane. Era morto lo stesso, ma questo non aveva importanza.

    – E si guadagna molto?

    Veramente sfacciata, la vecchia.

    – Sì, specialmente quando faccio io stesso le medicazioni.

    Lo guardava con un sorrisetto scettico che gli fece venir voglia di cavarsi una piccola soddisfazione.

    – E quando pratico l’iniezione letale a un animale troppo anziano.

    La donna ebbe un sussulto. Marco sorrise e sentenziò:

    – La vecchiaia è brutta anche per loro.

    Era troppo. La signora Celeste agguantò i soldi con uno scatto felino e si avviò alla porta.

    – La ricevuta, signora!

    – Questi li tengo come cauzione. – Gli si rivoltò, viperina. – Poi si vedrà.

    La porta che sbatteva gli cavò un gran sospiro dal petto. Era così sconvolto che gli venne perfino in mente di telefonare a Mirella per tentare una riconciliazione.

    III

    Un’aurora gloriosa incendiava il cielo inondandolo di strati purpurei e di mutevoli iridescenze, prima ancora che il sole si affacciasse all’orizzonte.

    Halcon sedeva con Mentore a mensa, sotto il porticato da cui si godeva il panorama migliore. Mentore si era cambiato d’abito, sostituendo la corta tunica da volo con una veste più lunga e ampia. Tutti i capi di vestiario erano confezionati in modo da lasciare libera la schiena, perché la membrana delicata delle ali non avrebbe sopportato alcuna costrizione.

    I Cacciatori erano tornati con le reti gonfie di Meduse Volanti. Con il solito gesto enfatico le aprirono di colpo, lasciando che il contenuto si spandesse sulla tavola in mezzo alle sfere di Pan di Neve che già erano state distribuite in abbondanza.

    Le meduse presero a saltellare e a tentare piccoli voli, ma il loro ciclo vitale, della durata di una notte, stava volgendo al termine e le forze le abbandonavano.

    Halcon e Mentore erano provvisti di retini per acchiapparle, ma raramente li usavano, perché il più delle volte bastava allungare le mani.

    I Cacciatori ridevano soddisfatti. Erano dotati di ali più piccole e robuste, con cui mantenevano un volo rasente al suolo durante la caccia. Zio Farfalla, nei suoi capricci linguistici, li chiamava talvolta murciélagos. Le Meduse Volanti venivano catturate poco prima dell’alba, dopo aver compiuto la loro fase riproduttiva, quando già le forze le stavano abbandonando. Pochi minuti di ritardo le avrebbero trovare dissolte in minutissime gocce incolori, e le sostanze nutritive di cui erano impregnate si sarebbero disperse nel terreno.

    I due commensali mangiarono di gusto, assaporando le diverse sfumature che si associavano ai diversi colori. L’inconsistenza della materia di cui erano fatte le meduse veniva compensata dalla solida sostanza delle sfere di Pan di Neve, bianche e pastose. Salse dai colori intensi si accompagnavano a ogni boccone, in un assortimento che variava a piacere, e bevande dolci o asprigne venivano versate continuamente dalle brocche ai boccali.

    Durante il pasto era consuetudine evitare qualsiasi argomento che non si riferisse al cibo, alla sua preparazione, alla qualità delle materie prime. Si supponeva che ogni altro discorso potesse turbare la serenità della mensa. Così i due uomini si trovarono a disquisire sull’accostamento dei diversi tipi di salse ai diversi colori delle meduse e sulle bevande più appropriate, e a confrontare il Pan di Neve che avevano sul tavolo con quello di pochi giorni prima che si era presentato in sfere più piccole, forse a causa della fase lunare. Sembrava impossibile, ma il cibo forniva argomenti inesauribili.

    Terminato il pasto, restarono seduti sotto il portico a osservare i mutamenti del cielo prima che il sole si affacciasse all’orizzonte. Halcon sapeva che allo spuntare dell’astro avrebbe dovuto trovarsi al sicuro in un luogo chiuso, perché in quella fase della sua vita l’esposizione al sole rappresentava un pericolo mortale.

    Gli assistenti avevano cominciato a riordinare la tavola e ripulivano il pavimento. Erano uomini e donne privi di ali, che si affaccendavano in silenzio. Mentore a volte li chiamava caballitos.

    Halcon sapeva che di lì a qualche momento Zio Farfalla si sarebbe alzato con fare indolente annunciando che intendeva andare a riposarsi un po’ all’ombra. Questo significava che si sarebbe rintanato da solo nella Caverna, luogo accessibile solo a lui e a pochi suoi assistenti. Che Mentore potesse riposare soltanto nella Caverna, mentre tutti lo facevano nelle comode stanze del Palazzo di Pietra, non aveva senso. Era chiaro che là dentro doveva svolgersi un suo passatempo ignoto. Halcon era curioso. Si domandava se e quando sarebbe stato messo a parte del segreto. Le sue domande dirette avevano trovato risposte evasive. Forse non lo riteneva ancora pronto ad accedere a certe conoscenze. O forse non intendeva metterne a parte alcuno. In quel caso…

    – Ti vedo assorto. A che cosa pensi?

    Preso alla sprovvista, Halcon esitò, prima di ripiegare su un argomento a caso.

    – Penso alla mia schiena. Mi dà più fastidio del solito.

    – Ah, bene. Allora si avvicina il momento! – Gli passò una mano sul dorso con gesto cauto e carezzevole. – Sì, i bozzi si sono ingranditi. Crescono a vista d’occhio. Avrai le tue ali, fra poco.

    Halcon aveva domandato più volte la ragione per cui non tutti possedevano un paio di ali, e Mentore gli aveva risposto che ognuno nasce fatto in un certo modo, e questo è tutto. Halcon pensava che nascere senza ali fosse la più grande disgrazia possibile, e si riteneva fortunato.

    – Sono solo questi i tuoi pensieri? – domandò ancora lo zio. – Non ti capita mai di avere dei ricordi?

    – Ricordi? Certo che mi ricordo. Ti posso raccontare tutto quello che ho fatto ieri e anche nei giorni precedenti. E perfino tutte le cose che ci siamo detti. Quasi tutte.

    – Non parlo di questo. A volte potrebbero venirti in mente dei ricordi diversi. Vorrei che me ne parlassi, se ti capita.

    – Non capisco che cosa intendi. Fammi un esempio.

    Mentore emise un sospiro paziente.

    – Un esempio… sì. Perché mi chiami zio?

    Halcon ridacchiò.

    – Mi sembra naturale. So che non sei mio padre. Ma mi stai vicino da quando ero bambino.

    Mentore sbuffò.

    – Veramente non eri tanto bambino quando ci siamo conosciuti. E che ne sai delle parole che stai adoperando? Padre… zio… Dove le hai sentite? E dimmi: hai mai visto un bambino?

    – No, non ricordo di averne visti. Ma il senso delle parole lo conosco.

    – Ah, sì? E allora dimmi: perché mi chiami farfalla?

    – È chiaro, no? Perché hai le ali. È la prima parola che mi viene in mente quando guardo le tue ali.

    – Ma davvero? E dove hai visto le farfalle?

    L’interrogatorio diventava insistente, e Halcon cominciava a innervosirsi.

    – Non lo so, non ricordo. Ma so che hanno le ali. Che c’è di strano? Uso le parole che conosco. Sei tu che a volte usi parole insolite.

    Mentore scuoteva la testa.

    – Prima o poi dovrai ricordare, Halcon. Se non ricordi non potrai mai fare la tua Scelta. Tu viaggi senza bagaglio, come un perro callejero!

    Halcon sgranò gli occhi. Quel discorso gli risultava del tutto astruso.

    Mentore si alzò di scatto, come indispettito. Poi lo guardò cercando di addolcire l’espressione.

    – E va bene – concluse – me ne vado a riposare un po’ all’ombra.

    3

    Messo a cuccia il mastino, Marco si avviò fischiettando per completare il suo giro. Fischiettava più per sfogare la rabbia che per un umore gioioso. Con l’avvicinarsi del caldo gli era venuta voglia di andarsene un po’ al mare, ma l’affitto e le altre spese di casa, da quando stava solo, prosciugavano tutte le sue entrate.

    Percorrendo la solita strada che dal mastino lo avrebbe condotto alla gatta siamese, incrociò la solita siepe che bordava un viottolo nascosto, via d’accesso a un giardinetto sporco e incolto su cui Marco evitava di gettare lo sguardo per non deprimersi di più.

    Ma ahimè, al riparo della siepe lo aspettava il solito agguato di Sacco di pulci. Non che il randagio volesse aggredirlo. Tutt’altro. Lo guardava da sotto in su, con espressione proditoriamente patetica e un dimesso tremolio della coda che avrebbe dovuto captare la sua benevolenza. Era un cane color cane, cioè di una indefinibile sfumatura giallastra resa ancora più incerta dalla sporcizia. Non era la prima volta che l’aspettava lì.

    – Non ci casco, Sacco di pulci. Non sono un cinofilo, sono un professionista.

    Si guardava bene dall’accarezzarlo. Meno che mai gli avrebbe offerto del cibo. Con cani di quel genere basta un minimo errore per trovarteli incollati addosso senza scampo. Sacco di pulci doveva anche essere straordinariamente furbo. Stava nascosto finché c’era di mezzo il mastino, e si faceva vedere solo a missione compiuta.

    Dunque Marco lo superò fingendo indifferenza, dopo averlo intercettato con la coda dell’occhio. Ma dopo due passi fu raggiunto da un guaito straziante. Non era mai successo. La sorpresa lo indusse all’errore fatale: si voltò.

    Sacco di pulci gli si fece incontro zoppicando vistosamente. Sembrava che una delle zampe anteriori fosse ferita, ma il fango che la incrostava impediva di vedere se ci fosse del sangue.

    Più lo guardava più quello zoppicava, e guaiva, e faceva un’espressione tapina come per dire: avresti il coraggio di lasciarmi al mio destino vedendomi ridotto così?

    Marco sembrava il monumento all’indecisione. Si voltava di qua e di là, riprendeva a camminare, poi si fermava, poi faceva due passi indietro. Accidenti, quel cane sembrava ridotto davvero male. E non c’era da sbagliarsi sul fatto che gli stava chiedendo aiuto.

    Si chinò per cercare di esaminargli la zampa, e senza volere gli allungò una carezza. Sacco di pulci guaì e uggiolò, e arrivò a lambirgli le mani per un anticipo di riconoscenza.

    Marco pensava di sciacquargli la zampa sotto l’acqua per vedere meglio, ma l’unica fontanella era asciutta. Che poteva fare? Certo non poteva portarselo a casa. Magari cercare un veterinario. Gli pareva che ci fosse un ambulatorio nei pressi. Ma ci mancava pure che dovesse accollarsi le spese! In bolletta com’era.

    Del resto era piuttosto lontano da casa sua. Cercò di ricordare se ci fosse un amico residente in quella zona. Oh, se per colmo di fortuna ci fosse stato un amico cinofilo! Magari una ragazza, di quelle che si impietosiscono facilmente.

    Gli venne in mente l’unica persona di sua conoscenza che abitava da quelle parti. Lo sapeva perché l’aveva perfino aiutata a fare trasloco. Mirella.

    Mirella. Si sarebbe sentito di rivederla dopo tutto quel casino che c’era stato? Discussioni e litigi e tutto il resto. Ora abitava da quelle parti insieme a un’amica. Certo, con quella mania della pulizia e dell’ordine, la vista di Sacco di pulci non era tale da rallegrarla. Ma chissà, cattiva non era. Solo un po’ stronza.

    Pensa che ti pensa, si trovò avviato verso casa di Mirella, con Sacco di pulci fra le braccia. Puzzava, il disgraziato, oltre a pesare come un macigno. Ma tant’è… Non voleva sentirsi colpevole di omissione di soccorso.

    Il portone era aperto ma l’ascensore era fuori uso, così arrancò sbuffando fino al terzo piano. Mentre suonava il campanello pensò che Mirella poteva essere al lavoro. Insegnava educazione fisica in una scuola. A quel punto non avrebbe saputo che fare.

    Stava ancora rimuginando quando la porta si aprì. Mirella era in tenuta da ginnastica, con i capelli raccolti in una fascia. E la solita faccia lunga e abbronzata, e il solito sguardo indagatore.

    – Ma che hai combinato? – fu l’allarmata accoglienza.

    – Scusa, Mirella, scusami tanto. È una situazione d’emergenza.

    – Hai investito un cane?

    – No, io no… Ma… nemmeno ce l’ho più il motorino, cosa vai a pensare?

    – E allora?

    – Non so, sta male, è ferito.

    – È tuo?

    – No, appunto. Non so di chi è. Poteva essere tuo, forse, esserti scappato!

    – Ma non dire stronzate, Marco. Per favore!

    Intanto però aveva fatto un passo indietro

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