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La lama silente: La leggenda di Drizzt 11
La lama silente: La leggenda di Drizzt 11
La lama silente: La leggenda di Drizzt 11
E-book510 pagine7 ore

La lama silente: La leggenda di Drizzt 11

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Info su questo ebook

Wulfgar, di ritorno dall’Abisso, scopre che esistono demoni invulnerabili al suo martello. Entreri, che ha fondato un impero grazie alla lama del suo pugnale partendo dai bassifondi di Calimport, è alla caccia del suo nemico di sempre. Drizzt è determinato a distruggere la malefica Reliquia di Cristallo e cerca l’aiuto del prete-erudito Cadderly. Purtroppo, le sue peggiori paure prendono corpo, e Crenshinibon cade nelle mani dell’oscuro elfo mercenario Jarlaxle e del suo improbabile alleato Artemis Entreri.
LinguaItaliano
EditoreArmenia
Data di uscita3 lug 2019
ISBN9788834435861
La lama silente: La leggenda di Drizzt 11

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    Anteprima del libro

    La lama silente - R.A. Salvatore

    fonte.

    Introduzione

    Io sono Drizzt.

    Forse non tutti i giorni, e di certo non più come lo ero alle superiori, o alle medie. Tuttavia, ci sono giorni – ancora troppi – in cui mi ritrovo da solo in mezzo alla folla. Ci sono giorni in cui non ricevo un trattamento equo. Ci sono giorni in cui i pregiudizi, le opinioni infondate e la semplice ignoranza fanno di me un emarginato.

    E so di non essere l’unico a trovarmi in questa situazione. Chi non si è mai sentito così nemmeno una volta?

    Chi non è mai stato Drizzt?

    Quando, quasi vent’anni fa, un giovane e confuso elfo scuro emerse dal crudele Buio Profondo per ritrovarsi a vivere tra la gente di superficie, quest’ultimo era un drow solitario che portava impresse sulla pelle le proprie origini, ma celava una speranza nel cuore. Ci volle molto coraggio da parte di quei pochi che decisero di vedere chi era in realtà, al di là delle apparenze. E ci volle anche coraggio da parte del drow per consentire a costoro di farlo. In quel mondo, Drizzt Do’Urden diventò un esempio per tutti noi. Se lui era riuscito a farlo, di certo avremmo potuto farlo anche noi. Dopo tutto, il suo mondo è decisamente meno indulgente del nostro.

    Nel gennaio del 1988, migliaia di fortunati lettori furono i primi a impossessarsi di Drizzt Do’Urden, e vent’anni dopo anche noi non riusciamo a lasciarlo andare. Ma la Leggenda di Drizzt non solo è sopravvissuta per due decenni, ha anche prosperato.

    Perché?

    Di certo sono delle belle storie… dinamiche ed eccitanti come un qualsiasi altro racconto di avventure. Bob Salvatore è un narratore naturale con una particolare propensione per il dialogo e un acuto senso dell’umorismo, ma questo non può essere tutto, e non lo è.

    Ognuno di noi, proprio come Drizzt, è solo con se stesso, e ognuno di noi, credo, in fin dei conti desidera la stessa cosa. Tutti noi vogliamo essere ascoltati, vogliamo essere accolti, vogliamo essere accettati. E vogliamo essere amati.

    Drizzt ha ottenuto tutto questo contro ogni sua aspettativa. Chi mai potrebbe fidarsi di un elfo scuro? Chi mai potrebbe accogliere un esemplare di quella razza spregevole di mostruosi elfi nel proprio accampamento… per non dire poi nella propria vita? Ma Bruenor, Wulfgar e Regis, e anche Catti-brie, lo hanno fatto. Lo hanno ascoltato, lo hanno accolto e lo hanno amato. E non perché stessero cercando un vecchio drow qualunque da integrare nel loro gruppo, ma perché Drizzt era dotato della personalità, della volontà e del coraggio in grado di convincerli. L’elfo scuro dà a chiunque si senta emarginato la speranza di poter essere accettato per quello che è, e di essere giudicato solo per le sue azioni.

    Con questo scarno, ma efficace messaggio, la Leggenda di Drizzt prosegue da due decenni, e sarà proprio quello scarno ma efficace messaggio a sostenerla per molto, molto tempo ancora. È una caratteristica peculiare dei romanzi fantasy il fatto che, grazie al giusto messaggio, grazie all’intelligenza e alla sensibilità di un bravo narratore, opere come quelle possano vivere per sempre. Per quanto tempo ci siamo ricordati del semplice ritornello del Mago di Oz: «Non c’è posto più bello della propria casa»? Da quanto tempo Il Signore degli Anelli con i suoi avvertimenti sulla deleteria influenza del potere costituisce la base di narrazioni di quel genere? Quanti secoli abbiamo trascorso ad affrontare le nostre paure dell’ignoto nei poemi di Omero?

    I vent’anni di Drizzt?

    Non abbiamo ancora visto nulla.

    Philip Athans,

    gennaio 2007

    Prologo

    Disteso sul letto, Wulfgar stava riflettendo nel tentativo di venire a patti con l’improvviso cambiamento che si era verificato nella sua vita da quando era stato salvato dall’infernale prigione nell’Abisso in cui lo aveva relegato il demone Errtu e si era venuto a trovare di nuovo fra amici e alleati. Adesso il nano Bruenor, suo padre adottivo, gli era accanto, e così pure Drizzt, l’elfo scuro che era stato il suo mentore e il suo migliore amico, mentre un sonoro russare proveniente dalla stanza accanto rivelava che Regis, il grassoccio halfling, stava dormendo tranquillamente.

    E poi c’era Catti-brie, la cara Catti-brie, la donna che Wulfgar aveva imparato ad amare e che aveva avuto intenzione di sposare sette anni prima a Mithral Hall. Adesso erano tutti riuniti lì nella loro dimora nella Valle del Vento Gelido, ricongiunti e presumibilmente sereni, grazie agli sforzi eroici di quei meravigliosi amici.

    Ma Wulfgar non riusciva neppure a capire cosa questo potesse significare.

    Wulfgar, che per oltre sei anni aveva subito spaventose torture per mano del demone Errtu, non era in grado di comprenderlo.

    Irrequieto, il grosso barbaro incrociò le braccia sul petto con un sospiro: era stato il puro e semplice sfinimento fisico a costringerlo ad andare a letto, perché se appena poteva lui evitava di dormire in quanto Errtu riusciva sempre a raggiungerlo in sogno, com’era inevitabile che sarebbe successo anche quella notte.

    Per quanto oppresso dai suoi pensieri e dal proprio tumulto interiore, Wulfgar finì infatti per cedere alla stanchezza e lasciarsi scivolare in una serena oscurità che ben presto si trasformò in una serie di immagini delle vorticanti nebbie grigie che pervadevano l’Abisso, dove il gigantesco Errtu dalle ali di pipistrello sedeva appollaiato sul suo trono intagliato in un enorme fungo e rideva con quella sua orribile, gracchiante risata che non nasceva da un senso di gioia o di divertimento, ma era un suono di beffa e di derisione indirizzato a coloro che sceglieva di torturare. E adesso l’infinita malvagità del demone era diretta contro Wulfgar, come lo erano le grandi tenaglie di Bizmatec, un altro demone seguace di Errtu. Con una forza che superava di gran lunga quella di qualsiasi altro essere umano, Wulfgar prese a lottare ferocemente contro Bizmatec tenendo a lungo lontano da sé le enormi braccia umanoidi e le altre due appendici a forma di tenaglia che sporgevano dalla parte superiore del corpo.

    Per quanto lui lottasse e colpisse con la forza della disperazione, gli arti che lo attaccavano erano troppo numerosi: Bizmatec era troppo grosso e forte, e quando infine il possente barbaro cominciò a stancarsi la lotta si concluse, come sempre, con una delle tenaglie di Bizmatec serrata intorno alla sua gola, mentre l’altra tenaglia e le due braccia umanoidi del demone lo tenevano là immobile, sconfitto. Esperto in quella che era la sua tecnica di tortura preferita, Bizmatec prese poi a esercitare una pressione lenta ma costante sulla gola di Wulfgar, bloccandogli il respiro per poi permettergli di riprendere fiato più e più volte fino a lasciarlo annaspante e con le gambe che non lo reggevano più a mano a mano che i minuti diventavano ore.

    D’un tratto Wulfgar si sollevò di scatto a sedere sul letto con le mani serrate intorno alla gola, artigliandola al punto da graffiarsi su un lato del collo prima di rendersi conto che il demone non era reale e che lui si trovava al sicuro, a letto, nella terra che considerava la sua casa, circondato dai suoi amici.

    Amici…

    Che cosa significava quella parola? Che ne potevano sapere loro del suo tormento? Come potevano aiutarlo a scacciare quel perdurante incubo costituito da Errtu?

    Angosciato, il barbaro non chiuse più occhio per il resto della notte e quando Drizzt andò a chiamarlo, molto prima dell’alba, lo trovò già vestito e pronto per mettersi in viaggio.

    Quel giorno infatti sarebbero partiti tutti e cinque per portare il manufatto Crenshinibon molto lontano da lì, verso sudovest. La loro meta era Caradoon, sulle rive del Lago di Impresk. Da là si sarebbero addentrati tra i Monti Fiocco di Neve per raggiungere il grande monastero chiamato Fervente Mistero, dove un prete di nome Cadderly avrebbe infine distrutto quel malvagio oggetto, Crenshinibon. Quella mattina mentre andava a chiamare il barbaro, Drizzt lo aveva con sé e, sebbene il cristallo non fosse visibile, Wulfgar ne avvertì subito l’immonda presenza perché esso rimaneva collegato al suo ultimo padrone, il demone Errtu, formicolava della sua energia, e poiché Drizzt aveva il manufatto sulla sua persona ed era tanto vicino, anche Errtu rimaneva vicino a Wulfgar.

    «Una bella giornata per mettersi in viaggio», commentò Drizzt in un tono che voleva essere tranquillo ma in cui Wulfgar avvertì una nota tesa, condiscendente, che destò in lui l’impulso a stento contenuto di sferrare un pugno in pieno volto all’elfo.

    Controllandosi, il barbaro si limitò a rispondere con un grugnito e a oltrepassare la sagoma ingannevolmente minuta dell’elfo scuro. Drizzt raggiungeva a stento il metro e settanta di statura mentre Wulfgar era vicino ai due metri, pesava almeno il doppio di lui ed era tanto massiccio che una sua coscia era grossa quanto la vita di Drizzt, e tuttavia, se i due fossero giunti a uno scontro diretto, chi li conosceva entrambi avrebbe saggiamente scommesso sul drow.

    «Non ho ancora svegliato Catti-brie», aggiunse Drizzt.

    Nel sentirgli pronunciare quel nome Wulfgar si girò di scatto e lo fissò con un’espressione dura negli occhi azzurri mentre nel suo sguardo appariva un’intensità pari a quella che sembrava essere sempre presente negli occhi color lavanda dell’elfo.

    «Regis però è già sveglio e sta facendo colazione… senza dubbio nella speranza di riuscire a rifarla un altro paio di volte prima della partenza», continuò Drizzt con una risatina che Wulfgar non condivise. «Quanto a Bruenor, ci raggiungerà sul campo fuori dalle porte orientali di Bryn Shander perché è ancora con la sua gente per preparare la sacerdotessa Stumpet a guidare il clan durante la sua assenza».

    Wulfgar sentì soltanto la metà di quelle parole che per lui non avevano significato: tutto il mondo aveva cessato di avere significato ai suoi occhi.

    «Vogliamo andare a chiamare Catti-brie?» chiese intanto il drow.

    «Ci penso io», replicò in tono brusco Wulfgar. «Tu occupati di Regis. Se dovesse riempirsi troppo lo stomaco di cibo finirebbe senza dubbio per rallentarci la marcia, mentre io ho intenzione di raggiungere al più presto il tuo amico Cadderly in modo che possiamo liberarci di Crenshinibon».

    Drizzt fece per rispondere, ma Wulfgar gli volse le spalle e si avviò lungo il corridoio fino a raggiungere la porta di Catti-brie. Battuto un singolo colpo deciso contro il battente, entrò poi senza aspettare risposta e Drizzt accennò a muovere un passo nella sua direzione per rimproverarlo di quel suo comportamento così rozzo ma poi preferì lasciar perdere: fra tutti gli umani che conosceva, Catti-brie era senza dubbio quella che più di ogni altro era in grado di difendersi da sé da qualsiasi insulto o violenza.

    Un altro fattore che lo indusse a trattenersi fu anche la consapevolezza che il suo desiderio di rimproverare Wulfgar nasceva soprattutto da una certa gelosia nei confronti di quell’uomo che un tempo avrebbe dovuto essere, e che forse presto sarebbe diventato, il marito di Catti-brie.

    Passandosi con fare pensoso una mano sul bel volto, il drow volse le spalle alla porta e andò a cercare Regis.

    Con indosso soltanto una leggera camicia e ancora intenta a infilarsi i pantaloni, Catti-brie sollevò lo sguardo con aria sorpresa quando Wulfgar entrò a grandi passi nella stanza.

    «Avresti potuto aspettare che rispondessi», gli fece notare in tono asciutto, soffocando il proprio imbarazzo mentre si allacciava i pantaloni e andava a recuperare la tunica.

    Wulfgar annuì e protese in silenzio le mani in un gesto di scusa, meno di quanto sarebbe stato giusto da parte sua ma più di quanto lei si fosse aspettata. Catti-brie era consapevole del dolore che spesso trapelava dagli occhi azzurri del barbaro e del vuoto che si celava dietro i suoi rari sorrisi forzati, ma dopo averne parlato a lungo con Drizzt, con Bruenor e con Regis aveva convenuto insieme a loro che la sola cosa da fare era pazientare, perché il tempo era l’unica cura in grado di sanare le ferite di Wulfgar.

    «Il drow ha preparato la colazione per tutti», spiegò Wulfgar. «Dobbiamo mangiare in modo sostanzioso prima di intraprendere un così lungo viaggio».

    «Il drow?» ripeté Catti-brie.

    Non era stata sua intenzione parlare ad alta voce, ma era rimasta così sconcertata di fronte a quel riferimento tanto distaccato a Drizzt da parte di Wulfgar che le parole le erano sfuggite di bocca. Adesso Wulfgar si sarebbe riferito a Bruenor definendolo semplicemente «il nano»? E quanto ci sarebbe voluto prima che lei stessa diventasse semplicemente «la ragazza»? Con un profondo sospiro, Catti-brie si costrinse a ricordare che Wulfgar aveva vissuto le pene dell’inferno… nel vero senso della parola, e nel girarsi a guardarlo scorse nei suoi occhi azzurri un accenno di imbarazzo, come se lui si fosse sentito mortificato per essersi riferito a Drizzt con tanta indifferenza, cosa che Catti-brie interpretò come un buon segno.

    Quando poi Wulfgar si volse per lasciare la stanza, Catti-brie gli si avvicinò e sollevò con gentilezza una mano per accarezzargli il viso, facendo scorrere le dita lungo la guancia liscia fino alla barba ispida che lui doveva aver deciso di lasciar crescere o che semplicemente non si sentiva motivato a tagliare.

    Wulfgar abbassò allora lo sguardo su di lei, notando la tenerezza che le traspariva dallo sguardo, e per la prima volta dal combattimento sul ghiaccio, in seguito al quale lui e i suoi amici avevano bandito Errtu, nel suo lieve sorriso ci fu una certa dose di sincerità.

    Regis riuscì a fare una colazione tripla ma continuò per tutta la mattina a borbottare di avere ancora fame mentre lui e i suoi amici lasciavano Bryn Shander, il più grande villaggio della regione della desolata Valle del Vento Gelido nota come le Ten-Towns.

    Inizialmente i cinque si diressero verso nord, dove il terreno era più facilmente percorribile, per poi deviare verso ovest. Mentre procedevano lungo il primo tratto, scorsero in lontananza, a nord, le alte costruzioni di Targos, seconda città di quella regione, e dietro di esse le acque scintillanti del Maer Dualdon.

    Entro metà pomeriggio, dopo aver percorso quasi venti chilometri, il gruppo arrivò alle rive del grande fiume Shaengarne, in piena per il disgelo primaverile, seguendone il corso verso nord in direzione del Maer Dualdon e della città di Bremen, dove li aspettava un’imbarcazione ottenuta grazie agli accordi presi da Regis.

    Nonostante le proteste di Regis, che si diceva morto di fame e prossimo a cadere al suolo stecchito, il gruppo rifiutò le numerose offerte di una cena abbondante e di un letto caldo da parte degli abitanti del villaggio e ben presto si venne a trovare a ovest del fiume e nuovamente in marcia, lasciandosi alle spalle le città della valle.

    Dentro di sé Drizzt stentava a credere che si fossero rimessi in cammino tanto presto, considerato che era passato ben poco tempo da quando Wulfgar era stato loro restituito: adesso erano di nuovo insieme nella terra che consideravano la loro patria, erano sereni e in pace, e tuttavia stavano prestando ancora ascolto al richiamo del dovere e imboccando la via dell’avventura»

    Il drow si era calato sul viso il cappuccio del mantello da viaggio per proteggere gli occhi sensibili dalla luce intensa del sole e fu per questo che i suoi amici non poterono vedere l’ampio sorriso che quelle riflessioni gli fecero affiorare sulle labbra.

    PARTE 1

    APATIA

    Mi capita spesso di riflettere sul tumulto interiore che mi assale quando le mie lame sono a riposo, quando tutto il mondo intorno a me sembra essere in pace. Questo è l’ideale per cui si suppone che io lotti, la calma che noi tutti speriamo di poter tornare un giorno a sperimentare quando stiamo combattendo, e tuttavia in questi periodi di tranquillità, che sono peraltro stati rari negli oltre sette decenni della mia vita, non ho l’impressione di aver raggiunto la perfezione ma ho piuttosto la sensazione che manchi qualcosa.

    Questa è un’idea all’apparenza assurda e tuttavia sono giunto a rendermi conto di essere un guerriero, una creatura fatta per l’azione che, nei momenti in cui non esiste la pressante necessità di agire, non si trova per nulla a proprio agio.

    Quando la strada non è costellata di avventure, quando non ci sono mostri da combattere o montagne da scalare vengo assalito dalla noia. Ormai sono però giunto ad accettare questa verità inerente alla mia vita e a chi sono in realtà, quindi nelle rare occasioni in cui la mia esistenza mi appare vuota riesco a escogitare il modo di sconfiggere la noia, a trovare un picco montano più alto dell’ultimo da me scalato.

    Adesso scorgo molti di questi stessi sintomi in Wulfgar, tornato a noi dalla tomba, dalla vorticante oscurità che costituisce quell’angolo dell’Abisso governato da Errtu, ma temo che la sua condizione attuale abbia trasceso la semplice noia e si sia trasformata in vera e propria apatia. Anche Wulfgar era una creatura fatta per l’azione, ma questa non sembra essere una cura sufficiente a guarirlo dal suo stato di letargia, o di apatia. La sua gente si è rivolta a lui, implorandolo di agire, chiedendogli di assumere il comando delle tribù… tutti, perfino il cocciuto Berkthgar che avrebbe dovuto rinunciare all’ambita posizione di condottiero, lo hanno supplicato di accettare perché tutti sanno che in questo momento difficile Wulfgar, figlio di Beornegar, è quello che più di ogni altro potrebbe dare una grande svolta alla vita dei barbari nomadi della Valle del Vento Gelido.

    Wulfgar non ha dato ascolto a questo appello, ma io so che non lo ha fatto per umiltà o per stanchezza e neppure per il timore di non essere in grado di gestire quel ruolo o di non essere all’altezza delle aspettative di quanti gli chiedevano di assumerlo. Questi erano infatti tutti problemi che avrebbero potuto essere superati con il ragionamento o grazie al supporto degli amici che Wulfgar ha accanto, incluso me stesso, mentre invece non si è trattato di nessuno di questi problemi, peraltro risolvibili.

    Il fatto è che, semplicemente, non gli importa nulla di nessuno.

    È possibile che l’agonia patita sotto gli artigli di Errtu sia stata tale e così protratta da avergli fatto perdere la capacità di empatizzare con le sofferenze degli altri? Ha forse visto troppi orrori, sofferto troppo per sentire le implorazioni di questa gente?

    Questo è ciò che io temo più di ogni altra cosa perché si tratta di una perdita per la quale non esiste una cura definita. D’altro canto, a essere onesti, devo ammettere di vedere chiaramente scolpito sui lineamenti di Wulfgar uno stato di concentrazione in se stesso in cui troppi ricordi degli orrori recentemente patiti gli annebbiano la vista. Forse non è neppure in grado di vedere la sofferenza degli altri o forse, anche se la vede, la ignora considerandola insignificante di fronte alle prove indicibili a cui lui è stato sottoposto per sei anni come prigioniero di Errtu. La perdita dell’empatia può benissimo essere la più profonda e duratura delle cicatrici, la lama silente di un nemico invisibile che ci lacera il cuore e ci priva della forza. Che ci deruba della volontà… perché, cosa siamo noi senza l’empatia? Quale forma di gioia possiamo trovare nella vita se non siamo in grado di capire le gioie e le sofferenze di quanti ci circondano, se non possiamo condividere le emozioni proprie di una più grande comunità? Rammento ancora gli anni vissuti nel Buio Profondo dopo essere fuggito da Menzoberranzan, del tutto solo tranne che per le occasionali visite da parte di Gwenhwyvar. Se sono sopravvissuto per tutti quegli anni è stato grazie all’immaginazione.

    Adesso, però, dubito che a Wulfgar sia rimasta anche soltanto questa facoltà perché l’immaginazione richiede introspezione, la capacità di penetrare nei propri pensieri, e temo che ogni volta che rivolge lo sguardo dentro di sé il mio amico veda soltanto i seguaci di Errtu e gli orrori dell’Abisso.

    Wulfgar è circondato da amici che gli vogliono bene e che stanno cercando con tutto il cuore di supportarlo e di aiutarlo a emergere dalla prigione emotiva in cui Errtu lo ha lasciato intrappolato. Forse Catti-brie, la donna che lui un tempo amava (e che forse ama ancora) così intensamente, avrà un ruolo fondamentale nella sua guarigione, anche se ammetto che vederli insieme mi causa dolore. Lei tratta Wulfgar con una tenerezza e una compassione infinite, ma io so che lui non avverte il suo tocco gentile e che Catti-brie farebbe meglio a schiaffeggiarlo e a fissarlo con durezza in modo da rivelargli lo stato letargico in cui è scivolato. Lo so, e tuttavia non le posso dire di agire in questo modo perché il loro rapporto è troppo complicato per permettere una cosa del genere: per quanto nella mente e nel cuore io miri soltanto a fare l’interesse di Wulfgar, se indicassi a Catti-brie una linea d’azione così inflessibile, il mio comportamento potrebbe essere interpretato da Wulfgar, nel suo attuale stato mentale, come quello di un pretendente geloso.

    No, non è vero, perché anche se non conosco i sentimenti di Catti-brie nei confronti di quest’uomo che un tempo avrebbe dovuto essere suo marito – in quanto ultimamente lei è molto restia nel rivelare quello che prova – sono comunque consapevole che ora Wulfgar è incapace di amare.

    Incapace di amare… ci sono parole più tristi per descrivere un uomo? Non credo e vorrei poter definire in altra maniera l’attuale stato mentale di Wulfgar, ma l’amore, l’amore sincero, richiede empatia in quanto è una condivisione della gioia, del dolore, delle risa e del pianto. L’amore sincero rende l’anima di una persona il riflesso degli umori del suo compagno o della sua compagna: come una stanza sembra più grande quando è rivestita di specchi, così la gioia viene amplificata dall’amore, e come i singoli oggetti all’interno della stanza rivestita di specchi sembrano meno evidenti, così il dolore è meno intenso quando è condiviso.

    Questo è il bello dell’amore, che si tratti di passione o di amicizia, è una condivisione che moltiplica le gioie e attenua i dolori. Adesso Wulfgar è circondato di amici, tutti pronti a impegnarsi in una condivisione di questo tipo, come eravamo soliti fare un tempo, e tuttavia lui non è in grado di accettarlo, non riesce ad abbassare le difese che ha dovuto erigere quando era circondato da esseri come Errtu.

    Ha perso l’empatia e io posso solo pregare che riesca a ritrovarla, che il tempo gli permetta di aprire il cuore e l’anima a quanti meritano questa fiducia, perché senza empatia non potrà trovare scopo nella vita, senza scopo non troverà soddisfazione e senza soddisfazione non ci sarà appagamento e quindi neppure gioia.

    E noi, tutti noi, non avremo modo di aiutarlo.

    Drizzt Do’Urden

    1

    Straniero in patria

    Fermo sulla sommità di una collina rocciosa che sovrastava la vasta e polverosa città, Artemis Entreri stava cercando di mettere ordine nella miriade di sensazioni che gli vorticavano nell’animo. Distrattamente, sollevò una mano per pulirsi dalla sabbia e dalla polvere portate dal vento le labbra e la barba a punta che si era lasciato crescere di recente, e soltanto allora si rese conto che da parecchi giorni non aveva più rasato il resto della faccia e che adesso la piccola barba non spiccava più sul suo volto ma lo incorniciava in maniera irregolare.

    La cosa però non pareva avere per lui nessuna importanza, come non ne aveva il fatto che il vento gli avesse sfilato lunghe ciocche di capelli dal laccio che li fermava sulla nuca e gliele stesse agitando davanti agli occhi, sferzandogli il viso.

    Nulla di tutto questo aveva importanza per Entreri mentre teneva lo sguardo fisso su Calimport e cercava al tempo stesso di scrutare dentro di sé.

    Per due terzi della sua vita aveva vissuto in quella vasta città sulla costa meridionale, lì si era conquistato rinomanza e fama come guerriero e assassino e quello era il solo luogo che potesse veramente definire casa sua. Mentre la guardava, Entreri si soffermò a osservarne l’ampia vastità polverosa illuminata dal sole che strappava vivaci bagliori al marmo bianco delle case più lussuose ed evidenziava spietatamente le numerose baracche e le lacere tende che costellavano i lati delle strade, fangose perché mancavano fognature e canali di scolo. E nel guardare Calimport, nel farvi infine ritorno, non seppe definire ciò che provava: aveva raggiunto l’apice della sua nefanda professione e chiunque pronunciasse il suo nome lo faceva con reverenza e con timore perché si sapeva che quando un pasha assoldava Entreri per far uccidere un uomo, quell’uomo era da considerarsi già morto, senza eccezione. Nonostante i numerosi nemici che si era ovviamente procurato nell’esercitare la sua professione, lui era sempre stato in grado di aggirarsi apertamente per le strade di Calimport, non sgusciando di ombra in ombra ma procedendo alla luce del sole con la certezza che nessuno sarebbe stato tanto audace da tentare di attaccarlo.

    Nessuno avrebbe infatti mai osato scagliare una freccia contro Artemis Entreri perché era risaputo da tutti che quel singolo tiro avrebbe dovuto essere di una precisione assoluta e avrebbe dovuto uccidere sul colpo quell’uomo che sembrava al di sopra dei comuni mortali, altrimenti lui sarebbe andato in cerca del suo assalitore e lo avrebbe abbattuto senza pietà.

    Un movimento su un lato, un leggero alterarsi di un’ombra, attirò l’attenzione di Entreri che scosse leggermente il capo con un sospiro, non del tutto sorpreso nel vedere una figura avvolta in un mantello emergere con un balzo da un gruppo di rocce che si trovava circa sei metri più avanti e fermarsi a bloccargli il passaggio con le braccia incrociate sul petto massiccio.

    «Sei diretto a Calimport?» chiese l’uomo, con voce ispessita da un forte accento meridionale.

    Senza rispondere, Entreri non accennò a girare la testa verso il suo interlocutore, anche se il suo sguardo stava già scrutando le numerose rocce che costellavano i due lati della pista.

    «Per poter passare devi pagare», continuò l’uomo massiccio. «Io sono la tua guida», aggiunse poi, con un inchino accompagnato da un sorriso che rivelava parecchi denti mancanti.

    Entreri aveva sentito spesso parlare di quel trucco abbastanza comune che prevedeva un’estorsione di denaro tramite intimidazione, anche se fino a quel momento nessuno era mai stato tanto temerario da sbarrargli la strada, cosa che lo portò infine a rendersi conto di quanto fosse stata lunga la sua assenza.

    Quando poi lui continuò a rimanere in silenzio, l’uomo massiccio cambiò posizione e aprì il mantello in modo da mettere in mostra una spada che portava alla cintura.

    «Quante monete mi offri?» domandò.

    Entreri fu quasi sul punto di ingiungergli di farsi da parte ma poi cambiò idea e si limitò a sospirare ancora una volta.

    «Sei sordo?» esclamò l’uomo, estraendo la spada e avanzando di un altro passo. «Devi pagarmi, se non vuoi che io e i miei amici preleviamo le monete dal tuo cadavere».

    Entreri non replicò, non si mosse e non accennò a estrarre il pugnale ingioiellato che portava alla cintola e che era la sua unica arma; invece di reagire in qualche modo, rimase immobile dove si trovava e quella sua esitazione parve accentuare l’ira dell’uomo massiccio che lanciò una rapida occhiata alla sua sinistra... un gesto quasi impercettibile che però l’assassino colse senza difficoltà. Nel seguire lo sguardo dell’altro, Entreri non faticò a individuare uno dei suoi complici che, armato d’arco, si teneva appostato nell’ombra fra due enormi massi.

    «Avanti», insistette l’uomo massiccio. «Questa è la tua ultima occasione».

    Entreri insinuò di soppiatto la punta di un piede sotto un sasso, senza accennare però ad alcuna reazione, poi rimase in attesa con lo sguardo fisso sull’avversario ma badando a controllare con la coda dell’occhio anche il furfante armato d’arco, e riuscì a decifrare così bene i loro movimenti, la minima contrazione muscolare e il più impercettibile battito di ciglia, che dei tre fu lui quello che si mosse per primo.

    Senza preavviso Entreri spiccò un balzo in diagonale, in avanti e sulla sinistra, rotolando su se stesso e sferrando un calcio con il piede destro in modo da scagliare il sasso in direzione dell’arciere, non per colpirlo – cosa che sarebbe andata ben oltre persino ai suoi talenti – ma nella speranza di distrarlo mentre lui terminava la capriola e agitava il mantello per intercettare e rallentare il volo della freccia.

    Una preoccupazione peraltro inutile perché la mira dell’arciere era talmente approssimativa che il suo tiro non sarebbe andato a segno neppure se Entreri fosse rimasto immobile.

    Rialzandosi dalla capriola, Entreri piantò saldamente i piedi per terra e si preparò ad affrontare la carica del brigante armato di spada, consapevole che altri due uomini stavano uscendo da dietro le rocce su entrambi i lati del sentiero.

    Sempre disarmato, Entreri si gettò inaspettatamente in avanti, si chinò all’ultimo momento per evitare un fendente e si rialzò di scatto dietro la lama, afferrando con una mano il mento dell’assalitore e con l’altra una manciata di capelli, sulla nuca: una secca torsione fu poi sufficiente a scagliare l’uomo al suolo, e subito Entreri abbandonò la presa alla testa per afferrare il braccio destro dell’uomo ora supino a terra ed evitare altri tentativi di attacco da parte sua, poi gli calò con forza un piede sulla gola e la presa che il bandito aveva sulla spada si allentò all’istante, quasi stesse consegnando l’arma a Entreri.

    L’istante successivo l’assassino si allontanò d’un balzo per non avere i piedi ostacolati, adesso che gli altri due gli erano quasi addosso, uno davanti a lui e uno alle sue spalle, e contemporaneamente protese la spada in un attacco portato con la mano sinistra, un primo affondo seguito con rapidità incredibile da un secondo. L’assalitore non ebbe difficoltà a evitare l’attacco, sebbene Entreri non avesse avuto intenzione di colpire davvero ma soltanto di guadagnare tempo: passata la spada nella destra, impugnandola dall’alto in basso, indietreggiò in maniera del tutto improvvisa e girò la mano e l’arma in modo da protenderle in un affondo alle proprie spalle. L’istante successivo l’assassino sentì la punta della lama che penetrava nel petto dell’assalitore che si trovava dietro di lui e udì il sussulto affannoso che questi emise quando l’arma gli trapassò un polmone.

    Agendo istintivamente, Entreri ruotò poi su se stesso verso destra, tenendo sempre l’assalitore impalato sulla spada in modo da portarlo davanti a sé come uno scudo che lo proteggesse dall’arciere nascosto. Questi in effetti tentò proprio allora un secondo tiro ma di nuovo mancò vistosamente la mira, tanto che la freccia si andò a piantare nel terreno un paio di metri più avanti rispetto a Entreri.

    «Idiota», borbottò fra sé l’assassino, poi con uno strattone improvviso scagliò a terra la propria vittima e sollevò la spada con un singolo movimento fluido, una manovra eseguita in maniera tanto brillante che l’unico sicario rimasto si rese conto infine della propria follia e si girò, dandosi alla fuga.

    Subito Entreri si volse di scatto e lanciò la spada nella direzione in cui sapeva essere annidato l’arciere per poi porsi subito al riparo.

    Passò un lungo momento di silenzio.

    «Dov’è?» chiese infine l’arciere, con voce carica di paura e di frustrazione. «Merk, lo vedi?»

    Trascorse un altro lungo minuto.

    «Dov’è?» gridò ancora l’arciere, ormai frenetico. «Merk, dov’è?»

    «Proprio dietro di te», sussurrò una voce, mentre un pugnale adorno di gemme tranciava di netto la corda dell’arco e terminava la sua corsa andandosi a posare contro la gola dell’uomo.

    «Per favore», balbettò questi, tremando così violentemente che furono i suoi movimenti e non quelli di Entreri a causargli una prima leggera ferita prodotta dalla lama affilata. «Ho dei figli, sì, molti, molti figli. Diciassette…».

    Le sue parole si spensero in un gorgoglio quando Entreri gli tagliò la gola da un orecchio all’altro, premendogli al tempo stesso un piede contro la schiena in modo da scagliarlo a terra a faccia in giù.

    «Se è così, avresti dovuto scegliere un lavoro meno rischioso», rispose l’assassino, anche se l’uomo non poteva più sentirlo.

    Sbirciando oltre il gruppo di rocce dietro cui si era rintanato l’arciere, Entreri individuò poi il quarto membro della banda che si stava spostando di ombra in ombra dalla parte opposta della strada, palesemente diretto verso Calimport ma troppo spaventato per uscire allo scoperto. Entreri sapeva che avrebbe potuto raggiungerlo o che avrebbe potuto tendere l’arco e abbatterlo da dove si trovava, ma non lo fece perché non gli importava. Senza neppure prendersi la briga di perquisire i cadaveri in cerca di bottino, pulì il pugnale magico e lo ripose nel fodero, poi tornò sulla strada riflettendo che, in effetti, era rimasto assente per un tempo molto, molto lungo.

    Prima di lasciare quella città, Artemis Entreri aveva conosciuto bene il suo posto nel mondo e a Calimport, cosa cui si trovò a ripensare adesso nel contemplare la città dopo esserne rimasto lontano per molti anni. Comprendeva bene il funzionamento del mondo ombroso da lui abitato in passato e cominciava ora a rendersi conto che in quei vicoli si erano verificati molti cambiamenti: vecchi complici dovevano essere scomparsi e probabilmente la sua reputazione non sarebbe stata sufficiente a permettergli di superare l’incontro iniziale con i nuovi, e spesso autoproclamatisi, capi delle diverse sette e corporazioni.

    «Che cosa mi hai fatto, Drizzt Do’Urden?» si chiese con una risatina, in quanto il primo grande cambiamento nella sua vita si era verificato quando un certo Pasha Pook lo aveva incaricato di recuperare un pendente costituito da un rubino magico sottratto da un halfling fuggiasco. Entreri aveva supposto che si trattasse di una missione abbastanza facile perché conosceva quell’halfling, Regis, e non riteneva che potesse rivelarsi un difficile avversario.

    A quell’epoca però Entreri ignorava che Regis era stato incredibilmente astuto nel circondarsi di potenti alleati e in particolare dell’elfo scuro. Quanti anni erano trascorsi da quando Entreri aveva incontrato per la prima volta Drizzt Do’Urden? Quanti anni da quando aveva incontrato per la prima volta un guerriero suo pari che poteva di diritto mettergli davanti uno specchio da cui risultasse come tutta la sua esistenza fosse una menzogna? Riflettendo su quegli interrogativi Entreri si rese conto che erano passati quasi dieci anni e che, mentre lui si era fatto più vecchio e forse un po’ più lento, il drow non era minimamente invecchiato, considerato che la sua razza poteva vivere anche sei secoli.

    Sì, Drizzt aveva indotto Entreri ad avviarsi sulla pericolosa strada dell’introspezione e l’oscurità era stata soltanto amplificata quando Entreri aveva dato di nuovo la caccia a Drizzt insieme ai resti della sua famiglia. Su un alto costone fuori da Mithral Hall, l’elfo scuro lo aveva sconfitto e lui sarebbe morto se non fosse stato per l’intervento opportunistico di un altro elfo scuro chiamato Jarlaxle che lo aveva salvato e lo aveva portato a Menzoberranzan, la vasta città del drow, la roccaforte di Lolth, la Demoniaca Regina del Caos. Laggiù, in quella città di intrighi e di brutalità, l’assassino umano si era venuto a trovare in una posizione completamente diversa perché là tutti erano assassini e, per quanto i suoi talenti in quel campo fossero incredibili, Entreri era soltanto un umano, fatto questo che lo relegava in fondo alla scala sociale.

    Ciò che lo aveva colpito profondamente nel corso della sua permanenza nella città dei drow non era però stata soltanto la sua posizione sociale ma anche la presa di coscienza di quanto fosse vuota la sua esistenza. In una città piena di uomini come lui, Entreri era giunto a comprendere la follia della propria sicurezza di sé, a rendersi conto di quanto fosse ridicola la sua idea che la fredda dedizione alla pura arte del combattere lo avesse in qualche modo elevato al di sopra della plebaglia. E di questo tornava ora a rendersi conto nel contemplare Calimport, la città che era stato solito considerare la sua casa e che sembrava essere il suo ultimo e unico rifugio nel mondo.

    Nella cupa e misteriosa Menzoberranzan Artemis Entreri era stato umiliato.

    Nell’avviarsi in direzione dell’ancor lontana città, Entreri si chiese molte volte se desiderava davvero tornare. Sapeva che i primi giorni sarebbero stati pericolosi, ma non era il timore per la propria vita a rendere esitante il suo passo di solito tanto baldanzoso: no, era la paura di continuare a vivere.

    Esteriormente poco era cambiato a Calimport, la città di un milione di mendicanti, come Entreri amava definirla. Come si era aspettato, oltrepassò infatti dozzine di miserevoli relitti umani, vestiti di stracci o del tutto nudi, che giacevano al suolo ai margini della strada, probabilmente nel punto stesso in cui le guardie cittadine

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