L'insolito Dante, l'Arte occulta della Divina Commedia
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Anteprima del libro
L'insolito Dante, l'Arte occulta della Divina Commedia - Davide Ultimieri
Note
L’insolito Dante
L'Arte occulta della Divina Commedia
davide.ultimieri@gmail.com
Sotto ‘l velame de li versi strani
Il senso letterale delle prime terzine della Commedia è caratterizzato da un’estrema semplicità e rimanda ai topoi dell’immaginario medievale. All'età di trentacinque anni, Dante si ritrova improvvisamente in una selva oscura, dopo aver smarrito la retta via a causa di un profondo sonno che si era impossessato della sua mente. Colto dalla paura, tenta di fuggire da questo luogo tenebroso salendo sopra un colle, per raggiungere i primi raggi del sole che splendevano sulla vetta.
Sotto un fiabesco apparato narrativo si nasconde nella Commedia un sistema di simboli, che deve essere interpretato; la selva oscura rappresenterebbe il peccato del quale Dante prende consapevolezza e il sentiero che sale sul monte sarebbe il simbolo del cammino verso Dio, identificabile nel sole posto al culmine della montagna come obiettivo da raggiungere.
La salita al monte, però, viene ostacolata da tre fiere: una lonza, un leone e una lupa, che sbarrano il cammino del poeta impedendogli di proseguire la sua ascesa. I commentatori sono concordi nel considerare i tre animali, come figure allegoriche dei peccati principali che il poeta si riconosceva.
Al percorso verso la vetta si oppone per prima una lonza, che è stata interpretata come simbolo della lussuria, poi un leone, che sarebbe simbolo della superbia e infine una lupa, che sarebbe simbolo dell’avarizia. La lonza e il leone, sebbene spaventino Dante, non appaiono opposizioni insormontabili. Trovandosi di fronte alla lonza, il poeta manifesta delle buone speranze di poter superare l’ostacolo, grazie alle condizioni favorevoli rappresentate dall'ora mattutina e dalla stagione primaverile:
" sì ch’a bene sperar m’era cagione
di quella fera alla gaetta pelle
l’ora del tempo e la dolce stagione;".
In realtà, leggendo attentamente i versi del primo canto, la fiera che impedisce a Dante di proseguire il cammino è soltanto la lupa ed è l’unica a far perdere a Dante la speranza di poter raggiungere la vetta del monte:
" questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch’uscìa di sua vista,
ch’io perdei la speranza dell’altezza".
L’interpretazione che associa alle fiere i peccati di lussuria, superbia e avarizia trova fondamento nelle opinioni degli antichi commentatori di Dante, sebbene le motivazioni addotte per attestare questa congettura siano alquanto deboli.
Gli antichi commentatori sono ritenuti fondamentali, poiché appartengono alla stessa cultura di Dante e risultano essere più vicini alle categorie e ai processi mentali del sommo poeta. Occorre, però, tenere in giusta considerazione il fatto che la condivisione di una stessa cultura potrebbe aver portato gli antichi commentatori a cogliere nell'opera dantesca quegli elementi eterodossi considerati all'epoca eversivi.
Il tentativo di ricondurre un’opera all'interno di un quadro normativo ortodosso, potrebbe aver indotto gli antichi commentatori a costruire un sistema interpretativo conforme al pensiero dominante.
Non è da trascurare il fatto che Dante sia stato ritenuto eretico quando ancora era in vita e a tale proposito esiste un’ampia documentazione che non può essere trascurata. La stessa aggiunta dell’aggettivo Divina riferita all'opera di Dante, sebbene il poeta l’abbia semplicemente chiamata più volte Comedìa , testimonia quanto sia stato importante inquadrarla nella cultura ufficiale.
La simbologia dantesca deve essere analizzata con estrema cura e attenzione, poiché per l’uomo medievale la conoscenza si raggiunge attraverso l’interpretazione di ciò che sono gli elementi della realtà.
La realtà contingente per l’uomo medievale nasconde un sistema di relazioni simboliche, che sono alla base di un processo che la mente umana deve elaborare. Per l’uomo medievale il fine non è quello di interiorizzare una verità che promana da Dio come una legge imposta che deve essere riconosciuta nella creazione. Questo, casomai, è l’atteggiamento che l’uomo materialista e razionalista oggi ha nei confronti della scienza. L’uomo medievale crede che i sistemi di simboli, nascosti nel reale, si relazionino tra loro attraverso un processo di interconnessioni che deve essere decrittato, compreso e interiorizzato dall'uomo. L’interiorizzazione della verità rivelata diviene, quindi, lo stadio che rende l’uomo conforme alla natura della divinità, attraverso una metamorfosi umana che si realizza nell'espansione della coscienza. Questa espansione della coscienza è definita da Dante col verbo transumanare " Trasumanar significar per verba / non si poria " e viene considerata come il termine ultimo di un processo che non si realizza affidandosi esclusivamente alla fede, ma alla « ratio » e alla « sapientia » .
La Grazia di Dio appare come un riconoscimento che la divinità attribuisce all'uomo, un premio meritato in virtù di un percorso intellettuale che conduce verso l’illuminazione. La fede è solo il primo stadio, è solo il principio di un percorso " quella fede / ch’è principio alla via di salvazione " il presupposto di un percorso che è poi esclusivamente intellettuale.
Una lettura attenta dei primi versi della Commedia rivela qualche dubbio sull'interpretazione della simbologia dantesca che finora è stata considerata più attendibile.
Dante, cercando di salire sul monte per fuggire dall'orribile luogo della selva oscura, incontra una prima fiera indicata come lonza:
" Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta
una lonza leggiera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;".
L’idea di associare la lonza di Dante alla lince nasce da un riferimento a un verso di Virgilio " maculosae tegmine lyncis " [¹] a cui, come abbiamo già detto, gli antichi commentatori riferiscono il peccato della lussuria.
L’interpretazione potrebbe apparire attendibile se Dante non specificasse, a distanza di pochi versi, un’ulteriore caratteristica di questa lonza definendola animale dalla pelle gaetta:
" sì ch’a bene sperar m’era cagione
di quella fera a la gaetta pelle".
Gaetta è un termine derivato dalla lingua provenzale esattamente come l’espressione " a la " al posto di dalla.
Il termine gaetta, infatti, deriva dal provenzale « gaiet » che vuol dire vivace, variopinto, colorato e che mette allegria; un significato che già Iacomo della Lana e lo stesso Boccaccio avevano evidenziato nei loro commenti alla Commedia .
Tale scelta lessicale non è solo esornativa e nemmeno un vezzo linguistico o un preziosismo poetico, ma rappresenta un’indicazione ben precisa che il lettore medievale era in grado di cogliere.
La citazione provenzale costituisce un vero e proprio « senhal » che rimanda all'ambito culturale della lingua d’Oc e a una produzione letteraria di bestiari a cui il termine gaetta fa riferimento.
Uno dei bestiari tra i più conosciuti, fin dal XIII secolo, era proprio quello del poeta provenzale Richard de Fournival (1201 – 1260) dal titolo Bestiaire d’amour . Proprio in questo bestiario provenzale troviamo le indicazioni che ci permettono di identificare chiaramente l’animale dalla pelle gaetta che Dante descrive nel primo canto dell’ Inferno .
Il bestiario di Richard de Fournival, infatti, ci offre l’immagine di una pantera raffigurata e descritta con la pelle maculata da chiazze variopinte, che corrisponde esattamente al termine provenzale « gaiet » .
Richard de Fournival, Bestiaire d'amour , Panthère
Ciò che sorprende a questo punto è la descrizione che Richard de Fournival ci fornisce della pantera, poiché essa non è presentata come simbolo negativo, vizioso o infausto, ma come un animale dalle straordinarie virtù.
Il poeta provenzale afferma che ogni animale, dopo aver sentito l’alito della pantera, la segue fino alla morte attratto dalla dolcezza del suo profumo. La pantera, inoltre, possiede il potere di guarire ogni animale che le si avvicina, grazie all'effluvio miracoloso del suo fiato. Quindi è giusto, afferma Richard de Fournival, che la pantera sia amata per la sua eccezionale medicina.
Anche il poeta provenzale Bernard de Ventadorn celebra le virtù della pantera affermando che possiede un buon odore ed è caratterizzata da un bel colore:
" Ensement com la panthère
Qui porte tans bone odor,
Et a si bele color,
Que non est beste sauvage
Que par force et par outrage,
Sic tan maie m'fere (…)"
Occorre a questo punto ricordare che Dante conosceva molto bene la poesia di Bernard de Ventadorn, come dimostrano le numerose citazioni del poeta provenzale che troviamo nelle Rime e come rivela la similitudine dell’allodoletta, nel XX canto del Paradiso , dove si ha una ripresa del tema già proposto dal poeta provenzale.
Risulta pertanto impossibile escludere che il termine gaetta non rappresenti un richiamo alla poesia provenzale e ai bestiari in lingua d’Oc, di cui Fournival era il principale punto di riferimento.
Ciò che afferma Richard de Fournival in merito alla pantera, quindi, costituisce un sapere condiviso in ambito medievale e la simbologia che a questo animale veniva attribuita era ampiamente diffusa nella lirica e nella cultura provenzale.
Ma le relazioni testuali che possiamo rintracciare all'interno della letteratura medievale forniscono approfondimenti dagli esiti straordinari.
Hugues de Saint Victor, ( 1096-1141) teologo, filosofo e cardinale francese, tra i principali teorici della scolastica, venerato come beato dalla Chiesa cattolica, nel suo trattato De bestiis afferma:
" È dopo tre giorni di sonno che la pantera sazia del suo cibo, esce dal suo rifugio e dà il segnale che attira tutti gli animali verso i suoi passi.
Allo stesso modo, fu dopo tre giorni che Gesù Cristo, colmato di umiliazioni e di maltrattamenti che i giudei gli avevano fatto patire, uscì dalla sua tomba per la salvezza del mondo. E l’uomo malvagio che, non potendo udire la parola divina né sopportarne l’ineffabile dolcezza, si tenne lontano dalla Chiesa, quindi costui da chi può essere raffigurato se non dal drago che fugge davanti la pantera?
Ma questo drago non è forse espressamente ancora l’immagine di Satana?" [²]
Le fonti medievali, quindi, non solo ci permettono di identificare nella pantera la fiera dantesca dalla gaetta pelle, ma ci forniscono anche informazioni circa le straordinarie virtù che le venivano attribuite, a tal punto da essere considerata dai teologi medievali come il simbolo di Cristo.
L’animale dalla pelle variopinta che Dante incontra " al cominciare dell’erta " non è un simbolo della lussuria e nemmeno di una condizione peccaminosa del poeta, ma rappresenta l’immagine di Cristo.
La pantera, inoltre, sia nei bestiari, sia nei trattati teologici medievali non solo è simbolo di Cristo, ma costituisce un riferimento anche al tema della resurrezione.
Dopo aver incontrato la fiera dalla gaetta pelle, Dante afferma di veder apparire un leone, che pareva procedere contro di lui con la testa alta e una rabbiosa fame. Gli antichi commentatori hanno voluto vedere nel leone il simbolo della superbia e quindi hanno ritenuto che Dante stesse esternando una seconda condizione peccaminosa del suo animo.
Purtroppo, però, il leone come simbolo di superbia non trova fondamento nei bestiari medievali né, tanto meno, nella simbologia cristiana.
Il leone nell' Apocalisse di Giovanni [³] viene presentato come simbolo dell’evangelista Marco da cui, poi, è derivata anche una copiosa produzione iconografica. Sempre nell' Apocalisse il leone viene presentato come simbolo di Cristo, colui che discende dal germoglio di Davide e che è in grado di aprire i sette sigilli. [⁴]
Nell'Antico testamento il leone è simbolo della tribù di Giuda e dei re della stirpe di Davide da cui discende il Messia [⁵] . Nel libro del profeta Amos la parola di Dio è paragonata al ruggito di un leone che genera terrore e suscita la capacità di profetare in coloro che la ascoltano [⁶] . Si nota in questo caso l’analogia con il leone dantesco, che genera paura nel poeta a tal punto da dare l’impressione che tutto l'aere tremasse.
Nel libro di Geremia si trova un’evidente corrispondenza con la descrizione delle tre fiere di Dante, nel passo in cui il profeta manifesta la corruzione generale di Gerusalemme, dove non solo il popolo, ma soprattutto gli uomini più importanti, hanno smarrito la via del Signore e la sua legge. Proprio nei confronti dei grandi uomini di Gerusalemme, Geremia profetizza la punizione di Dio che avverrà ad opera del leone, del leopardo e del lupo.
Nel testo biblico latino compaiono i tre animali indicati con il nome di « leo » , « lupus » e « pardus » . Per quanto riguarda i primi due animali non ci sono dubbi, poiché la traduzione non può che essere leone e lupo, ma per quanto riguarda il termine « pardus » occorre ricordare che in latino sta a indicare sia il leopardo che la pantera. [⁷]
Il leone associato a Dio ricorre molte volte nell'Antico testamento e diviene per il profeta Osea il simbolo del dominio assoluto di Dio nella storia.
Anche l’episodio di Daniele nella fossa dei leoni rivela l’immagine delle fiere come strumenti della punizione di Dio, che distinguono l’innocente dal peccatore ed eseguono gli ordini di Dio attraverso l’angelo intermediario.
Per questo motivo spesso troviamo scolpiti nei protiri delle chiese romaniche le figure dei leoni stilofori, che sorreggono il portico dell’ingresso principale della chiesa, come simbolo di forza divina e guardiani del sacro luogo in cui si compiono i misteri religiosi. Proprio sotto questi protiri nel medioevo si proclamavano le sentenze espresse dalle giurisdizioni ecclesiastiche con la formula " inter leones, coram populo " (tra i leoni e davanti al popolo).
Leoni stilofori nel protiro del duomo di Modena
Leone stiloforo, basilica di S. Maria Maggiore, Bergamo
Il leone lo troviamo anche all'interno delle cattedrali nell'atto di ghermire il drago, simbolo del demonio, come dimostra lo scultore medievale Guglielmo nel duomo di Cagliari.
L’immagine del leone come simbolo di Dio, della fede o più in generale della virtù, non solo è attestata nelle sacre scritture, ma trova conferma anche nei bestiari medievali, oltre che in ambito teologico e filosofico
Richard de Fournival nel Bestiaires d’amours descrive il leone come un animale prodigioso, che è in grado col suo ruggito di resuscitare dopo tre giorni i cuccioli che nascono morti. [⁸]
Pietro Abelardo lo associa all'immagine della resurrezione di Cristo in un carmen in cui esclama:
" Come il cucciolo di leone
Risorgi o Signore!
Che nel terzo giorno il ruggito del padre
risuscita vivifico". [⁹]
Plutarco afferma che il leone è consacrato al Sole poiché viene al mondo con gli occhi aperti. Origène riprende questo tema commentando il Genesi in una sua omelia e afferma:
dormirà come il leone e come un cucciolo di leone era resuscitato
. [¹⁰]
Il bestiario di Aberdeen, manoscritto del XII secolo, afferma che il leone dorme con gli occhi aperti e per questo motivo viene paragonato a Cristo il cui corpo è caduto addormentato sulla croce, mentre la sua natura divina rimaneva sveglia. Afferma, inoltre, che la leonessa partorisce cuccioli morti, che il leone resuscita dopo tre giorni alitando sui loro corpi, come la mano di Dio che ha resuscitato Cristo dai morti il terzo giorno. [¹¹] Lo stesso concetto lo troviamo espresso anche nel bestiario toscano.
Isidoro di Siviglia nelle Etymologiae già nel VI secolo aveva citato le caratteristiche del leone che lo rendono simile a Cristo, sia per quanto riguarda il sonno a occhi aperti, sia per la virtù di resuscitare i cuccioli nati morti [¹²] .
Rabano Mauro