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#Conibambini - Tutta un'altra storia
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#Conibambini - Tutta un'altra storia
E-book197 pagine3 ore

#Conibambini - Tutta un'altra storia

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Info su questo ebook

Per dar voce agli adolescenti di oggi, in particolare quelli nati nei contesti più difficili, l’impresa sociale Con i Bambini ha promosso il contest letterario gratuito #Conibambini – Tutta un’altra storia, nell’ambito delle iniziative del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile.
Il contest, rivolto ai ragazzi di età compresa tra i 14 e i 18 anni, si è concluso il 30 novembre 2017. L’obiettivo non è stato solo quello di far emergere uno spaccato sul mondo adolescenziale di questi giorni, con tutti gli ostacoli economici, sociali e culturali che impediscono ai giovani di sviluppare i loro talenti, ma soprattutto quello di dare spazio al loro punto di vista sulla realtà, di raccontare la loro volontà di cambiare le cose, la creatività e i sogni che, “nonostante tutto”, non muoiono e cercano uno sbocco reale, per ridare centralità ai diritti degli adolescenti, di una generazione talmente liquida da sembrare invisibile.
Il filo conduttore del contest è legato a tre parole chiave: periferie, povertà educativa, comunità educante.
Numerosi racconti sono arrivati da ogni parte d’Italia: molti sono scritti in prima persona, sotto forma di diario; alcuni prendono spunto da situazioni reali, altri sono ispirati a temi sociali e fatti di cronaca. Ma in tutti emerge una forte sensibilità e il desiderio di costruire un futuro all’altezza dei giovani.
I racconti sono stati valutati da una giuria composta da quattro scrittori affermati: Carlo Lucarelli, Chiara Gamberale, Giovanni Tizian e Manuela Salvi. In ventiquattro sono stati scelti per entrare a far parte di questo ebook, scaricabile gratuitamente online e presentato a Roma in occasione della chiusura della manifestazione nazionale itinerante #Conibambini – Tutta un’altra storia.
LinguaItaliano
Data di uscita5 ott 2018
ISBN9788829520497
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    Anteprima del libro

    #Conibambini - Tutta un'altra storia - Autori vari

    scrittrice

    Racconti

    COME UN CUBO DI RUBIK

    Gloria Bruno, 14 anni, Ceglie Messapica (BR)

    Non ci avevo messo moltissimo tempo per capire cosa mi fosse successo. Di certo come avrei potuto non fare due più due una volta dopo aver visto il mio corpo agonizzante nel soggiorno, immerso in una pozza di sangue.

    Sì insomma con un padre così avrei potuto aspettarmelo da ormai molto tempo. Mi dispiace di essere morto, sì ma solo perché forse prima avrei voluto fare altre cose. Del resto non mi preoccupa molto il mio sonno eterno, la mia patetica vita non era certamente migliore di quello che mi avrebbe potuto riservare l’aldilà. La mia vita è, o meglio era, uno schifoso intreccio di tante piccole patetiche situazioni a cui sporadicamente riuscivo a venirne fuori, e l’attimo di sollievo che si provava in quell’istante veniva subito spazzato via da una nuova tempesta di rogne pronte a darti la tortura fino allo sfinimento. Come uno di quei difficilissimi cubi di Rubik a cui dopo aver trovato la soluzione per un lato, i restanti cinque erano ancora tutti in disordine, pronti a farti rinunciare se troppo complicati.

    Ecco, la mia esistenza era questo ormai, un complicatissimo cubo di Rubik.

    Sin da piccolo avevo vissuto in una zona molto malfamata della capitale. Il quartiere di Corviale, a Roma, nella periferia sud-ovest, molto nota anche per il grande edificio in cui io vivo, il serpentone. Il serpentone è il luogo simbolo del quartiere di Corviale, e si tratta di edifici dedicati ad attività della camorra e della criminalità organizzata romana.

    Tasto dolente per me questo, mio padre faceva parte di questo giro di malfattori, e ho toccato con mano questa situazione non poco meno di due giorni fa, quando l’uomo che mi ha dato la vita è stato costretto a spararmi per degli affari irrisolti in cui io avevo cercato di immischiarmi, ma alla fine sarebbe accaduto ugualmente, e questo mi consola.

    Mia sorella, Merida, forse solo per lei mi dispiaceva. Con tutte le mie forze mi dispiaceva che avrebbe dovuto superare tutto questo da sola, all’età di soli dieci anni, la perdita di un fratello, un padre ubriaco, cocainomane e mafioso, la scuola che dava sostegno per il minimo indispensabile che fosse necessario.

    Avrebbe dovuto vedersela da sola d’ora in poi la mia piccola combattente. Ma ero tranquillo al pensiero che Michael fosse rimasto con lei.

    Anche lei come me, arrivati a questo punto, aveva pochi sogni, molti dei quali ormai irrealizzabili.

    Quando mi stendevo con lei nel letto mentre la polizia veniva a farci i blitz nell’appartamento, lei aveva paura che ci succedesse qualcosa, e quindi per tranquillizzarla mi raccontava dei suoi sogni.

    «Vorrei per prima cosa un letto decente, questo è scomodo» aveva detto sistemandosi meglio nel letto, facendomi ridacchiare.

    «Vorrei una casa enorme, al centro di Roma, una grande e con la terrazza, sì con la terrazza sarebbe perfetta, come quella di Ludovica; poi vorrei un bellissimo iPhone, rosa, l’ultimo modello, come quello di Sarah. E poi vorrei...» in quell’istante si bloccò, mi guardò e riprese a parlare, questa volta più decisa di prima.

    «Sai cosa Marco? No, non le vorrei quelle cose, non me ne farei niente, io vorrei solo che la mamma non fosse andata via, che papà non facesse cose brutte, e che tu rimanessi con me per sempre, solo questo fratello, solo questo» aveva detto prima di sprofondare tra le braccia di Morfeo.

    Aveva perso le speranze per tutti i suoi sogni ormai, è la cosa più brutta per un ragazzo, non poter avere più sogni.

    I sogni sono alla base di tutto, di tutto quello che noi adolescenti cerchiamo ogni giorno di realizzare, e la convinzione che un giorno potremo veramente arrivarci, ci fa avvicinare sempre di più fino a quando non lo avremo conquistato, e punteremo sempre più in alto.

    Come si dice punta alla luna, male che vada avrai vagabondato fra le stelle.

    Altro tasto dolente della mia vita era la scuola. Dio mio come la rimpiango.

    Mi mancheranno i miei amici, quei pochi che avevo, il mio migliore amico Mattia, la strana darkettona Irina, la bellissima bionda Mariachiara. Mi mancherà stare con loro, ero un tipo timido io, per farmi degli amici mi ci era voluto tempo, ma in quindici anni di vita qualcuno alla fine ha trovato me.

    Mi mancherà perfino quella strega della professoressa di biologia, il suo sorriso sadico di prima mattina e le sue interrogazioni da due ore solo per dispetto.

    La scuola che frequentavo io non era di certo Harvard, ma non mi ci potevo lamentare, a volte toccava rimanere senza banco, senza sedia, essere sbattuti fuori dall’aula, venire picchiati da quelli più grandi senza cervello, o subire le risate peggiori quando si chiedevano informazioni per una biblioteca o quantomeno una libreria o uno scaffale adibito alla lettura per i ragazzi, ma del resto eravamo a posto.

    Ho fatto nascere persino il primo progetto per il mio Istituto, lib(e)ri lo avevo chiamato. Avevo posto una specie di libreria all’entrata della scuola, dove ognuno poteva regalare un libro cosicché chi fosse venuto dopo avrebbe trovato qualcosa da leggere, e appena finito rimetterlo al proprio posto così da farlo girare in più mani possibili.

    Tra alti e bassi il mio progetto funzionò, ovviamente qualcuno rubò qualche libro, ma devo dire che non mi dispiacque per niente, anzi mi fece quasi piacere, anche se avrebbero potuto almeno chiedere. Adesso, che non sarò più presente, non so che fine farà tutto quello che avevo realizzato, spero solo che qualcuno con i miei stessi ideali possa continuare quello che avevo con forte motivazione iniziato.

    Amavo leggere, più di qualsiasi altra cosa ci fosse al mondo. Più del calcio, più della PlayStation, più di stare in giro con gli amici a scrivere sui muri dietro alla Piramide Cestia.

    Per me leggere significava entrare in un mondo migliore, un mondo che non era il mio, ma che per qualche momento avrei voluto che lo fosse.

    Leggevo per cercare la mia storia, tra tutte quelle simpatiche storie del vissero alla fine felici e contenti, nessuna storia che avessi letto, partendo dal fantasy, andando al romanzo storico, passando per la fan-fiction, aveva avuto in comune con me non più di due o tre aspetti, e che il mondo mi si rivoltasse contro, erano sempre negativi.

    Leggevo per sapere più cose, insomma la scuola era quella che era e cercavo sempre di apprendere il più possibile, la mia famiglia, o quello che ne era rimasto non mi aveva mai seguito su nessun piano di studi, a partire dall’asilo nido, e questo mi rese vulnerabile all’ignoranza, ma benedetto quel giorno che conobbi Michael, il triste vecchietto che mi regalò il mio primo libro, e lo ricordo come se fosse ieri, la copertina sgualcita celeste di Il richiamo della foresta di Jack London faceva uno strano contrasto con le mani rugose dell’anziano signore che mi guardava con un sorriso mentre mi porgeva quell’ammasso di fogli inutili per me a quel tempo.

    Andando avanti con gli anni mi è sempre rimasto accanto, e dopo averlo fatto conoscere a mia sorella, ogni giovedì che si rispettasse, dopo aver preso Merida da scuola, andavamo da quel triste vecchietto a fargli compagnia, e per tutta la serata scherzavamo, ridevamo, ci raccontavamo storie e aneddoti, o parlavamo del nuovo libro che avremmo preso in prestito quella sera.

    Michael era in possesso di tutti quei libri per il semplice motivo che la moglie defunta, al ritorno dall’America, gli aveva lasciato un enorme patrimonio, con il quale il saggio vecchietto volle istruirsi maggiormente. Ma rimase solo, e da quel giorno in cui ci trovò ci trattò come i figli che non aveva mai avuto, e per noi fu il padre che avremmo sempre sperato di avere.

    Poco per volta i libri, le storie si incagliavano nella mia testa e più sapevo, più mi rendevo conto di come la mia vita fosse un po’ troppo sprecata forse.

    Da grande sarei voluto diventare uno scrittore, e non avrei cercato più la mia storia, me la sarei scritta io.

    Perché sì, dai, puoi cercare quanto vuoi, fino ai confini del mondo e ritorno, dal Giappone all’Europa, fino a quando la tua vita si sarà ormai stancata, ma nessuna storia è uguale. Saranno simili, ma i dettagli sono quelli che contano, è dei dettagli che ci si innamora. Possano essere di una persona, di un paesaggio, di una storia.

    E nel finale avrei scritto che ci sono giorni in cui se vuoi sopravvivere devi saper sognare. E soprattutto ricordare che la vita è complicata come un cubo di Rubik, ma la soddisfazione che provi dopo aver messo tutti i pezzi al loro posto è immensa e imparagonabile.

    LA MELODIA DELLA FELICITÀ

    Arianna Manzi, 17 anni, Trani

    Non è una semplice scansione ritmica di passi, non una sequenza cadenzata di movimenti. È un viaggio nei più occulti meandri della mente, fino a sfiorare le più sensibili corde dell’anima: la danza, per Maya, è introspezione.

    Si cimentava in strambe coreografie, allenava l’equilibrio camminando sui barili di latta, ingombranti per le strade, e dopo ogni balletto procedeva con i cambi d’abito, ciascuno realizzato con i pezzi di stoffa che si recuperavano quotidianamente dalle pattumiere di ogni angolo di Dharavi.

    A questo erano destinate le bambine come lei, quelle che trepidano per il brulichio del mondo che le circonda ma che, loro lo sanno, sarà sempre inaccessibile per chi vive in uno slum. Quelle che conservano gelosamente un sogno, ma si rassegnano all’idea di non poterlo realizzare. Ma Maya era diversa e lo dicevano i suoi occhi, neri come la pece ma grandi e luminosi come il cielo stellato verso cui erano spesso rivolti. Aveva lo sguardo vispo di chi non può concedersi il lusso di non stare sull’attenti e le sue labbra rosee, nonostante le difficoltà, erano sempre contratte in un sorriso vivace. Aveva tredici anni quando vide, per la prima volta, il corpo segaligno di suo padre procedere verso di lei meccanicamente, come manovrato da un burattinaio, privo della vitalità che lo contraddistingueva da sua moglie, più cupa e consapevole. Maya scrutava il ritmo di quell’andatura forzata e aveva l’impressione che stesse per udire qualcosa che suo padre mai avrebbe sperato di pronunciare.

    «Tesoro, che fai?»

    «Sto cercando un nastrino da aggiungere alle mie pantofole. Sai, papà, mi piacerebbe somigliassero a quelle delle ballerine di danza classica».

    «La ami così tanto?»

    «Cosa, papà?»

    «Ma come cosa? La danza! Parlavamo di quello o no, sciocchina?!»

    Maya annuì sorridendo.

    «E se ti dicessi che lì in Occidente ci sono tanti posti in cui potresti imparare a ballare e che ci trasferiremo lì?»

    Restò in silenzio. Comprese la ragione della tristezza che velava lo sguardo assente di sua madre in quei giorni. Prese coscienza della malinconia di una donna costretta a lasciare la terra natìa, i propri ricordi, la propria baracca, in cerca di fortuna. Riuscì a spiegarsi le parole di sua madre che concordava con suo marito ma con palese riluttanza. Alzò lo sguardo e percepì che anche suo padre era estremamente consapevole ma che aveva già deciso, che un pezzo del suo cuore sarebbe rimasto lì a Dharavi, fra le anime lacerate dalla sofferenza di quella povera gente e sotto l’ammasso di rifiuti che si estendeva per tutta lo slum.

    «Faremo come le famiglie della scorsa settimana? Diventeremo migranti e andremo in Italia?»

    «Proprio così. Andremo anche noi in una terra meno desolata di questa, piccola».

    «Ma loro non sono mai arrivati in Italia, papà. Non hai sentito le voci? Il barcone si è rovesciato. Molti di loro sono dispersi».

    «Ti fidi di me?»

    Esitò per un istante. «Sì».

    «Andrà tutto bene».

    Erano ormai passati due mesi e mezzo da quando Maya salì sul barcone, sotto il sole cocente di quella mattinata di giugno ed era il giorno libero del suo papà.

    «Oggi ci andiamo? Vi prego!»

    «Maya, non essere impaziente. Ci sono tante faccende da sbrigare, scatoloni da svuotare, roba da lavare».

    «Ma mamma! Ho aspettato tutti questi giorni - la interruppe - Lo sai che papà resta a casa solo un giorno ogni due settimane! Quanto mi toccherà aspettare…»

    Erano passati cinque giorni dal suo compleanno, sarebbe stato un giorno come tutti gli altri, come era accaduto per tutti i compleanni della sua giovane vita, ma questa volta fu diverso. I suoi genitori sapevano della recente apertura di una scuola di ballo nel centro del milanese. Era stata loro consigliata dalla maestra di italiano di Maya, che oltre a congratularsi per la straordinaria facilità con cui la loro bambina si stava ormai appropriando della lingua, manifestò il suo stupore per il talento che aveva riconosciuto in quella graziosa danzatrice che inaugurava, con le sue movenze leggiadre, ogni manifestazione del concorso sull’arte e la cultura, a cui la scuola aveva aderito senza esitazioni.

    Una congerie di promozioni, offerte e sconti avevano reso plausibile l’ipotesi di regalare alla piccola sognatrice l’iscrizione in una scuola di danza, così come l’aveva sempre sognata: con i pavimenti lucidi, gli specchi splendenti e le casse sempre accese. Da quando le venne riferito di questa possibilità non aspettava altro, moriva dalla voglia di entrarci, speranzosa.

    «Possiamo andarci oggi, i miei risparmi dovrebbero bastare per i biglietti del tram» intervenne suo padre cercando una qualsiasi forma di accondiscendenza per questa sua uscita, negli occhi di sua moglie.

    «Dobbiamo prendere il tram? Non ci sono mai salita» Maya era un tripudio di stupore e titubanza.

    «Certo, Maya. Abitiamo in questo villino in periferia. Non possiamo di certo raggiungere il centro di Milano a piedi. Oggi proveremo il tram e sai, è la prima volta anche per noi. Spero riusciremo presto a procurarci delle biciclette. Dai, corri a sbrigarti e scegli il vestitino più carino che hai!»

    La scelta, in realtà, era fin troppo semplice ma Maya esitò ugualmente per qualche istante davanti allo scatolone polveroso, al centro della camera da letto dei suoi genitori.

    Afferrò un vestitino rosa, composito, che sua madre era riuscita a cucire a Dharavi con residui di tessuti di chissà quale provenienza. Sapeva bene che lo scopo di quell’uscita sarebbe stato solo quello di acquisire maggiori informazioni sui costi, possibilità di pagamento, ma prese ugualmente le scarpe con i nastrini e uscì dal cancelletto arrugginito con i suoi genitori.

    Quando entrarono nell’edificio, il suono di un campanellino stridente li accompagnò fino alla cattedra a cui sedevano i responsabili della scuola di ballo.

    Risposero al saluto dei potenziali clienti fingendo di non aver notato l’obbrobriosa combinazione dei colori dei loro vestiti, la qualità scadente dei tessuti, il taglio di capelli disordinato e soprattutto le in commentabili pantofoline con il nastro rosa che Maya aveva con fierezza in braccio, come se fossero le scarpette di cristallo di Cenerentola.

    La falsità del loro sorriso fu colta dai genitori di Maya, quasi fulminati dalla sprezzante occhiata che fu loro rivolta, ma erano avvezzi a questo tipo di trattamento: venivano spesso trattati così quelli della periferia, figurarsi se il colore della pelle, i lineamenti, l’accento non erano propri di un italiano.

    Il sorriso innocente ed eccitato di Maya dimostrava che, invece, lei non aveva colto nulla di tutto questo, almeno fino

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