Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Perdere tempo per educare: Educare all'utopia dell'epoca del digitale
Perdere tempo per educare: Educare all'utopia dell'epoca del digitale
Perdere tempo per educare: Educare all'utopia dell'epoca del digitale
E-book288 pagine4 ore

Perdere tempo per educare: Educare all'utopia dell'epoca del digitale

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook




Ricorre, tra le pagine di questo intenso scritto, la domanda rousseauiana, se sia ancora possibile perdere tempo per educare le nuove generazioni.
Come si può uscire dallo schiacciamento sul presente dando un futuro a ciò che di più prezioso ci dona il passato?
Partendo dalla quotidiana esperienza pratica di docente e formatore, l’autore sviluppa una riflessione teorica sulle difficoltà dell’educazione odierna segnata sempre più dalla velocizzazione, dalla perdita di autorità delle figure educanti, dalla perdita di mediazione umana dovuta all’espansione del tempo-schermo, dal démariage e dalla crisi del matrimonio, tutti aspetti che mostrano le conseguenze sulla salute psico-fisica dei più giovani.
Il saggio propone di risemantizzare parole quali autorità, testimonianza, limite, mediazione, ordine, disciplina, regole in una pedagogia dell’utopia.
Pensate lontano dall’accademia e dalla formazione come scienza, ma scritte con spirito divulgativo e rigore scientifico, le riflessioni si rivolgono a insegnanti, genitori, nonne, educatori, animatrici, logopedisti, catechisti, allenatrici e a chiunque, nella comunità educante, abbia ancora a cuore la questione politica della relazione tra generazioni.
LinguaItaliano
Data di uscita8 apr 2021
ISBN9791280353603
Perdere tempo per educare: Educare all'utopia dell'epoca del digitale

Correlato a Perdere tempo per educare

Titoli di questa serie (2)

Visualizza altri

Ebook correlati

Metodi e materiali didattici per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Perdere tempo per educare

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Perdere tempo per educare - Simone Lanza

    Prefazione Produrre i cittadini di una società ecosostenibile di S. Latouche*

    Questo libro di Simone Lanza è particolarmente gradito. Da tempo gli obiettori di crescita invocavano da parte mia uno studio esauriente sull’educazione alla decrescita che tuttavia, essendo privo della necessaria esperienza di insegnamento nelle scuole primarie e secondarie, non avevo la competenza di scrivere. La questione dell’educazione intesa in senso ampio — istruzione, formazione, apprendimento — ovvero, per dirla con Castoriadis, la costruzione del cittadino, è un aspetto cruciale del progetto della decrescita. Dal momento che la società della crescita si basa sulla colonizzazione dell’immaginario per mezzo dell’economico, la costruzione di una società alternativa di post-crescita passa attraverso una decolonizzazione di tale immaginario. È chiaro che la formazione e, al suo interno, la scuola, hanno un ruolo fondamentale che è opportuno definire.

    Fin dalla sua nascita, il movimento della decrescita si è posto la questione del problema educativo.1 Ben presto molti insegnanti hanno preso a interessarsene, persuasi della necessità di sensibilizzare gli studenti, a partire dall’infanzia, al progetto della decrescita, e così sono stato invitato a più riprese a parlarne nelle scuole elementari, medie e superiori. Si trattava tuttavia di trasmettere per lo più un messaggio rendendolo appetibile a un uditorio non adulto, che con mia grande sorpresa, spesso condivisa dagli insegnanti, si è mostrato nel complesso incredibilmente ricettivo. Sollecitato da un editore specializzato in edizioni scolastiche a scrivere una introduzione alla decrescita rivolta a un pubblico in età scolare, ho unito gli sforzi con uno dei miei ex studenti, che aveva una pluriennale esperienza di insegnamento nella scuola secondaria, e insieme abbiamo scritto Il tempo della decrescita.2 Tuttavia quel libro raccoglieva solo in parte la sfida, dal momento che presentava sì le tesi della decrescita in una forma accessibile a una platea di studenti, ma non affrontava la questione pedagogica. Ed è proprio su questa che si concentra Simone Lanza.

    Insegnante e padre, Simone Lanza vanta una vasta esperienza di insegnamento e formazione. Possiede, insomma, tutte le qualità necessarie a raccogliere la sfida. Non si limita quindi alla sola questione della scuola, ma approccia il problema in tutta la sua ampiezza, analizzando la perversione della società della crescita basata sull’illimitatezza in tutti i settori — dalla morale all’economia —, descrivendone le ricadute sui nostri bambini e sulla formazione dei cittadini liberi. La sua proposta, infine, è di rimediarvi tramite la costruzione di una società rigenerata. L’imprescindibile reincanto del mondo, conclude, implica un ritorno all’infanzia: come si fa a non depredare il futuro dei nostri bambini, a metterli nella condizione di restaurare il mondo che noi stessi abbiamo depredato?

    Simone Lanza è convinto, come noi, che per pensare una via d’uscita dall’immaginario dominante si debba per prima cosa rintracciare le modalità tramite le quale ci siamo entrati. La colonizzazione delle menti si declina essenzialmente in tre forme: l’educazione, la manipolazione mediatica, il consumo del quotidiano o modo di vivere concreto. «Per infiltrarsi negli spazi vernacolari» osserva Majid Rahnema «il primo homo œconomicus aveva adottato due metodi che ricordano, in un certo senso, uno l’azione del retrovirus dell’HIV e l’altro i sistemi impiegati dai trafficanti di droga».3 Si tratta, cioè, della distruzione delle difese immunitarie e della creazione di nuovi bisogni. Della prima si fa perfettamente carico la scuola, mentre la seconda è appannaggio della pubblicità. In fin dei conti è soprattutto l’assuefazione a generare la tossicodipendenza. La crescita, insieme al consumismo, è infatti, a seconda della prospettiva, tanto un virus perverso quanto una droga.

    L’educazione, la paideia dei Greci, la Bildung dei tedeschi, è ciò che dovrebbe consentire al bambino di diventare un adulto, una persona, e soprattutto un cittadino, anziché un lavoratore disciplinato e un consumatore passivo. Il suo obiettivo è dare ai giovani i mezzi per affermarsi e resistere ai tentativi di alienazione mentale provenienti dall’ambiente circostante. In altre parole, mira ad armarli per affrontare il mondo così com’è, e infine a garantire loro gli strumenti per trasformarlo. Nelle società moderne l’educazione dovrebbe passare sostanzialmente tramite un’unica istituzione, la scuola. Questa deve fornire le competenze tecniche, ma anche la maturità necessaria, per consentire allo studente di operare le sue scelte di vita e inserirsi nel mondo degli adulti. Tuttavia, a differenza dell’istruzione, l’educazione va ben oltre il quadro istituzionale e continua per tutta la vita. Al giornalista canadese David Cawley, che lo interrogava sulla sua educazione, Ivan Illich rispose: «Ma la mia educazione non è conclusa!». Come sappiamo, l’istituzione scolastica è stata oggetto di una critica infuocata da parte dello stesso Illich, in un famoso pamphlet in cui rivendicava addirittura «la descolarizzazione della società». Tale critica, sotto diversi aspetti, resta tuttora di grande attualità. Scrive Illich: «La maggioranza [a scuola] viene addestrata non solo alla disciplina, ma anche alla subordinazione».4 Il fallimento della scolarizzazione, iscritta nella logica dell’istituzione, rappresenta «l’apprendistato dell’insoddisfazione».5 «Le scuole» osserva ancora «sono parte integrante di una società in cui una minoranza è sulla via di diventare talmente produttiva che la maggioranza deve essere istruita a farsi docile consumatrice».6 Per lui la scuola è in sé una droga.

    «La frode perpetrata dai piazzisti di scuole è meno evidente ma assai più sostanziale dell’affare concluso dal compiaciuto rappresentante della Coca-Cola o della Ford, perché l’uomo della scuola avvezza la gente a una droga molto più esigente. Frequentare la scuola elementare non è un lusso innocuo, ma assomiglia piuttosto al masticare coca tipico dell’indio andino, che poi aggioga l’operaio al suo capo. Più alta è la dose di scolarizzazione che un individuo ha assunto, tanto più l’astinenza avrà su di lui un effetto depressivo. Chi lascia la scuola al settimo anno sente la propria inferiorità molto più acutamente di chi l’abbandona al terzo. Le scuole del Terzo Mondo somministrano il loro oppio con assai maggior efficacia delle chiese di altre epoche».7

    Va notato che questa critica è rivolta soprattutto all’esportazione dell’istituzione scolastica al di fuori del mondo occidentale, in Paesi in cui la scuola, veicolo di deculturazione, fabbrica dei disoccupati laureati, disadattati e frustrati, incapaci di cavarsela da soli a differenza di chi non ha studiato ma se la cava comunque nell’economia informale. Tuttavia, questa critica può essere estesa oggi alle periferie trascurate delle metropoli dei Paesi ricchi.

    Resta il fatto che la maggior parte degli insegnanti dei Paesi occidentali, formatisi ancora in una tradizione umanista, sebbene soggetti a una riformite perenne, spesso cercano di resistere alla strumentalizzazione della scuola attraverso programmi e metodi di insegnamento. Questo non impedisce che, volens nolens , anche gli insegnanti finiscano per essere formattati dall’immaginario dominante. Anche in una società attraversata come la nostra dalla lotta di classe, i valori dominanti sono condivisi più o meno da tutti, soprattutto in un momento in cui la vittoria della classe dei ricchi, come dice Warren Baffett, sta per imporsi definitivamente. «La cultura dei poveri non è diversa da quella dei ricchi, devono condividere lo stesso mondo, un mondo che è stato costruito per garantire il massimo beneficio a chi possiede più soldi».8 Proprio come sottolinea Zygmunt Bauman, esiste davvero un «mondo comune» nella società globalizzata, e cioè il pensiero unico. Achille Rossi lo definisce molto bene come un «mito», inteso come ciò in cui crediamo senza esserne consapevoli, e che tratteggia per noi i limiti della realtà.9 La colonizzazione dell’immaginario da parte dell’economico è riscontrabile anche nel nostro considerare l’economia come una funzione fondamentale che garantisce l’umanità dell’essere umano. Per l’élite planetaria, la fede nell’ideologia liberale è a tutti gli effetti una vera religione, e l’insieme di tali valori e credenze è ampiamente condiviso anche al di fuori di questa ristretta cerchia. Ma allora, come uscirne se gli stessi educatori sono educati male e l’istituzione traviata? È la grande sfida di qualsiasi riforma educativa.

    Ed è proprio questa la sfida che Simone Lanza si è proposto di raccogliere. Come noi, l’autore è ben consapevole che, nella società della crescita, l’istituzione scolastica non solo svolge un ruolo molto limitato nell’educazione, ma è essa stessa piegata agli imperativi del produttivismo e del consumismo. La «deregolamentazione educativa» fa parte del programma di totale deregulation del capitalismo, specialmente nella sua fase ultra-liberale. Con grande lucidità, Simone Lanza attribuisce un’enorme importanza agli effetti della crisi familiare nel disincantato mondo moderno, un fenomeno che definisce démariage e che, nel bene e nel male, ha un fortissimo impatto sulla relazione educativa. Oggi l’abdicazione dei genitori, combinata all’aggressione della pubblicità, complica il compito dell’insegnante. «La genitorialità» nota perfettamente il nostro autore «ha trasformato l’educazione in seducazione». Il mondo che lasciamo in eredità ai nostri bambini, quello per il quale vengono «fabbricati», è dilaniato da violenze, guerre, da una spietata concorrenza economica. È, insomma, un mondo completamente «sfasciato», come sfasciati sono d’altronde la maggior parte dei nostri contemporanei. In che modo potrebbero «fabbricare» bambini sani e «non deviati»?

    Di fatto il liberalismo trionfante strumentalizza la legittima messa in discussione dell’autoritarismo con l’obbiettivo di infantilizzare l’intera società. Possiamo parlare con Lanza di «una nuova costruzione ideologica: una bebelogia o bebelatria trionfante». Facendo eco agli specialisti dell’infanzia, l’autore sottolinea le molteplici ricadute negative generate da questa situazione: perdita dell’attenzione, sviluppo dell’aggressività testimoniata dagli scambi sui social network, disturbi sessuali, aumento dell’obesità dovuta alla dipendenza dal cibo spazzatura. Lanza cita tra gli altri Bernard Stiegler, che a tal riguardo parla di «strage degli innocenti», e sviluppa un’accurata analisi dei danni fisici e soprattutto psicologici causati dal sistema dei media. Fin dall’introduzione, l’autore si concentra sull’inarrestabile invasione di schermi di tutti i tipi — televisioni, smartphone, videogiochi, computer — nelle case di ogni famiglia (nove in media, per quattro ore di utilizzo quotidiano). Per i bambini e i ragazzi in età scolare, siamo ben al di sopra dei massimi di esposizione che i neuropsicologi indicano come ragionevoli per l’impatto sulla riduzione del tempo di sonno e sulla qualità di quest’ultimo. La pandemia da coronavirus ha ulteriormente aumentato la dipendenza dagli schermi dentro e fuori dalla scuola, senza che ci si interrogasse sui pur noti pericoli derivanti da un’eccessiva esposizione. L’entusiasmo dei politici e del mondo degli affari per il 5G non aiuta. Le conseguenze sono una crisi dell’autorità genitoriale, un ridimensionamento del ruolo della scuola nella costruzione del soggetto, una dipendenza dai media e dal divertissement che rendono difficile il lavoro degli insegnanti, a cui d’altronde non è più richiesto di formare un cittadino, bensì un consumatore, un fruitore della megamacchina.

    Il disincanto del mondo descritto da Max Weber è aggravato, nella tarda modernità, dallo schiacciamento spazio-temporale generato dall’ accelerazione che il sociologo Harmut Rosa considera come l’essenza della logica di funzionamento del capitalismo iper-moderno, con la sua ossessione per la competitività. L’informazione, intesa nel suo stesso eccesso, ovvero la «sovra-informazione», diventa — secondo l’analisi di Jacques Ellul — disinformazione, e si combina con la pubblicità commerciale e politica per trasformarsi in deformazione, propaganda e manipolazione.10 È una vera e propria opera di avvelenamento. Illich ha analizzato la creazione di bisogni attraverso la pubblicità nei termini di una «reificazione» aliena nte, «vale a dire la traduzione della sete in bisogno di Coca-Cola. Si ottiene questo tipo di reificazione con la manipolazione dei bisogni umani primari operata dalle immense organizzazioni burocratiche che sono riuscite a colonizzare l’immaginario dei potenziali consumatori».11

    Esistono i manipolatori palesi, come imprese transnazionali e lobby economiche (Monsanto, Novartis, Bayer, Dow chemicals e Cie), o gli Stati e i loro servizi specializzati (C.I.A., KGB e i vari altri avatar). Gli esempi di manipolazioni eclatanti riuscite sono innumerevoli: ricordiamo qui l’annuncio dei falsi massacri di Timisoara propagati dal KGB, o le armi di distruzione di massa utilizzate come pretesto dal clan Bush per scatenare la guerra in Iraq.

    In entrambi i casi quando la frode è venuta a galla era ormai troppo tardi, e la disinformazione aveva già realizzato il proprio obiettivo. Quanto alla manipolazione perpetrata dalla pubblicità, risulta ancora più difficile da smascherare, e denunciarne gli effetti porta a risultati addirittura più limitati. Con alcuni media, la manipolazione cosciente e sistematica tocca picchi di cinismo difficilmente superabili, come tristemente testimoniato dalle celebri dichiarazioni di Patrick Le Lay, all’epoca in cui era presidente del primo canale televisivo francese. «Il discorso sulla televisione può essere affrontato a partire da diverse angolature. Ma in una prospettiva di business, bisogna essere realistici: il lavoro di TF1 è, in fin dei conti, aiutare Coca-Cola, ad esempio, a vendere il proprio prodotto. Ora, p erché un messaggio pubblicitario venga recepito, è necessario che il cervello del telespettatore sia disponibile. La vocazione delle nostre trasmissioni è proprio quella di creare tale disponibilità: vale a dire far divertire il telespettatore, rilassarlo, ovvero prepararlo nell’intervallo tra due diversi messaggi. Ciò che vendiamo alla Coca Cola è tempo di cervello umano disponibile».12 In pratica gli stessi manipolatori sono manipolati e, come nel romanzo di John le Carré, Amici assoluti , non sappiamo più chi sta manipolando chi.13 Tanto più in presenza di una manipolazione ben più insidiosa e invisibile, quella generata dallo «spirito del tempo», prodotta da tutti e da nessuno, e ormai parte integrante del nostro modo di vivere.

    D enunciare l’aggressione della pubblicità quale veicolo dell’ideologia è oggi il punto di partenza per lanciare la controffensiva alla manipolazione, palese o latente che sia, per uscire da quello che Castoriadis chiama «onanismo consumista e televisivo».14 «Tutto ciò che accade» osserva «non avviene in contumacia nella società: le persone vogliono questo modo di consumo, questo tipo di vita, vogliono passare molte ore al giorno davanti alla televisione e a giocare al computer in casa. Siamo di fronte a qualcosa di diverso della semplice manipolazione da parte del sistema e delle industrie che ne traggono vantaggio. Qui c’è un enorme movimento — scivolamento — in cui sta tutto insieme: le persone si depoliticizzano, restano confinate nella propria sfera personale, si chiudono all’interno della loro piccola sfera privata — e il sistema fornisce loro i mezzi per farlo. E quello che trovano lì, in questa sfera privata, li distoglie ancora di più dalla responsabilità e dalla partecipazione politica».15

    Secondo alcuni pubblicisti, «all’uomo normale piace essere manipolato», e la manipolazione è legittima perché «soddisfa un bisogno»! Come lo stupro, magari, che risponde al «desiderio di essere violentata», canzona François Brune.16 È persino accaduto che un filosofo, Robert Redeker, elogiasse la pubblicità sulle pagine del quotidiano Le Monde.17 «Ne consegue» scrive François Brune «che uno degli aspetti principali della lotta contro la società dei consumi consisterà, per l’attivista, nel sabotare tale sistema di immagini ovunque esso imperversi, demistificandone le seduzioni e, ancor prima, sottraendosi all’assorbimento».

    Forse la troppa manipolazione uccide la manipolazione. Secondo il famoso adagio generalmente attribuito al presidente Lincoln, si può mentire a molti per un po’, a pochi per sempre, ma non si può mentire per sempre a tutti. È davvero consolante assistere al fallimento di determinate manipolazioni. Per fortuna, una colonizzazione totale delle menti è impossibile; una certa dose di senso critico resiste sempre. Si crede che le persone siano completamente alienate e dominate (si parla persino di lavaggio del cervello o di indottrinamento delle menti), ma in realtà non lo sono mai al punto da annichilire completamente ogni resistenza. Lo abbiamo visto con l’esperienza del socialismo reale nell’URSS. Il dissenso esiste anche in presenza di un regime totalitario, e quando il momento è propizio tale dissenso riesce a imporsi. Non esiste nessuno strumento specifico per entrare nell’universo mentale delle persone. Non dobbiamo entrare nel cervello dei nostri bambini; dobbiamo fidarci di loro perché trovino la propria strada, mettendo in pratica per primi le nostre convinzioni . Hannah Arendt, nei saggi sull’istruzione e la formazione citati da Lanza, getta luce sull’enorme responsabilità degli adulti sull’istruzione e la formazione, e afferma che, per permettere ai nostri figli di divenire dei rivoluzionari, dobbiamo fornire loro un’educazione tradizionale. È ovvio che se impedisco autoritariamente a mio figlio di andare da McDonalds, lui si precipiterà lì non appena ne avrà l’occasione, ed è giusto che lo faccia! Il sistema educativo umanista nel quale siamo cresciuti, in fin dei conti, non era una modalità formativa così malvagia. Non dovremmo vergognarcene. A meno che non ci sia una contraddizione tra questa formazione e l’esempio che diamo ai nostri bambini, ovvero la bulimia consumistica in un mondo completamente colonizzato da tele-spazzatura e GAFAM (Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft). La scuola rimane comunque tuttora uno degli ultimi baluardi di una possibile resistenza .

    Ripensare la «fabbricazione» dei cittadini nell’ottica della costruzione di una società della decrescita significa spingersi oltre la sola problematica dell’educazione, soprattutto se ridotta a mera scolarizzazione. Quel che è importante, affermava Sartre, non è tanto quello che ci è stato fatto, ma quello che facciamo di quello che ci è stato fatto.18 Anche la fabbricazione del cittadino viene fatta o rifatta nella pratica. Per Platone sono le stesse mura della città a educare il cittadino. Ebbene, a cosa possono educare le mura delle nostre città e delle nostre periferie? Sono in grado di formare qualcosa di diverso da consumatori e fruitori frustrati, o — nella peggiore delle ipotesi — «selvaggi» ribelli? Un’urbanistica per lo più orribile e senz’anima, e una pubblicità aggressiva e pervasiva non contribuiranno affatto alla formazione di personalità forti e indipendenti in grado di resistere alla manipolazione mediatica, né tantomeno alla propaganda politica che ne è divenuta il sottoprodotto. Per fortuna esistono organizzazioni alternative che operano ai margini della società, movimenti contro corrente dove si può andare a scuola. «Il sindacato e la cooperativa socialista» scriveva Mauss a suo tempo «sono le fondamenta della società futura ». Michéa commenta: «Nella prospettiva di un socialismo dignitoso (espressione che per Mauss, come più tardi per Orwell, sarebbe potuta essere solo un pleonasmo), queste due forme di organizzazione costituiscono, in effetti, due dei luoghi privilegiati dove i lavoratori, messi in condizione di dispiegare a un livello superiore le proprie qualità morali originali, possono imparare fin da subito (in altre parole, senza dover aspettare che l’avvenire luminoso si faccia carico della loro rieducazione) a rompere metodicamente con l’immaginario utilitaristico del mondo capitalista, mettendo in pratica forme di lotta e convivenza già del tutto compatibili con i valori di gratuità, generosità e mutuo soccorso richiesti da una società socialista».19 La costruzione di una società della decrescita condivide con il socialismo tali valori, ed è chiamata a confrontarsi con il medesimo problema. Molte esperienze alternative, dai GAS (Gruppi d’Acquisto Solidale), alla semplicità volontaria, a certe liste civiche, sono consapevolmente o senza rendersene conto vere scuole di decrescita serena e gioiosa frugalità .

    Come uscire da una società della crescita per costruire un’alternativa sostenibile e, se possibile, conviviale, è una questione molto difficile da dirimere, perché non si può decidere di cambiare il proprio immaginario e tanto meno quello degli altri, soprattutto se sono «dipendenti» dalla droga della crescita. A Castoriadis è stata posta una domanda simile: «In precedenza ha affermato che si deve voler lavorare sulla propria anima, che si deve voler pensare: dunque sarebbe la volontà il punto di partenza di questa ricerca di libertà?» Possiamo far nostra la sua risposta: «Certo, ma questa volontà è motivata anche dalla riflessione, e dal desiderio. Dobbiamo desiderare di essere liberi, se non si desidera essere liberi non si può esserlo. Ma non basta desiderarlo, è necessario farlo, cioè imporre una volontà e attuare una prassi; una prassi riflessiva e deliberata che permette di realizzare questa libertà come possibilità incarnata di quanto desideriamo».20

    I cambiamenti necessari sono facili da identificare. Cionondimeno, non possono essere realizzati con una decisione volontaristica del tipo: «Oggi la pensiamo così, domani dovremo pensare diversamente». «La famiglia, la religione, il linguaggio delle persone» osserva ancora Castoriadis «non si trasformano con leggi e decreti, tanto meno con il terrore» .21 È qualcosa che avviene per autotrasformazione. Tutti i tentativi di cambiare radicalmente i modi di pensare e gli stili di vita imposti più o meno puntualmente con la forza, hanno avuto risultati sinistri, come testimonia l’esperienza dei Khmer rossi in Cambogia. È per questo, del resto, che i nostri avversari, quando vogliono delegittimarci, caricaturizzano le nostre posizioni additandoci come «Khmer verdi».

    Dal momento che l’immaginario è stata colonizzato, il nemico si nasconde nelle nostre profondità. E tuttavia è impossibile rintracciare un responsabile, poiché, in virtù della natura sistemica dei valori dominanti, tale processo è anonimo. L’avversario è individuato quindi ne «gli altri», e così ci sentiamo perlopiù impotenti a trasformare noi stessi. Anche se bisogna puntare senza dubbio a un cambiamento sistemico, la scelta di una diversa etica personale, come la semplicità volontaria, può intervenire a frenare la tendenza, e non deve perciò essere trascurata. Dovrebbe anzi essere incoraggiata, nella misura in cui aiuta a minare le basi dell’immaginario del sistema. «Il rivoluzionario culturale » sostiene Illich «scommette per il futuro sull’educabilità dell’essere umano ».22 Il problema non è tanto persuadere le persone che il «sempre di più» non conduce a un benessere superiore, quanto convincerle che questo stesso benessere spesso si può ottenere con meno, soprattutto dal momento che, come osserva Maurizio Pallante, nella nostra tradizione «meno non è mai stato sinonimo di meglio».23 Su questo punto il lavoro degli intellettuali e degli educatori dotati di coscienza critica può e deve svolgere un ruolo importante, divenire il luogo insostituibile dell’esempio e del dissenso. Non c’è dunque nessuna ricetta miracolosa — e forse è meglio così — ma soltanto linee di pensiero e azione. La società della decrescita 24 decolonizza l’immaginario, ma la decolonizzazione da essa generata è un

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1