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Seraphim. Il tradimento
Seraphim. Il tradimento
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E-book349 pagine5 ore

Seraphim. Il tradimento

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Info su questo ebook

I serafini sono gli angeli più potenti. Da sempre, illuminano gli uomini e dirigono le loro azioni. Al suo ventunesimo compleanno, Noah viene a sapere che il padre, morto in circostanze misteriose, era uno di loro e che ha lasciato proprio a lui una fatale eredità.
Prima che se ne renda conto, viene catapultato in un conflitto tra angeli e demoni, i quali vogliono dominare gli uomini. Pericoli imprevisti, compagni inaspettati, avversari potenti e l’amore eterno lo aspettano alla fine di questa battaglia che dovrà decidere non solo il suo destino, ma anche la sopravvivenza del mondo come lo conosciamo.
LinguaItaliano
Data di uscita21 dic 2018
ISBN9788833170251
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    Anteprima del libro

    Seraphim. Il tradimento - Benno Pamer

    Benno Pamer

    Seraphym

    Il Tradimento

    Urban fantasy

    I Edizione giugno 2018

    ©2018 Astro edizioni Srls, Roma

    www.astroedizioni.it

    info@astroedizioni.it

    ISBN: 978-88-3317-025-1

    Direzione editoriale:

    Francesca Costantino

    Progetto grafico:

    Elisabetta Di Pietro

    Editing:

    Stefano Mancini

    Produzione digitale:

    Laura Platamone

    Tutti i diritti sono

    riservati, incluso

    il diritto di riproduzione,

    integrale e/o parziale

    in qualsiasi forma.

    1

    Per il personale ospedaliero era uno spettacolo penoso e allo stesso tempo già noto. In una sala della Terapia intensiva, all’Ospedale Franz Tappeiner di Merano, sedeva una moglie in lacrime al capezzale del marito in fin di vita. Quasi ogni settimana la scena si ripeteva, cambiavano i protagonisti, ma rimanevano invariate le lacrime e il dolore.

    Barbara faceva l’infermiera. Ed era tra le poche che si soffermava a riflettere sui casi che le capitavano. Ci metteva l’anima, a differenza dei suoi colleghi che, forse per proteggersi dal dolore, evitavano di pensarci.

    Anche lei ci aveva provato, aveva cercato di ignorare pensieri scomodi e penosi sul destino, sulla vita dopo la morte e su altri concetti astratti. Ma non sempre funzionava. A volte essi emergevano all’improvviso e lei si ritrovava seduta nel bagno del personale, senza fiato e in singhiozzi, impegnata a soffiare in un sacchetto di carta, tentando così di reprimere il panico. La maggior parte delle volte si calmava solo molte ore dopo, quando si lasciava cadere sulle lenzuola del suo letto in un bagno di sudore, tra le braccia di una conquista occasionale.

    La sua vita era condizionata dal conflitto tra l’aspirazione ad avere l’aspetto di una delle splendide ragazze delle riviste patinate, che divorava con passione nel suo tempo libero, e la mera e sconfinata voglia di cibo in qualsiasi forma. Negli ultimi anni quel conflitto si era spostato più verso il cibo, e il suo corpo si era trasformato in qualcosa che lei contemplava allo specchio con crescente ribrezzo.

    La donna in lacrime, accanto al letto, commosse Barbara più delle altre che fino a quel giorno aveva visto pregare ai letti di automobilisti coinvolti in gravi incidenti. Nei suoi ricordi erano quasi senza volto, anonime. Qualcosa, invece, in questa donna la attirava, anche se non sapeva cosa. La disorientava lo sguardo castano di quegli occhi infinitamente tristi e pieni di dolore, oppure era l’amore profondo che da essi fuoriusciva, sorridenti nonostante ciò che provava.

    Il suo corpo sembrava distrutto dal dolore e dalla sofferenza. Eppure, i suoi occhi ridevano per la felicità o, per meglio dire, per una felicità passata, ma vissuta.

    Barbara non sapeva se succedesse anche ad altri, ma in otto anni di servizio in Terapia intensiva aveva osservato gli occhi di migliaia di persone in momenti dolorosi, e credeva di poter riconoscere in quegli sguardi quanto fosse stata soddisfacente la vita di ciascuno. In molti vedeva solo il vuoto, in occhi tristi e scavati. O anche lo sconforto e la paura. In altri percepiva soddisfazione ed equilibrio interiore.

    Ma quella donna era diversa anche in quell’aspetto. L’unica cosa visibile nei suoi occhi erano una profonda felicità e gratitudine. Che vita piena doveva aver avuto, al punto che perfino in tali momenti riusciva a conservare la gioia nei suoi occhi luminosi.

    Quell’espressione era però in netto contrasto con tutto il resto del corpo, smunto, quasi senza vita. Giaceva mezza addormentata sul petto del marito… o meglio, su ciò che era rimasto del marito. Dalla cartella clinica, Barbara aveva appreso che l’uomo si chiamava Thomas Seraph, di trentotto anni, professione Key Account in un’agenzia di pubblicità. Come la maggior parte della gente, non riusciva a immaginare che cosa fosse un Key Account, ma suonava molto interessante. In un bar lo avrebbe certamente coinvolto in una conversazione. O anche di più, pensò, mentre osservava la foto allegata di Tom, come già lo chiamava tra sé e sé.

    Si trattava di un uomo di bell’aspetto, che di norma sarebbe stato troppo anziano per lei. Invece, nella foto, Tom aveva degli occhi così vivaci e giovanili che lei si immaginò immersa in un’intensa conversazione con lui. Trovava attraente anche la magnifica chioma biondo scuro e i tratti del viso, spigolosi e distintivi.

    Purtroppo, si trattava di una fototessera dalla quale si poteva intravedere solo un accenno delle spalle forti e muscolose: per il corpo atletico e robusto, le forti gambe e braccia e il bel didietro aveva dovuto farsi trasportare dalla propria immaginazione.

    Mentre pensava a Tom in quel modo, però, non poteva fare a meno di ricordare il suo, di aspetto. Chi mai avrebbe voluto condividere il letto con quella montagna di carne? Senza contare che del signor Seraph non era rimasto molto da conquistare. Secondo il rapporto della polizia, infatti, era stato coinvolto, non colpevole, in un grave incidente d’auto. Si era fermato al semaforo rosso dietro un bus di linea in una strada scoscesa, vicino al Ponte Teatro di Merano. Un camionista dietro di lui aveva distolto lo sguardo dalla strada per un attimo, attratto pare da una ragazza in minigonna.

    Era stato l’inizio della fine. Il camion aveva investito l’utilitaria di Tom a tutta velocità e l’aveva spinta contro il fondo del bus di linea, nel quale non sedeva alcun passeggero. Tom si era trovato incastrato tra i due veicoli, e solo dopo molte ore i pompieri erano riusciti a tirarlo fuori, più morto che vivo, dalla sua non più identificabile Volkswagen Passat.

    Il personale di soccorso intervenuto sul posto aveva parlato di un quasi miracolo, anche se non gli aveva dato molte possibilità di sopravvivere. In ospedale avevano provato a salvarlo con una serie di operazioni durate diverse ore, fino a decidere di lasciarlo scivolare in una morte senza sofferenze, attraverso un coma artificiale.

    Alcune lacrime segnarono le gote rosee di Barbara, mentre rileggeva ancora una volta il rapporto fino alla fine. Il suo cuore si raggelò quando lesse una riga che fino ad allora aveva ignorato. Tom aveva un figlio, Noah, di appena otto mesi.

    Il referto medico le scivolò dalle mani e cadde sbattendo sul pavimento appena pulito. Fino a quel momento, a rompere il silenzio c’era stato solo il suono ticchettante degli zoccoli degli infermieri, che andavano e venivano lungo i corridoi.

    Il rumore inaspettato svegliò Sophie dal leggero sonno che l’aveva sopraffatta, nonostante la sua disperazione.

    «Thomas… perché?».

    Il dolore l’aggredì di nuovo, come quando era stata chiamata dai carabinieri di Merano. Aveva avuto appena il tempo di portare il piccolo Noah da sua madre e poi aveva guidato verso il distretto ospedaliero, che distava 15 chilometri.

    Come attraverso una nebbia fitta, sentiva ancora nelle orecchie le parole dei chirurghi che, dopo la terza o quarta operazione, le avevano detto che non c’era più alcuna speranza. Thomas era ormai tecnicamente deceduto. Sophie avrebbe solo potuto provare a dirgli addio.

    Ma lei non poteva accettarlo. Thomas era il centro del suo universo. Era più forte della maggior parte delle persone, non poteva esserle strappato via a causa di un semplice incidente. La felicità, appena sfiorata con la nascita del loro bambino, gli era stata strappata via con dolore. Non potevano lasciarsi adesso. Non poteva restare senza suo marito.

    Di rado aveva visto un padre così orgoglioso, così soddisfatto di essere in tre, che sfruttava ogni minuto libero e ogni fibra del suo essere per stare con la sua famiglia.

    Tutti i progetti che in lunghe sere avevano fatto per un futuro insieme, in una casetta nella loro valle tranquilla, sembravano destinati a finire. Lei aveva pianificato la loro vita e adesso doveva fare i conti con quella terribile realtà.

    Come avrebbe potuto farcela a vivere da sola, con la responsabilità di allevare una persona così straordinaria? Aveva pensato con soddisfazione agli anni in cui Noah sarebbe diventato grande e avrebbe sviluppato il carattere forte del padre. Thomas era stato la sua bussola, la spalla cui appoggiarsi, quando non riusciva ad affrontare i problemi della vita.

    E ora se ne stava andando.

    *

    Davanti ai suoi occhi vide solo fitti banchi di nebbia, incapace di comprendere dove si trovasse. Tutto era scuro e vuoto, ed era pervaso da una strana stanchezza. Cercava di orientarsi, ma non trovava punti di riferimento che potessero aiutarlo. In quella situazione, non si ricordava nulla che avesse già visto in passato. Non poteva dire se fosse sveglio o se si trovasse in un sonno profondo; l’uno o l’altro si adattavano perfettamente alla condizione in cui si trovava.

    Facendo appello alla sua forza di volontà, riuscì appena ad aprire gli occhi. O almeno lo credette. Quando guardò in basso ne dubitò, perché si accorse di non avere più un corpo. E questo non lo disturbò affatto.

    Nonostante la stanchezza si sentiva completo, era felice e avvertiva come se tutto in lui anelasse al futuro; gli sembrava di stare abbandonando quel luogo desolato e di andare avanti, lontano dai suoi vincoli, fino alla libertà, fino a quella luce insolita emanante gioia, che ora notava e che conosceva già da tempo.

    Nel preciso momento in cui abbandonò i suoi sforzi e si tuffò nel vortice che lo conduceva verso questo fiume di gioia, sentì un colpo. Qualcosa, che non riusciva ad afferrare come immagine, lo spingeva lontano dalla luce. Infastidito per quell’interferenza, si girò e si irrigidì, spaventato.

    Si rese conto di trovarsi in una stanza. Un corpo giaceva in un lettino, collegato a ogni genere di apparecchio e macchinario. Si avvicinò fino ad arrivare a pochi metri di distanza. Infine, fece scendere il proprio io incorporeo sopra il letto. Contemplò il corpo escoriato, che era costellato di macchie blu, ferite e cicatrici di operazioni, da cui fuoriuscivano un grosso numero di tubi di drenaggio che raccoglievano i liquidi.

    Al capezzale sedeva una donna e piangeva. Gli sembrava una persona fidata. Aveva poggiato la testa sul petto del corpo e gemeva. Lui notò i capelli biondo scuro che si arricciavano fino alle spalle; il corpo atletico e allenato infilato nei vestiti eleganti, anche se stropicciati, le caviglie sottili, i piedi ben curati… quanto più a lungo osservava la donna, tanto più aveva l’impressione di conoscerla.

    Poi lei sollevò la testa e lui guardò i suoi occhi brillanti e castani; ne restò colpito. Riconobbe sua moglie Sophie, il suo spirito affine, quella che aveva reso completa la sua vita. Ma perché piangeva al capezzale di uno sconosciuto?

    Prima che si rendesse conto che la gelosia stava crescendo, fu colpito da una gelida comprensione. Era il suo corpo che giaceva là e di conseguenza lui era…

    La luce, la sensazione di gioia, nessun corpo…

    Era morto. O perlomeno, sulla strada per esserlo. Le implicazioni di questa consapevolezza lo colpirono con violenza, e la gioia che fino a quel momento aveva provato fu soffiata via. Di tutti i pensieri penosi che si manifestarono nella sua testa, uno lo colpì ancora più forte e coprì gli altri.

    Noah.

    Il mio piccolo Noah…. Questo pensiero lo fece rabbrividire fin nel profondo.

    Come dal nulla, si sentì di nuovo premere verso il lettino. Si girò, e questa volta vide chi lo stava spingendo.

    Guardò in un paio di occhi blu, senza fondo e irreali. Quella descrizione non lo soddisfaceva, ma era la più corretta. Piombò in un misto di calore, saggezza, fiducia, soddisfazione e consapevolezza che scaturì da quello sguardo, e il dolore, la paura, la tristezza e le preoccupazioni per la sua famiglia vennero spazzate via. L’antica saggezza di quegli occhi gli svelò perché non doveva ancora andare verso la luce, perché non poteva ancora morire come un qualsiasi uomo e riposare in pace.

    Aveva accettato un compito e doveva preoccuparsi che non finisse lì.

    Gli occhi annuirono e, con un profondo sospiro, lui si lasciò cadere verso il proprio corpo. Quello con cui non aveva fatto i conti, però, erano i dolori che lo assalirono non appena si ritrovò dentro se stesso. Un’ondata di crampi, fitte, pressioni e fiato corto lo schiacciò alle lenzuola e quasi gli fece dimenticare il suo incarico.

    Si rese conto che poteva ancora controllare i suoi sensi e sentì qualcosa che, nello stato puramente spirituale di prima, non aveva notato. Era il profumo familiare di sua moglie, che si librava nell’aria e che aveva trovato la strada verso il suo naso attraverso la mistura penetrante dell’ospedale, fatta di disinfettanti, corpi stantii, sangue congelato e altri odori meno invitanti di secrezioni corporali.

    Si focalizzò sul profumo di lei per raccogliere la sua volontà e tentò di fare un movimento col corpo.

    *

    Sophie fece un balzo e guardò elettrizzata il viso bendato del marito. Passò il dorso della mano sugli occhi asciutti e fissò i lineamenti mal riconoscibili di quel volto tanto amato. Avrebbe potuto giurare che avesse mosso un sopracciglio, quello tra i tubicini che sporgevano dal naso e dalla bocca, e che garantivano la respirazione e la nutrizione.

    Impossibile, pensò tra sé e si ricordò della dichiarazione data dai medici. Per loro, Thomas era tecnicamente morto. Allo stesso tempo le venne in mente il motto preferito di suo marito: «L’impossibile non esiste».

    Quante volte aveva sentito da lui quella frase? L’aveva presa da una delle sue molte campagne pubblicitarie e l’aveva eletta a motto della loro vita. Questo ricordo le riportò la speranza e fissò come ipnotizzata gli occhi di Thomas. I minuti passarono e Sophie tornò a credere a un’illusione ottica.

    «Ecco, ecco ancora!», gridò ad alta voce come impazzita, non appena il sopracciglio sinistro di suo marito si alzò verso l’alto. «Infermiera, infermiera!», urlò Sophie attraverso la stanza, come fuori di sé e col cuore che sembrava scoppiare di felicità. «Si muove, è ancora vivo. Presto, infermiera!».

    Barbara era ancora rannicchiata in un angolo del bagno del personale e si asciugò le lacrime di dolore dalle guance. Soffiare nei sacchetti di carta non sembrava avere effetto quel giorno; la sofferenza non riusciva a svanire.

    Poi sentì una voce femminile agitata. Saltò come se fosse stata morsa da una tarantola e si precipitò fuori dal bagno. La miglior medicina contro il dolore erano l’adrenalina e il darsi da fare.

    Non appena arrivò nella stanza, vide la moglie di Tom che la chiamava, in piedi vicino al letto del marito, con un viso eccitato e felice.

    «Infermiera, presto! Guardi, è vivo, si muove, chiami i dottori, presto!».

    «Signora Seraph, si calmi, che succede?», chiese Barbara, senza fiato.

    In quelle situazioni malediceva il suo corpo pesante, che la faceva sentire come se avesse fatto una maratona anche se aveva percorso pochi metri. Al tempo stesso si augurò che la signora Seraph non vedesse le tracce di lacrime e che i suoi occhi gonfi non ne attirassero l’attenzione.

    «Infermiera, è vivo. Ha mosso il sopracciglio. È vivo! Il vostro medico si è sbagliato. Venga, guardi, venga. È vivo».

    Barbara dovette soppesare le parole che sgorgavano con incredibile equilibrio dalle labbra di quella bella donna, finché non ne comprese il contenuto. «Si calmi un momento. E, una cosa alla volta. Che succede?».

    Si rese conto di dover seguire le procedure che aveva imparato alla Claudiana, la scuola superiore di Infermieristica a Bolzano. In primo luogo, calmare i familiari e cercare di ottenere informazioni chiare e precise. Molti parenti, dopo ore di mancanza di sonno, cominciavano a vedere cose che esistevano solo nella loro fantasia, oppure che erano il prodotto di un sogno.

    «Guardi, muove il sopracciglio», se ne uscì ancora la signora.

    Barbara l’osservò con una gran dose d’invidia. Quella signora delicata avrebbe potuto senza problemi comparire su una copertina delle sue riviste, per quanto era bella. Aveva un viso sottile e nobile, con lineamenti molto regolari. I suoi occhi castani le conferivano un’espressione sognante e sensuale perfino in quel momento, nonostante fosse stata inginocchiata accanto al letto del marito senza interruzione per venti ore. A quel viso si associava un corpo anch’esso quasi perfetto.

    Ancora prima che potesse ricadere nel fosso dell’autocommiserazione, la donna la prese per la manica della divisa e la portò presso il lettino. All’inizio le passò per la mente di difendersi e calmare la signora, ma in qualche modo questa trasmetteva un’energia che non le permise di sedersi di nuovo, e che scacciò via qualsiasi resistenza. Senza sapere come ci fosse arrivata, si ritrovò ai piedi del letto di Tom.

    «Adesso guardi per favore, infermeria, il sopracciglio!».

    Barbara osservò il viso di Tom. La pelle, visibile tra i cerotti che tenevano le cannule nella bocca e nel viso, era paonazza e solo con molta fantasia si poteva riconoscere l’uomo che aveva visto in foto. In bocca era conficcato il tubo endotracheale, che lo riforniva di ossigeno. Tramite diversi sensori era collegato a svariate macchine che tenevano sotto controllo le sue funzioni vitali. Lei cercò di riconoscere una variazione su uno degli schermi, ma nessuno di essi indicava, anche solo con approssimazione, un valore che potesse confermare ciò che diceva la moglie.

    «Signora Seraph, mi spiace, ma non rilevo alcun cambiamento».

    «Ma io l’ho visto, davvero». Il suo tono era stridulo e quasi implorante.

    Barbara odiava quei momenti. Non era la prima volta che le capitavano. Le era già successo che un familiare vedesse dei movimenti immaginari nella vittima di un incidente. E ogni volta le toccava dire le stesse parole che disse anche alla donna che le stava davanti: «Mi spiace, signora Seraph, ma purtroppo non è possibile. Suo marito non è più in grado di compiere alcun movimento. È normale vedere delle cose che non succedono davvero, quando non si ha dormito da venti ore. Si sdrai un pochino e si riposi. Tenti di dormire». Prese Sophie per la spalla e la condusse alla sedia.

    Passiva, la donna si sedette e dai suoi occhi scomparve tutta l’intensità sensuale e l’entusiasmo di prima. «Ma l’ho davvero…».

    «Lo so, ma tenti di riposare».

    Barbara notò come la donna, con movimenti lenti e meccanici, si sedette sulla sedia e si mise a guardare nel vuoto. Poi lasciò la stanza.

    *

    Incapace di qualsiasi altro movimento, Tom aveva osservato quello scambio. Sapeva che non gli mancava molto tempo. Più a lungo rimaneva nel proprio corpo, più forte sentiva il piacevole effetto narcotizzante degli antidolorifici e lo sfinimento che lo sopraffaceva a causa dei dolori. Doveva trasmettere il suo messaggio. Non poteva essere l’ultimo, non poteva finire così. Per quella ragione aveva adottato così tante misure precauzionali nel caso della sua morte.

    Si concentrò sul suo corpo e tento di raccogliere le energie che gli erano rimaste. Nonostante il grosso sforzo, si accorse di non esserne in grado. Dei veli cominciarono a radunarsi davanti agli occhi già offuscati. Una sensazione strana e oscura si diffuse in lui e cominciò ad annebbiare il ricordo della luce e del calore che aveva avvertito dopo aver visto quegli occhi misteriosi.

    Appena prima di perdere i sensi, sentì un alito freddo che gli avvolse il collo. Riconobbe lo sguardo blu sulla sua nuca e con un battito di ciglia scemarono i dolori. Si sentì come se avesse acquisito un po’ di controllo sul proprio corpo. Radunò le forze e si concentrò sul suo braccio sinistro. Spendendo le ultime energie, riuscì a sollevarlo.

    *

    Sophie si svegliò dal suo fissare il vuoto. Aveva rilevato un cambiamento nel corpo del marito. Una cannula, che sporgeva da un braccio, era stata spostata ed era scivolata. Adesso era sicura che il suo uomo si fosse mosso. Fissò con così tanta intensità il lettino, che le fecero male le palpebre.

    «Forza Tom, forza», intonò quasi isterica.

    E le uscì di bocca un grido. Tom aveva sollevato il braccio sinistro.

    Sophie si alzò per precipitarsi a chiamare l’infermiera, ma qualcosa la trattenne. Tentò di girarsi e correre via, ma le gambe non le davano retta. Per ragioni incomprensibili, aveva la sensazione che si sarebbe persa qualcosa se fosse uscita dalla stanza in quel momento. Un solo pensiero la influenzava: Guarda Tom!.

    Assecondando quell’impulso che veniva dall’interno, si voltò ancora verso suo marito.

    Era successo qualcosa alla sua mano. Tom non l’aveva solo sollevata o allungata; aveva mosso l’intero braccio. Per di più, la mano sfiorava la spalla e il gomito e indicava verso sinistra. Sembrava quasi come se volesse spingersi sotto il collo. Quell’idea le sembrò troppo assurda per essere vera.

    «Che cosa vuoi dirmi?».

    Sophie non sapeva se l’avesse detto o solo pensato, ma Tom sembrò capire. Si coglieva appena il movimento, ma lei, che osservava con la più profonda concentrazione, si accorse che la punta del gomito si muoveva avanti e indietro.

    Lui voleva richiamare la sua attenzione su qualcosa.

    E lei capì.

    La disposizione del braccio, del gomito e della mano di Tom disegnava una freccia, e il gomito era la punta che indirizzava il suo sguardo in una precisa direzione. Sophie seguì la linea immaginaria, tuttavia non riusciva a riconoscere niente degno di nota. Delusa, guardò tra Tom e l’armadio, dove il gomito indicava.

    Era aperto, ma dentro non c’era niente. Oppure sì? C’era qualcosa in ombra?

    Sophie si alzò, andò all’armadio e notò una cassaforte antiquata in un angolo, dietro una pila di coperte dell’ospedale. L’armadio puzzava di muffa e polvere, e lei era abbastanza sicura che il personale non facesse troppe pulizie, lì.

    Cercò a tastoni la leva in metallo che avrebbe dovuto aprire la cassaforte. Ma scoprì che era chiusa e così guardò delusa nella direzione di Tom.

    Non distinse nessun altro movimento. Si voltò di nuovo e osservò la cassaforte. Era semplice, simile a quelle montate sulla parte posteriore degli armadi in molti hotel. Si poteva aprire con un codice numerico inserito in un quadrante.

    Sophie ci pensò. Quando non era disponibile alcun parente, gli oggetti personali dei pazienti erano, nel caso di incidenti, chiusi nelle rispettive casseforti in camera. Ricordava vagamente che l’infermiera Barbara l’avesse accennato. Ma come venivano stabiliti i codici, quando si verificavano quelle situazioni? Di certo gli impiegati del reparto non usavano troppo la fantasia. Forse, il personale aveva utilizzato un codice cifrato che avesse qualcosa a che fare con i dati personali del paziente. Seguendo il suo intuito, digitò la data di nascita di Tom.

    Non accadde nulla.

    Tentò allora digitando i primi quattro numeri del codice fiscale che erano riportati sulla sua tessera sanitaria.

    Risuonò un click. La serratura si era sbloccata.

    Sophie aprì la cassaforte e trovò all’interno gli effetti personali di Tom: il suo orologio Omega, che lui aveva già quando si erano conosciuti e che non aveva mai sostituito; il suo nuovissimo telefonino, uno dei primi visti nella valle in cui abitavano, insieme a un’agenda senza la quale lui non usciva mai di casa.

    Che cosa aveva voluto dirle Tom? Si voltò verso di lui incuriosita e vide che giaceva ancora immobile sul letto, e che la mano si era irrigidita nella sua posizione iniziale.

    «Sto perdendo la testa, adesso?», disse lei, e l’eco delle sue parole rimbalzò contro le pareti nude dell’ospedale. Con gli oggetti recuperati dalla cassaforte, si sedette sulla sedia vicino al letto. Controllò le tre cose e le soppesò. Né nell’agenda né nel telefonino le sembrò che ci fosse niente di strano. Nel momento in cui sollevò l’orologio, però, mancò poco che lo lasciasse cadere per lo spavento. Di nuovo, Tom aveva mosso un dito.

    Sophie non ebbe più timore che stesse sognando. Si concentrò su suo marito. I movimenti delle dita si ripetevano. Sophie gli afferrò la mano, posò le dita – una volta così forti e, nonostante questo, delicate – sul suo palmo e in quel momento poté non solo vedere il movimento, ma anche sentirlo.

    Dalle sue dita proveniva una leggera pressione. Oppure se la stava immaginando?

    No, erano proprio le sue dita la causa di quella lieve sensazione sul suo palmo, quasi impercettibile, ma comunque presente. Per essere precisi, era il suo dito medio. Sophie si concentrò sul suo tocco. Il dito sfiorava la mano di continuo, sembrava quasi che volesse accarezzarle il palmo.

    Dopo un paio di tentativi, Sophie riconobbe uno schema dietro ai movimenti, che si ripeterono tre volte.

    Medio, mignolo, medio, anulare, medio… Medio, mignolo, medio, anulare, medio… Medio, mignolo, medio, anulare, medio….

    «Sì Tom, lo sento, ho capito!», gridò euforica. «Ma che significa?».

    Come dal nulla, sentì un leggero pungere sul braccio. Non aveva notato il medico che, dietro di lei, si era avvicinato al letto. Spaventata provò a girarsi, ma le braccia del dottore la tenevano ferma.

    «Si calmi, signora Seraph. Lasci andare suo marito», disse il medico con una voce monotona e poco simpatica, che lei aveva già sentito in precedenza. «Adesso dormirà un po’ e poi tutto le apparirà in modo diverso».

    Il sedativo fece effetto. La vista di Sophie si annebbiò e lei si accorse di diventare inerme. La sostanza si posava come un velo freddo sopra il suo cuore e copriva il fuoco interno che fino ad allora l’aveva mantenuta cosciente. Le sue palpebre si chiusero sul viso del medico, il quale si era allontanato da lei con un’espressione quasi maligna. Stava in piedi davanti al letto di Tom e diceva con voce trionfante: «Quindi è finita qui, amico mio. La catena è spezzata!».

    Negli ultimi momenti da sveglia, riconobbe il medico e gli vide un’ulteriore siringa nella mano, piena di un liquido giallo. L’uomo aprì una delle entrate delle cannule sulla mano di Tom e infuse il contenuto della siringa all’interno.

    Sophie avrebbe voluto gridare, ma il suo corpo non era più sotto il suo controllo. Quindi si addormentò e dimenticò gli ultimi minuti quasi subito.

    *

    Tom avrebbe voluto gridare, non appena ebbe notato l’ombra dietro Sophie.

    «Corri», avrebbe voluto urlarle, anche se sapeva che era ridicolo anche solo pensarlo. Conosceva il medico che stava in piedi, dietro sua moglie, con una siringa. Conosceva quegli occhi azzurri, una volta così amichevoli, incorniciati da sopracciglia cespugliose. Non era nuova per lui neanche la barba di tre giorni che gli copriva il mento, regolare e mascolino. Solo l’espressione del viso, le labbra assottigliate e strette che sogghignavano maligne, e l’odio con cui lo guardava, erano nuovi. Avevano perfino combattuto insieme; si erano allenati insieme e si erano preparati alla lotta contro i loro nemici, anche se i loro impegni li avevano allontanati negli ultimi mesi. Ma avevano perseguito sempre gli stessi obiettivi e dunque gli restava difficile accettare quello che aveva appena visto.

    Si era fidato di quell’uomo. Ma quello che aveva appena fatto lì, nell’ospedale, non riusciva a spiegarselo.

    Fino a pochi istanti prima, lo aveva considerato il suo migliore amico. E adesso l’aveva ingannato e aveva narcotizzato sua moglie. Per questo c’era solo una spiegazione: aveva cambiato schieramento. Tentò di inquadrare le conseguenze di quell’atto e si rese sempre più conto della portata del tradimento. Poteva essere la fine, ma aveva ancora una speranza.

    Quell’uomo, infatti, si sbagliava. La catena non si era ancora spezzata. Era danneggiata, certo, intaccata, debole, ed era tenuta insieme solo da pochi fili. E tuttavia c’era

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