La solitudine di Adamo: Il ritorno del commissario Scichilone
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Info su questo ebook
Roberto Negro nasce nel 1960 ad Asti e vive a Perinaldo (IM). Ha trascorso trent’anni in Polizia maturando esperienze nella Polizia Giudiziaria e presso le sedi diplomatiche italiane di Istanbul (Turchia), Karachi (Pakistan) e Colombo (Sri Lanka). È stato cinque anni al Casinò di Sanremo come Responsabile della Sicurezza. Ha collaborato con AIFO (Amici Italiani Raoul Follereau) nel progetto Pro-Han di Ceres (Goias-Brasile) per l’individuazione e la cura dei malati di lebbra. È viaggiatore mancato, fotografo per passione, titolare e cuoco di un’osteria con cucina tipica nel centro storico di Perinaldo (IM). Ama il Rum Añejo, le canzoni di Zibba, l’olio extravergine d’oliva taggiasca, gli spaghetti al pomodoro fresco e basilico. È autore di: Come foglie al vento (1999, ed. CEI Imperia), Uomini senza terra (2000, ed. CEI Imperia), Angeli di strada (2001, ed. CEI Imperia), Sinfonia per un delitto (2002, ed. CEI Imperia), Il tesoro di Perinaldo (2005, Fratelli Frilli Editori Genova), Omicidio ai Balzi Rossi (2006, Fratelli Frilli Editori Genova), Bagiue le streghe di Triora (2007, Fratelli Frilli Editori Genova), I fuochi fatui (2008, Fratelli Frilli Editori Genova), Sinfonia per un delitto (2008, Fratelli Frilli Editori Genova), Bocca di rosa (2010, Fratelli Frilli Editori Genova), Rien ne va plus (2011, Fratelli Frilli Editori Genova), Oltre la giustizia (2012, Fratelli Frilli Editori Genova - 2013, ed. Il sole 24 ore “Opere”) e Anime alla deriva (2013, Fratelli Frilli Editori Genova).
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Anteprima del libro
La solitudine di Adamo - Roberto Negro
1
Scichilone... Vittorio Scichilone è il mio nome e cognome ormai da cinquantasei anni.
Gli occhi marroni, umidi e spenti di Filiberto Carriere, impiegato di quarto livello dell’ufficio anagrafe del Comune di Ventimiglia, lo osservavano da dietro le lenti spesse degli occhiali. La montatura pesante annullava il naso sottile ed il viso dell’uomo che appariva ancora più infantile di quanto la pelle liscia e glabra attestasse.
Le piccole dita della mano destra reggevano a stento una Mont Blanc dalla livrea nera il cui pennino in oro indugiava sul modulo che aveva davanti.
Pareva esitasse nel completarlo, come a dubitare delle generalità che l’utente gli stava comunicando.
Il commissario Scichilone avvertì su di sé lo sguardo inquisitore dell’uomo.
Non capiva quale fosse il problema. In fondo era un ordinario rilascio di carta d’identità, una pratica amministrativa semplice.
Sentì la tensione crescergli dentro lo stomaco sotto forma di un ospite non invitato. Cominciò a sudare copiosamente mentre l’addetto lo fissava in modo neutro senza un battito di ciglia.
C’è qualcosa che non va?
chiese.
Nulla, è che lei sembra molto più vecchio di quello che mi sta dichiarando.
Molto... molto più vecchio?... Dice?
Istintivamente, il commissario spostò l’attenzione sull’immagine riflessa dal vetro dello sportello. Vide un viso segnato da ragnatele di rughe, non solo espressive, in cui la pelle delle gote mostrava un cedimento strutturale, come quella del sottomento.
Non esisteva più nessuna traccia della gioventù, ormai affidata soltanto alle fotografie che aveva appoggiato sul bancone.
Queste non vanno bene, sono troppo datate...ha ancora tutti i capelli!
disse l’impiegato, respingendo le fototessere.
Il commissario le aveva trovate nel cassetto della scrivania, in mezzo a molte altre scattate nel corso degli anni. Si era convinto che potessero andare bene, spinto soprattutto dalla presunzione di non essere cambiato, senza porsi minimamente il problema che il tempo aveva fatto il suo corso, trasformandolo in una persona fisicamente diversa da quella ritratta nelle istantanee.
Ma...
cercò di replicare in un estremo tentativo di pugna.
No guardi, non insista e torni con delle fotografie attuali
disse in modo asettico Filiberto Carriere.
Scichilone si arrese alla sconfitta e dopo aver asciugato con un fazzoletto di carta la testa pelata, lasciò la postazione alla donna grassa che sbirciava dietro di lui.
In effetti...
affermò la signora.
Scusi?
chiese il commissario.
Dicevo che in effetti sembra molto più vecchio.
Si mosse lentamente verso l’uscita senza replicare, avvertendo di colpo sulle spalle un peso, nuovo frutto delle affermazioni di due sconosciuti, che del tutto gratuitamente si erano espressi sulla relazione tra il suo aspetto fisico e la sua età anagrafica.
Scese i tre scalini che lo immettevano su via Ruffini con fatica, come se di anni ne avesse novanta e non cinquantasei. Una volta sul marciapiede si guardò attorno, scoprendo che alle otto e trenta di quella mattina di agosto, Ventimiglia era ancora una città deserta, almeno nell’area posteriore del palazzo comunale e nell’adiacente via Veneto.
Avrebbe dovuto raggiungere l’ufficio, ma si rese conto che non ne aveva affatto voglia. Al di là della strada, l’ingresso dei giardini pubblici lo attrasse come il canto delle sirene per Ulisse e si lasciò trasportare quasi inconsciamente all’interno di questi.
Scelse una panchina al sole, sperando che il calore dei raggi lo aiutasse a sciogliere la sensazione di non appartenenza che provava.
Si sedette come fanno gli anziani, le gambe allargate, il busto sbilanciato in avanti, i gomiti appoggiati alle ginocchia e le dita incrociate tra loro come in una preghiera.
Fissò a lungo la ghiaia del selciato, cercando di allontanare i fantasmi di una vecchiaia che fino a quel momento non aveva considerato. Quella mattina, guardandosi allo specchio, non si era accorto della propria senilità. Dopo la doccia, esaminando l’immagine riflessa, a parte un leggero sovrappeso, non aveva notato nessun segno diverso dalle solite ed ormai accettate rughe espressive. Eppure quelle persone avevano appena espresso opinioni lapidarie e concordi sulla sua età apparente, superiore a quella anagrafica. Come poteva essere stato così poco obiettivo da non sapere riconoscere che l’inevitabile decadimento fisico agiva ad un ritmo molto più veloce del trascorrere del tempo?
Si domandò se soffrisse della sindrome da regina cattiva della fiaba di Biancaneve che con presunzione chiedeva ad uno stupido miroir chi fosse la più bella del reame.
Si sentiva una merda e se avesse avuto a disposizione una bottiglia di Pampero Anniversario avrebbe affogato lo scoramento in una lunga sorsata.
Gli spettri del periodo cupo nel quale era finito l’anno precedente riaffiorarono pericolosamente. La depressione lo aveva eroso poco alla volta, trascinandolo in un buco nero nel quale aveva rischiato di sparire per sempre.
Le origini del dramma, ancora oggi, dopo mesi di sedute con l’avvenente dottoressa Lamberti, non gli erano chiare.
La sua vita era stata esaminata con perizia maniacale e tutte le varie fasi valutate sul piano emozionale, per individuare come e quanto avessero inciso sulla sua personalità.
Famiglia, lavoro, donne, abitudini, manie, sogni, nulla era stato lasciato al caso; alla fine dalla depressione era uscito, ma l’elemento scatenante non era stato individuato. Era la stessa situazione di quelle sue indagini in cui c’è il morto ammazzato, ma non l’assassino.
Per questa inclinazione a razionalizzare ogni cosa si sentiva ancora più frustrato; fosse riuscito a trovare la causa avrebbe saputo come combatterla invece di temere che questa sconosciuta si insinuasse subdolamente nella psiche al primo sbadiglio, compromettendo il fragile equilibrio acquisito a fronte del pagamento di parcelle con troppi zeri.
Proprio ora che stava ritrovando l’autostima perduta, si doveva imbattere in un impiegato troppo lezioso ed in una grassona che non si era fatta i cazzi suoi!
Quello che un tempo avrebbe liquidato con un sonoro e liberatorio vaffanculo, stava minando le poche certezze che aveva, a fatica, riconsolidato.
Prese dalla tasca il telefono cellulare e scorse la rubrica sino alla lettera T
, individuando il numero associato al nickname TETTE PROFUMATE
, alias da lui attribuito alla psicologa più fragrante che avesse mai conosciuto. Durante le prime sedute aveva dovuto controllare il predatore che aveva dentro, evitando di soffermare per troppo tempo lo sguardo sui seni prorompenti che sfacciatamente la donna esibiva, nonostante il bottone disperatamente aggrappato ad un’asola del camice.
Lei aveva rappresentato la scialuppa di salvataggio sulla quale era salito ed anche in quel momento sentì la necessità di avere il suo conforto. Gli squilli si susseguirono sino a quando la voce calda gli soffiò dentro l’orecchio.
Vittorio...
C’erano solo due persone che lo chiamavano così ed una era sua madre.
Ciao...
rispose lui.
Che voce hai, problemi?
chiese la donna.
Mi trovi vecchio?
Affatto
disse lei.
Grazie. Un bacio.
Tanto gli era bastato: la certezza che una delle persone più importanti, in quel momento, della sua vita gli restituisse un po’ di serenità.
Alzò la testa mentre riponeva il cellulare nella tasca posteriore dei pantaloni ed il suo sguardo venne catturato dalla figura che sedeva sulla panchina contrapposta a quella dove era seduto.
Era una donna dal viso gracile, infilata in un cappotto di lana anacronistico per il periodo estivo.
Circondata da diversi sacchetti di plastica appoggiati sul sedile, li teneva stretti a sé come se si volesse proteggere da un’eventuale aggressione.
Aveva la testa avvolta in un foulard legato sotto il mento e le gambe fasciate da una pesante calzamaglia. Le mani erano magre ed ossute mentre le labbra si muovevano rapide nel delirio di un monologo destinato ad un pubblico assente.
Scichilone la osservò a lungo, consapevole che anche lui avrebbe potuto trovarsi nelle stesse condizioni se il corto circuito di cui era stato vittima non si fosse risolto.
Provò pena per la donna ed in un altro momento le avrebbe offerto il proprio aiuto. Conscio di non esserne in grado e rinfrancato dall’esaustiva risposta della dottoressa Lamberti, si alzò avviandosi verso l’uscita dei giardini.
Sulla soglia si fermò per dare un’ultima occhiata alla donna.
Il monologo era finito e la mascella indurita dall’indigenza si distese in un leggero sorriso mentre gli occhi azzurri erano fissi sull’uomo che la stava osservando.
Il commissario ricambiò, abbozzando una smorfia con le labbra carnose, prima di dirigersi verso l’ufficio.
2
Matilde strinse a sé i sacchetti di plastica.
L’uomo che la stava osservando con insistenza non le piaceva per nulla. Aveva occhi da predatore, scuri come la notte, fissi su di lei sin da quando si era seduto sulla panchina di fronte alla sua.
La testa glabra, la mascella quadrata, il collo corto e le scarpe lise che calzava lo inserivano nella categoria delle persone da evitare assolutamente. Pensò che doveva essere uno dei tanti disperati provenienti dall’est europeo alla ricerca di fortuna.
Troppi... e questo qui, poi, mi guarda... non voglio che mi guardi... mi guardi...
mormorò.
Lo vide alzarsi e si fece ancora più minuta di quello che era, scivolando tra i propri effetti, temendo che si potesse avvicinare per derubarla. Dopo qualche istante in cui non successe nulla, sollevò leggermente la testa per guardarsi intorno, sperando di non essere sola in quell’angolo dei giardini pubblici, abitualmente frequentato dagli africani
, ma non vide nessuno in grado di difenderla.
Gli uomini neri li aveva visti arrivare qualche mese prima, ma non erano quelli che di solito vendevano le borse false al mercato del venerdì o per le vie di Ventimiglia. Questi erano diversi, infilati in magliette dai colori sgargianti, dondolavano sulle lunghe gambe, oscillando come giunchi al vento mentre discutevano tra loro in una lingua tanto sconosciuta quanto musicale.
Giungevano presto ai giardini e rimanevano lì molte ore senza fare nulla, come se fossero in attesa di qualcosa che non si verificava mai, ma in quel momento non c’erano.
Accidenti... adesso arriva... arriva... si prende tutto... tutto...
disse con un filo di voce.
Aspettò invano l’attacco del predatore
e quando la curiosità vinse la paura, si sollevò del tutto, giusto il tempo per vederlo, fermo, all’altezza del cancello: le sorrideva.
La smorfia che l’istinto di conservazione produsse fu una specie di ghigno molto simile ad un sorriso che immediatamente represse.
Matilde, sei scema... non si sorride ad uno sconosciuto, specie ad uno come quello lì!
pronunciò, rimproverando se stessa.
Forza, andiamo... andiamo... andiamo, che è tardi
disse mentre si alzava, portando dietro tutti i sacchetti di plastica agganciati agli arti come perle al filo di una collana.
Si mosse in direzione opposta a quella dell’uomo, con l’intenzione di raggiungere l’uscita meridionale dei giardini che l’avrebbe immessa direttamente nella passeggiata a mare.
Ogni tanto si fermava per guardare dietro di sé, temendo di essere seguita. Magari ha fatto solo finta di andarsene... forse sì... forse no... forse...
sussurrò a se stessa.
Il sole riduceva sempre più in fretta le ombre delle poche palme che avevano resistito al Punteruolo rosso, mentre frotte di bambini vocianti la sfioravano lesti, correndo verso i ciottoli della spiaggia che si sviluppava oltre passeggiata Oberdan.
Piano... piano... andate piano, che intanto non scappa... se avete mangiato la colazione non si può fare il bagno prima di tre ore... tre ore... tre ore...
farneticò sommessamente. ...e poi non spaventate gli uccellini... gli uccellini... gli uccellini... ci vogliono tre ore prima di fare il bagno... tre ore... tre ore...
Quando fu sul marciapiede contrapposto ai giardini si voltò per per l’ennesima volta, osservando con attenzione tutto l’osservabile. Non c’è, Matilde... non c’è... non c’è... è inutile che continui a preoccuparti... preoccuparti...
Guardò la passeggiata a mare in direzione levante, consapevole del tragitto che avrebbe dovuto affrontare: circa un chilometro che separava la foce del Roia da quella del Nervia e che in quel breve tratto cambiava nome per quattro volte.
Li ricordava perfettamente quei nomi, conoscendo esattamente il punto in cui uno subentrava all’altro. Li ripeteva in forma meccanica ogni giorno mentre percorreva lo stesso percorso. Ora passeggiata Oberdan... Oberdan...
Mentre camminava manteneva la testa china con il mento che poggiava sul petto e gli occhi incollati al selciato come se non volesse incrociare quelli degli altri.
Le sue labbra si muovevano lievi, riproducendo una melodia sentita alla radio molto tempo prima. ...che cos’è l’amor... chiedilo al vento... che cos’è l’amor... chiedilo alla porta... ahi permette signorina sono il re della cantina... che cos’è l’amor... che cos’è l’amor... ahi permette signorina sono il re della cantina... son monarca... son boemio... che cos’è l’amor... è un sasso nella scarpa... che cos’è l’amor... sono monarca... son boemio...
Dieci minuti dopo si arrestò all’altezza dell’incrocio con via Chiappori. ...ora passeggiata Cavallotti... Cavallotti...
Osservò soddisfatta la profondità della perpendicolare che come un affluente si gettava nell’arteria principale e poi riprese a camminare.
Il caldo cominciava ad essere intenso, ma non per lei che pareva non provare nessun imbarazzo nonostante l’abbraccio soffocante del cappotto di lana e della calzamaglia, mentre sulla spiaggia alla sua destra i corpi seminudi dei bagnanti, cosparsi di olio abbronzante, luccicavano al sole.
Matilde non faceva caso all’umanità che le scivolava a fianco e che con chiaro disappunto cercava di evitarla passandole ad una distanza che reputava di sicurezza.
Prima di arrivare a destinazione si fermò ancora due volte: ...ora passeggiata Trento e Trieste... ora passeggiata Varaldo...
In ultimo si arrestò davanti al cancello arrugginito di una casa indipendente a due piani, circondata da un giardino cinto con rete metallica. Sembrava un corpo estraneo in un contesto di costruzioni moderne che come mostri avevano inghiottito gli ultimi terreni vergini di Ventimiglia.
Annichilito da tanta arroganza, l’edificio sembrava difendere, mediante la fragile recinzione in filo di ferro, lo spazio vitale in cui la natura affermava la propria sovranità con un’esplosione disordinata di vegetazione sponanea.
Una lingua di cemento conduceva al portone ligneo dell’immobile, i cui intonaci sembravano reduci da un attacco bellico, mentre tutte le finestre erano sbarrate da persiane consumate dalla salsedine e dal tempo.
Matilde la percorse tutta prima di sparire oltre la pesante anta.
Il buio piuttosto intenso che l’accolse non parve spaventarla e si mosse con sicurezza lungo il corridoio su cui si affacciavano quattro stanze e la scala che portava al piano superiore.
Abbandonò i sacchetti nella prima alla sua destra, sovrapponendoli ad altri che coprivano i tre quarti del vano. In ognuno di essi conservava soprattutto materiale cartaceo che recuperava per le strade della città: c’erano quotidiani, riviste, manifesti e anche diversi libri, una sorta di raccolta della memoria editoriale di ciò che veniva pubblicato, letto ed abbandonato. Non si butta nulla... nulla, specie le parole... parole. Sono belle le parole... parole...
Dall’ultima raccolta estrasse un quotidiano che portò con sé al piano superiore dove, raggiunta la propria stanza da letto, si svestì del cappotto e del foulard che nascondeva fluenti capelli biondi.
Si accomodò sulla poltrona posta accanto alla finestra che si affacciava sul