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La congrega bianca
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E-book599 pagine9 ore

La congrega bianca

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Fantasy - romanzo (539 pagine) - Chiunque fosse non poteva certo essere un comune essere umano, eppure non avvertiva nessuna magia provenire da lui. Chi o che cosa era? E soprattutto, perché la stava salvando? Un cocktail di magia, sentimento e mistero che vi terrà con il fiato sospeso fino all’ultima parola!


Seril è una giovane strega che ha appena perso i genitori. Un mistero aleggia attorno alla loro morte. E da quando è rimasta sola strane creature la inseguono invocando Samantha. Ma chi è Samantha? E cosa vogliono da lei quei mostri? Forse il seducente Armand può aiutarla a scoprire quale mistero aleggia attorno a lei e alla sua famiglia. O forse fa parte anche lui del complotto? Si deve forse fidare del suo rivale Etienne? Una lotta si combatte da decenni a causa di un tradimento e ora Seril è l’unica che può porre rimedio agli errori della sua antenata.


Francesca Angelinelli esordisce nel 2007 con i primi due romanzi di una serie fantasy orientale, Chariza. Il soffio del vento edito da Runde Taarn Edizioni, riproposto nella collana Odissea Digital Fantasy, a cui fa seguito l’odierno La congrega bianca. Successivamente per Runde Taarn pubblica il fantasy eroico Valaeria (2009), ispirato al mondo della Roma tardo-antica e per Linee Infinite il paranormal romance Werewolf, anch’essi di prossima riproposta in questa collana.

Il 2010 è l’anno del suo ritorno al fantasy orientale con la raccolta Racconti di viaggio del monaco Kyoshi, vincitrice della seconda edizione del Premio di Narrativa Fantastica – Altri Mondi e edita da Montag Editore, e con la pubblicazione del primo volume della Serie delle Cucitrici, Kizu no Kuma. La cicatrice dell'orso, per Casini Editore, primo volume del progetto Ryukoku Monogatari.

Altri racconti brevi sono stati pubblicati in riviste e antologie.

Nella collana Odissea Digital Fantasy sono previsti anche Haibane – Ali di cenere e la raccolta Le avventure di Chariza.

LinguaItaliano
Data di uscita13 nov 2018
ISBN9788825407358
La congrega bianca

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    Anteprima del libro

    La congrega bianca - Francesca Angelinelli

    9788825406061

    Prologo

    Nel buio umido della sua cella si era stretto le ginocchia al petto, rannicchiato nell’angolo più lontano dalla porta aveva coltivato la sua sofferenza nei giorni che erano seguiti la cattura.

    Gli avevano lasciato il tempo per riflettere.

    Aveva urlato, pianto e stretto quel corpo senza vita. L’aveva abbracciata, incurante del sangue e aveva lasciato che si mescolasse alle sue lacrime. Il dolore era stato così intenso che ancora gli bruciava nel petto.

    Lui era uno specchio infranto in mille e mille pezzi.

    Come polvere di vetro che si disperde nell’aria, così aveva visto svanire il vago tepore della gioia che quella ragazza gli aveva offerto. Mentre il corpo di lei scivolava via dalla sua stretta, aveva sentito la speranza sfuggirgli tra le dita e con essa la forza di reagire.

    Sentiva di non avere ragioni per lottare. Perfino il peso del suo stesso corpo era un onere troppo gravoso da sopportare. Non gli importava che lo trascinassero a forza lungo il corridoio scuro che conduceva alla sala del consiglio. Non gli importava quale sarebbe stato il verdetto. Non gli importava della sua sorte.

    Aveva già conosciuto quella sensazione, molto, molto tempo prima, quando un’altra donna che amava era morta e lui non aveva potuto seguirla. Lo aveva desiderato, ma quando ormai si stava lasciando andare qualcuno gli aveva teso una mano e lo aveva riportato nel mondo. Benché non lo avesse strappato del tutto alla morte.

    Ora, invece, avrebbe potuto riprendere quel viaggio.

    Del resto, vivere era diventato insopportabile. Una tortura peggiore di tutte quelle che i suoi carcerieri avrebbero potuto infliggergli.

    Per questo, quasi non avvertì dolore quando i soldati che lo avevano scortato lo colpirono dietro le ginocchia. Cadde a terra, al centro della grande sala ottagonale e sgranò gli occhi sul marmo increspato di venature purpuree del pavimento.

    Sollevò il capo verso i mosaici delle vetrate. Tra le ogive della volta e i capitelli a forma di demone delle colonne, cercò, tra le tante figure sacre che decoravano le finestre, l’immagine della Madonna. Vide la luna piena illuminare i vetri colorati ed ebbe l’impressione che quella luce azzurra lo attraversasse e gli aprisse la strada verso la fine.

    Quando una nuvola passeggera oscurò quel chiarore l’uomo avvertì sulla pelle un brivido acuto, come la puntura di migliaia di aghi.

    La sala era illuminata da numerose candele. Alti ceri bianchi disposti attorno alle statue sacre che riempivano quel luogo. Le fiamme si stendevano sulle antiche pietre grigie e formavano ombre danzanti sui volti immoti dei santi e dei cavalieri. Sguardi che ai suoi occhi sembrarono pesanti e cupi, rivolti in un’unica direzione e tutti sfigurati dalla stessa espressione di disprezzo e condanna.

    Lui trattenne il respiro e sentì torcersi le viscere.

    Tanto sembravano indignate e vive le statue, quanto parevano simili a ombre senza volto le numerose persone che occupavano i palchi di legno disposti lungo le pareti. Uomini e donne in eleganti abiti neri, col capo protetto dai cappucci dei mantelli, la cui presenza era resa percepibile solo dal loro mormorio.

    L’uomo chinò il capo. Non voleva vedere. Non desiderava riconoscere i volti di amici e compagni ormai persi per sempre. Poteva sopportare l’odio che sentiva fluire dai palchi verso di sé, come fumo nero e invisibile che riempiva l’intera sala quasi fosse nebbia, ma non gli sguardi di compatimento e delusione di coloro che aveva conosciuto.

    Chiuse gli occhi e il senso di colpa lo invase. Piegò ancor di più il busto in avanti, quasi fosse sul punto di crollare, e respirò a fatica l’odore dell’incenso che gli aleggiava attorno. Sentì il levarsi di mormorii femminili e sollevò le palpebre, senza però voltarsi.

    Con la coda dell’occhio guardò le dame che, sconcertate e in parte ancora incredule, si portavano le mani guantate alle labbra e, con una falsa espressione di pietà sul volto, fingevano di distogliere lo sguardo da lui.

    Sapeva bene ciò che quelle signore vedevano: un traditore, un assassino, un miserabile caduto tanto in basso da non poter più essere salvato. Quelle dame che un tempo cercavano di attirare la sua attenzione, ora non vedevano che un uomo disonorato, gettato a terra di fronte a quelli che erano stati suoi pari.

    Percepiva con chiarezza il disgusto misto alla compassione nei loro occhi e se ne avesse avuto la forza si sarebbe ribellato all’ipocrisia delle loro occhiate.

    Su di sé portava ancora i segni del crimine che aveva commesso. Il sangue rappreso macchiava i pantaloni scuri e la camicia strappata rivelava il tatuaggio sul suo petto.

    Corrugò la fronte e spalancò gli occhi, mentre piegava leggermente le labbra secche e tumefatte in una smorfia indecifrabile. Deglutì, disgustato egli stesso dello spettacolo che stava offrendo, e si sollevò. Subito i suoi carcerieri calarono l’asta delle lunghe alabarde sulle sue spalle per impedirgli di muoversi, ma lui non aveva alcuna intenzione né di alzarsi in piedi né di tentare in qualche modo di ribellarsi a ciò che presto sarebbe accaduto.

    Afflitto, avvilito e rassegnato, desiderava solo che quel supplizio finisse.

    Guardò il giudice dritto negli occhi e sentì il dolore acuirsi ancora, come se una lama gli trapassasse il petto. L’uomo, seduto di fronte a lui su uno scranno di legno antico, era avvolto da una lunga tunica nera e al prigioniero parve l’immagine stessa della morte.

    Il desiderio di protendersi verso di lui e domandare della giovane morta crebbe fino a farlo sussultare. Avvertì gli occhi infiammarsi, come fosse sul punto di piangere, ma sbatté le palpebre e tornò in sé. Quell’uomo dallo sguardo freddo che presto avrebbe reciso il filo della sua esistenza non poteva parlargli del destino della ragazza. Nessuno poteva. Ma forse lo avrebbe scoperto egli stesso di lì a breve, forse l’avrebbe incontrata una volta che fosse svanito per sempre dal mondo.

    Per questo si sentì invadere da un profondo senso di pace quando il giudice fece cenno al boia di procedere. Altri avrebbero urlato, si sarebbero agitati nel disperato tentativo di sfuggire alla condanna, avrebbero proclamato a gran voce la propria innocenza, avrebbero tremato di paura e avrebbero implorato. Lui invece restò immobile, incurante di ciò che stava per accadere.

    Uno dei carcerieri strappò la manica sinistra della sua camicia e lui non batté ciglio. Tuttavia, trovandosi di fronte al tatuaggio il soldato esitò e si ritrasse, spaventato da quel demone con ali spiegate che pareva fissarlo.

    Un velo di tristezza calò sul volto del condannato: aveva tradito e deluso colui che lo aveva salvato. Scacciò il pensiero. Ormai non poteva più fare nulla. Per un brevissimo istante incrociò lo sguardo severo del giudice e in modo quasi impercettibile gli rivolse un cenno di assenso. Si stupì nel vederlo esitare e per un attimo sentì il proprio corpo divenire di marmo. Non voleva essere salvato. Desiderava solo che tutto finisse.

    Il giudice fece un cenno al boia e questi strappò la manica rimasta della sua camicia, poi strinse il pugno destro e richiamò in esso una luce fortissima, chiara come quella del sole.

    Il condannato fu costretto dalla pressione della mano sinistra del boia sul suo collo a spostare lo sguardo. Attirato dal suono di passi rapidi spostò la sua attenzione in quella direzione. Sgranò gli occhi e cercò di mettere a fuoco la figura che lentamente usciva da uno dei corridoi che si affacciavano sulla sala. La vide accennare un passo e aprire le labbra come sul punto di parlare. Sentì qualcosa agitarsi dentro di sé e fissò con aria implorante l’uomo che era sopraggiunto. Scosse il capo in un cenno di dissenso e abbassò le palpebre nel vederlo rinunciare ai suoi propositi di intervento.

    In quel momento la luce nella mano del boia raggiunse il culmine e l’uomo appoggiò il palmo contro il bicipite destro dell’imputato. L’urlo di dolore riecheggiò sulle pietre antiche della sala ottagonale. Lui inarcò la schiena e mentre le pupille si dilatavano e gli occhi diventavano pozze di dolore un bruciore fortissimo si diffuse dal suo braccio attraverso tutto il corpo. Il tatuaggio che aveva sul petto s’infiammò e la stoffa della camicia attorno a esso andò in brandelli. Tutto il suo corpo sembrò tendersi fino a dilaniarsi. Come se miliardi di aghi lo stessero trafiggendo, come se un’esplosione fortissima stesse avendo origine dal suo petto. Il dolore cresceva, cresceva, cresceva… finché divenne insopportabile ed ebbe l’impressione che il suo essere dovesse svanire da un momento all’altro.

    Le guardie Tuttavia, lo afferrarono per le braccia, nel tentativo di tenerlo il più fermo possibile, mentre si contorceva e agitava le gambe in modo sconnesso, senza che i piedi riuscissero a trovare un appoggio sicuro.

    La sua stessa voce gli sembrò estranea, mentre il fiato gli si mozzava. Ogni cosa attorno a lui divenne opaca e distante, tutto ciò che distinse con chiarezza fu l’ombra delle sue ciglia che si abbassavano sempre più. Ma in quella nebbia riconobbe un volto, tra i molti che assistevano impassibili al suo tormento. Un sorriso beffardo e un’espressione soddisfatta gli si piantarono nel petto come la lama di una spada. Mosse le labbra per pronunciare un nome, senza però riuscire a dar forma ad alcun suono e tentò di sollevare il braccio libero, ma ormai non aveva più forza.

    Il boia e i soldati lo lasciarono libero e lui cadde a terra. Il tonfo del suo corpo inerme riecheggiò qualche istante nel silenzio della sala, poi i mormorii dei presenti ripresero a scivolare tra le pietre antiche.

    01

    Tutto sembrava immobile; avvolto da una grigia nebbia sottile che sfumava i contorni delle cose e impediva di vedere il cielo nero della notte. Anche i suoni erano attutiti da quell‘umidità densa, ma le gocce di brina che scivolavano sui fili d’erba calpestati producevano un tintinnio leggero, come di piccoli cristalli frantumati. L’odore intenso della terra bagnata saliva lentamente mescolandosi a quello dell’asfalto e insieme formavano quell’aroma inconfondibile che ha la notte, un olezzo fresco e pungente insieme. Un profumo a cui il vento unì quello artificiale, di fiori, emanato dai capelli della giovane donna bruna appoggiata a una colonna di pietra.

    Strinse i pugni, ben affondati nelle tasche, lasciandosi sfuggire un sospiro. Il suo fiato caldo salì in una nuvola di vapore biancastro, che si dissolse nell’aria prima di raggiungere la parte superiore della cancellata d’ingresso dei giardini pubblici. La leggera brezza notturna aumentava la sensazione di gelo che le pizzicava la pelle, ma lei si costrinse a rimanere ferma, anche se cominciava a essere infastidita dalla lunga attesa. Pensò che, se il suo appuntamento di mezzanotte non si fosse fatto vivo in fretta, avrebbe finito per congelarsi.

    Eppure, non doveva essere lontano, avvertiva la sua presenza, tutto intorno a lei. Con gli occhi chiusi, concentrandosi solo su ciò che potevano percepire i suoi sensi di strega, aveva la sensazione di vederlo: qualunque cosa fosse, scivolava tra le ombre degli alberi, si nascondeva sotto i cespugli, fuggiva la luce artificiale dei lampioni e si muoveva lento e silenzioso, senza turbare la placida atmosfera di quell’ora tarda.

    La stava osservando. Lei lo sapeva, percepiva quegli occhi fissi su di sé. Anche se si teneva lontano e non osava avvicinarsi, la giovane donna sentiva quello sguardo indagatore cercarla, seguire ogni suo passo.

    Era come se la notte stessa la stesse studiando. E lei aveva iniziato a studiare la notte. Quella forza così misteriosa e insondabile, la incuriosiva, la attirava, suscitava in lei il desiderio di vedere che forma avesse. A chi apparteneva quella magia, celata in modo così accurato da impedirle di riconoscerne la natura?

    Buono o cattivo? Era stato il primo pensiero, quasi infantile, quando aveva avvertito la presenza la prima volta. Ma quell’energia appena accennata, che a fatica e solo con l’esperienza di numerose notti passate in attesa, aveva imparato a riconoscere, sembrava non avere colore, non avere consistenza, era come se fosse del tutto evanescente. Eppure….

    Lei si era convinta che fosse solo un abile travestimento.

    Fu costretta a prendere un profondo respiro, come se emergesse da una lunga apnea, e aprì gli occhi all’improvviso. Ogni volta che la sua mente cominciava a vorticare attorno alle infinite supposizioni riguardo quell’entità, si sentiva trascinare lontano. Come un assetato nel deserto annaspa in cerca d’acqua, lei brancolava in preda al disperato bisogno di qualcosa che non riusciva mai a raggiungere. Forse perché non sapeva ciò che stava cercando. Può darsi che abbia a che fare con quel sogno, si disse mentre le immagini, ormai impresse nella sua mente, riemergevano senza controllo.

    Una grande sala, inondata della luce morbida e dorata delle candele, moltiplicata all’infinito dagli specchi, dalle dorature, dal pavimento tirato a lucido e dagli scintillanti lampadari di cristallo. In un angolo, su un piccolo palco lievemente rialzato, un’orchestra suonava musica da ballo e numerose coppie si muovevano all’unisono, volteggiando leggere. Nella lastra riflettente di fronte a lei vedeva un’altra se stessa, di un’abbagliante bellezza, che indossava un ricco abito color lavanda e teneva in mano un ventaglio di piume dello stesso colore. I capelli, elegantemente raccolti in alto, lasciavano scoperto il collo bianco, liscio e dolcemente curvato. Una sola, morbida ciocca, volutamente lasciata libera dall’acconciatura, ricadeva sulla spalla nuda. Dal riflesso le venivano incontro un malizioso sorriso e occhi brillanti, colmi di una febbrile eccitazione.

    La sensazione di disorientamento e paura provata la prima volta che si era ritrovata a passeggiare in quel sogno era ancora viva in lei. In preda al panico, sentendosi in trappola, aveva tentato disperatamente di svegliarsi, senza riuscirci. Come se si fosse attuata una strana inversione e la realtà tangibile non fosse quella nella quale lei stava sdraiata al sicuro nel suo letto, ma quella nella quale si muoveva, leggera come una farfalla, in quella meravigliosa sala.

    I sentimenti dell’altra se stessa la travolgevano: eccitazione, attesa, emozione, trepidazione… più cercava di mantenere la calma, di trovare una via d’uscita dal sogno, più quei sentimenti, ingenui e violenti, diventavano intensi.

    Notte dopo notte, l’esperienza ricorrente di quel ballo abbandonava la dimensione del sogno per assumere sempre più i contorni di una sfumata reminiscenza. Lei, a poco a poco, si era lasciata andare e quel ricordo, che non le apparteneva, ma che aveva finito col divenire suo.

    Ogni volta tornava a guardarsi nello specchio e poi, da sveglia, se ne chiedeva la ragione. Che cosa cercava in quella superficie lucida e quieta? Forse lo faceva per ricordarsi di essere Seril e nessun’altra e che quel luogo splendido, così come l’abito e l’acconciatura, non le appartenevano. Scrutava il volto riflesso che era il suo, ma nello stesso tempo non lo era, riconoscendo le vaghe differenze che c’erano.

    Quel che non riusciva a capire era se la sua immagine nello specchio fosse davvero felice.

    Anche in quell’istante, nel quale aveva indugiato al sogno, osservò la giovane, nel tentativo di vedere oltre quella che, d’istinto, sapeva essere una maschera di circostanza. Ma, mentre lei corrugava la fronte in un’espressione inquieta, la ragazza dello specchio si voltò, come sempre, con un ampio movimento aggraziato, sorrise a un cavaliere in abito scuro e allungò verso di lui la piccola mano avvolta in un guanto bianco. A quel punto del sogno arrivava la musica, il suono romantico di un pianoforte.

    Avvertì qualcosa, una sensazione sottopelle che non era affatto un brivido di freddo e che la strappò ai suoi ragionamenti. Guardò fisso davanti a sé e aggrottò la fronte, sforzandosi di respirare più lentamente.

    Restò nel punto in cui si trovava, ma la sua mente attraversò tutto il parco in cerca della magia che aveva avvertito e che l’aveva destata dai suoi pensieri. Si decise ad alzare gli occhi e si accorse che la nebbia si era diradata, aprendo il suo velo su una notte serena. Si strinse nel cappotto, tolse le mani dalle tasche e le strofinò l’una con l’altra, soffiandovi sopra, poi si diede una spinta e lasciò il suo sostegno. Entrò nel parco e si avviò lungo il sentiero come se nulla fosse.

    L’ampio viale si perdeva nella notte, nonostante la doppia fila di lampioni che ne seguivano il percorso. All’interno dell’area verde regnava il più assoluto silenzio, come se anche il vento e gli alberi fossero stati messi a tacere.

    La giovane abbassò il capo e sbadigliò, dimenticandosi per un attimo delle vibrazioni che avvertiva. Le palpebre pesanti chiedevano ogni minuto di chiudersi. Le avrebbe assecondate volentieri, ma avvertì un rumore e si allarmò. Spostò le pupille in cerca della fonte dell’energia sospetta, ma fu la sua unica reazione. Non tentò neppure di accelerare il passo, anzi dopo avere proseguito per un paio di metri si fermò e attese che l’aggressore (o gli aggressori, non era ancora certa di quanti e cosa fossero) si rivelasse.

    – Possibile che non lo abbiano ancora capito? – mormorò.

    Esaminò lo spazio circostante con la vista, ma non c’erano altro che i giochi di luci e ombre proiettati dai lampioni. Però il suo intuito le suggeriva di stare in guardia.

    Chiuse gli occhi e fece ciò che le era stato insegnato fin da bambina: annullò i normali sensi umani, così limitati rispetto a quelli degli altri esseri viventi, e richiamò a sé una certa dose di potere, amplificata dalla grande concentrazione che riusciva a ottenere in quei momenti. – Non hai bisogno di occhi per vedere – si disse.

    Improvvisamente riuscì a individuarli. Ectoplasmi. Sei, di livello medio. Fluttuavano, appena al di sotto della superficie del terreno, simili a larve. Grossi bozzoli bianchi con piccoli occhi neri privi di pupilla avvolti da una bava verdastra.

    – Disgustosi – sibilò.

    Era convinta che non sarebbe mai riuscita ad abituarsi alla bruttezza della maggior parte degli esseri che vivevano al di là del mondo tangibile dei comuni esseri umani.

    Gli spettri la circondarono. Si preparavano a lasciare la loro dimensione per invadere la sua. Poi, come se frantumassero un vetro, si lanciarono fuori del flusso normale della loro non esistenza, inglobati in un fluido denso, simile a plasma, di un colore blu fosforescente. Pezzi d’asfalto schizzarono verso l’alto e piovvero tutto intorno. Sospirò. Le crepe sul manto stradale sarebbero rimaste, ma la colpa sarebbe stata data a una gelata notturna.

    Samantha, Samantha…

    Con voci fredde e metalliche gli spettri sussurravano direttamente nella mente di coloro che erano in grado di udirle. E lei, sfortunatamente, poteva sentire quel nome, pronunciato ossessivamente, fin troppo bene.

    – Siete davvero insistenti, oltre che stupidi! – esclamò.

    Samantha, Samantha…

    Non c’era niente da fare. Il nome divenne un canto monotono, mentre gli spettri si facevano sempre più vicini.

    Samantha, Samantha…

    Si guardò attorno per assicurarsi che non ci fosse nessuno. – Dannati spettri. Sono maledettamente fastidiosi – commentò. – Ehi, andatevene e lasciatemi in pace! Come ve lo devo dire che io non sono Samantha? Non so neppure chi sia questa Samantha! Io sono Seril! Capito? Seril.

    Samantha, Samantha…

    Il salmodiare degli spettri continuava e si faceva sempre più pressante. Osservò i suoi aggressori con distacco e scosse il capo. Era inutile prendersela con esseri tanto insignificanti: non avevano coscienza, si muovevano per puro istinto predatorio. Erano attratti da qualcosa. E, a quanto sembrava, quel qualcosa era lei. Solo che non aveva idea del perché.

    Gli spettri si lanciarono su di lei tutti nello stesso istante: anche se erano stati individui distinti e autonomi in vita, ora appartenevano a un’unica entità, erano come le dita della stessa mano. Schivò l’attacco, anche se era stato rapido. Ma doveva rimanere in guardia: per quanto inconsistenti, potevano essere letali. Se anche solo uno dei loro tentacoli bavosi l’avesse sfiorata, sarebbe caduta nella loro dimensione e sarebbe stata inglobata dal vortice che governava quegli esseri. Era così che le era stato descritto quando era bambina: come un grosso gomitolo di lana grigia che vorticava furiosamente spinto da un vento gelido e potentissimo; la madre di tutti gli spettri.

    Saltò e cadde a terra, scansò un viscido tentacolo. Si rialzò e arretrò. I suoi avversari invocavano ossessivamente il nome di Samantha, chiunque fosse, e si avvicinavano lanciandosi su di lei con l’avidità di un affamato. La giovane continuava a sfuggire ai loro attacchi. Ogni volta che si spostava disegnava sull’asfalto un simbolo differente. Non usciva mai di casa senza un gessetto bianco. Era un’abitudine che aveva fin da quando era piccola e considerava la magia come un gioco molto divertente.

    Evitò per l’ennesima volta un tentacolo e guardò lo spettro che le si avvicinava, saltò fuori del cerchio che solo lei poteva vedere e, quando i suoi aggressori fecero per seguirla, si ritrovarono intrappolati in una gabbia di energia mistica. Sarebbero potuti tornare nella loro dimensione e rinunciare all’attacco, invece si premettero contro la parete invisibile della gabbia, che vibrò come se fosse attraversata da scariche elettriche. Gli spettri lanciarono grida atroci scandendo sempre il nome di Samantha e cercarono di protendere i loro tentacoli verso di lei, ma in pochi istanti vennero distrutti e si dissolsero come gocce d’acqua che evaporano.

    La giovane si sistemò una ciocca di capelli castani dietro l’orecchio.

    – È stato facile solo perché erano avversari mediocri – ricordò a se stessa in tono ammonitore.

    Rimase a guardare i segni del combattimento, non solo i simboli magici che aveva tracciato e che cancellò con la punta della scarpa, ma anche l’ombra del fluido magico che quegli esseri avevano lasciato sull’asfalto. Gli umani non avrebbero mai potuto vederlo. A volte invidiava da morire la loro beata ignoranza.

    Si passò le dita sugli occhi.

    – Maledizione! Quando finirà questa storia? Si voltò e riprese a camminare come se nulla fosse accaduto, ma sembrava che quella sera qualcuno le avesse lanciato un potente maleficio. Si fermò e aggrottò la fronte. Fece un passo indietro, molto lentamente, ma la bestia che le sbarrava la strada emise un sottilissimo ringhio di disappunto.

    Sapeva che cosa avrebbe dovuto affrontare: il muso allungato, simile a quello di un cane, il pelo grigio, ispido e ruvido, erano inconfondibili. Dalle labbra nere spuntavano canini simili a pugnali, che brillavano alla luce del lampione, umidi di bava che gocciolava a terra.

    Si reggeva sulle gambe posteriori, i suoi occhi erano del tutto umani, fermi e lucidi, segno di una fortissima determinazione. La tenacia di quello sguardo rendeva il licantropo ancora più terrificante. Se si fosse trovata di fronte una belva impazzita, Seril avrebbe potuto pensare di ucciderla. Quelle iridi d‘uomo però la fissavano, mentre tutti i muscoli del corpo peloso erano tesi e pronti a scattare per aggredirla. Il pelo scuro lungo la colonna vertebrale si sollevò e lei pensò a un gatto che si gonfia e soffia poco prima di attaccare. In un attimo il licantropo le fu addosso, ma lei riuscì a schivarne l’unghiata. Pura fortuna, perché il secondo assalto andò a segno e lei sentì il suo corpo diventare leggerissimo, mentre veniva sbattuto a terra lontano dal luogo dell’agguato. Restò riversa al suolo per qualche istante. L’ansia le impediva di ricordare quello che la madre le aveva insegnato sugli uomini lupo, così estrasse la pistola, sapendo che con quella avrebbe avuto qualche possibilità. Appoggiò le mani al suolo, si sollevò e vide il proprio sangue gocciolare a terra. Non ebbe il tempo di accorgersi d’altro perché il suo avversario la colpì al ventre con un calcio, che la scaraventò di nuovo lontano. Seril rotolò tra l’erba e si sentì mancare il respiro. Guardò le stelle sopra di sé, ma furono subito oscurate dalla sagoma nera del suo nemico.

    Perché non mi azzanna? si domandò, mentre raccoglieva le forze per cercare di evitare l’ennesimo attacco. Perché non mi uccide?

    Il licantropo tese la zampa per afferrarla. Lei rotolò di nuovo sul selciato ed evitò la presa. L’uomo-lupo ringhiò e con un balzo la raggiunse. Seril si rimise in piedi, provò a lanciare un incantesimo, ma non riuscì a pronunciare neppure la prima parola perché la belva la aggredì con una serie di zampate che la obbligarono a spostarsi rapidamente, con una serie di salti all’indietro.

    Riuscì a mettere una certa distanza tra sé e il licantropo, ma lui si nascose tra le piante del parco e cominciò a girarle attorno. Seril si mise in posizione di difesa e cercò di rilassarsi, di concentrarsi sui rumori per isolare quello delle sue zampe, ma il dolore le impediva di richiamare la magia come avrebbe voluto. Il suo sguardo scivolava tra le ombre degli alberi, inseguendo però foglie morte e rami secchi, invece che gli spostamenti del licantropo.

    – Samantha.

    La voce terribilmente umana del suo avversario sembrò provenire da ogni direzione. La giovane girò su se stessa. Il licantropo balzò fuori del suo nascondiglio e la prese alle spalle. Seril riuscì a voltarsi e le partì uno sparo, l’eco restò sospeso nella notte, mentre lei calava un colpo col taglio della mano sull’incavo tra la spalla e il collo. Una mossa che avrebbe per lo meno disturbato un avversario umano, ma che sembrò poco più che una carezza sul corpo dell’uomo lupo.

    – Samantha.

    – Io non sono Samantha! Il licantropo si avvicinò.

    – Non mi inganni streghetta, tu sei Samantha.

    Con una zampata cercò di ghermirla. Lei schizzò indietro per cercare di sfuggirgli, mentre rifletteva. Non riuscì a dominare l’angoscia e, anche se desiderava con tutte le sue forze evitarlo, tremò. Alzò lo sguardo e se lo ritrovò davanti.

    La colpì di nuovo. Seril provò a bloccare le sue zampate, ma ci riuscì solo un paio di volte e in ogni caso la loro forza la costrinse ad arretrare. Si scostò, caricò il braccio e provò a colpire l’avversario. Fu tutto inutile. Il lupo le afferrò il braccio prima che la sua mano raggiungesse il corpo peloso. Seril gridò di dolore; la presa era serrata e fortissima e credette che le avrebbe spezzato il polso. Poi sentì le unghie che le laceravano la pelle e si infilavano sotto provocandole un bruciore intenso. Pensò alla forza magica che era venuta a cercare e che non riusciva a più percepire perché indebolita dalla lotta. Se sei un amico, allora vieni ad aiutarmi. Oppure anche tu vuoi questa Samantha, come gli altri? Avanti, fatti vedere! Strinse le dita attorno alla pistola e tentò di sparare ancora, ma non ci riuscì perché tutte le sue energie erano concentrate nel tentativo di non lasciarla cadere.

    La zampa libera del licantropo si serrò intorno alla sua gola. Seril lo sentì lasciare la stretta sul polso e sollevarla, con la sola forza di un braccio. D’istinto si aggrappò all’avambraccio del suo rivale. Si sentì mancare il respiro, ma mentre avvertiva le palpebre farsi più pesanti, un’idea le attraversò la mente come un fulmine. Guardò la belva e strinse gli occhi, fissandolo con rabbia. – Bastardo – cercò di dire.

    – Vieni con me – sussurrò l’uomo-lupo.

    Seril deglutì, lasciò la presa sul braccio e allungò le mani fino a sfiorare il petto del licantropo. Lui la fissò perplesso. Dalle dita di Seril scaturì una fiammata. Il fuoco magico lambì la belva, che proruppe in un grido di dolore e di rabbia. Un disgustoso odore di pelo bruciato si diffuse nell’aria. La sua zampa si aprì, lasciando libera Seril, mentre tutto quello che restava di umano, dalla sua voce ai suoi occhi, svaniva nel completamento della trasformazione.

    Seril si allontanò ansimando e tossendo. Alzò lo sguardo e vide il lupo venirle incontro movendosi su tutte e quattro le zampe. Dalla sua gola uscivano ululati e ringhi feroci e i suoi occhi erano due fessure gialle piene d’odio. Con un balzo il licantropo tentò di assalirla per l’ennesima volta. Seril scappò e frappose tra loro un muro di fiamme. Il suo rivale si fermò di fronte al fuoco, ululò sollevando il muso verso il cielo come avrebbe fatto un vero lupo, poi guardò la sua preda, arretrò e senza mostrare il minimo timore saltò l’ostacolo. Seril sparò un paio di colpi in sequenza, ma riuscì solo a sfiorare il corpo del mostro, che si muoveva agilmente. Iniziarono a girare in tondo, l’uno di fronte all’altro, studiandosi. A fauci spalancate il lupo attaccò e contemporaneamente Seril mirò al suo petto, ma l’animale era troppo veloce. Non riuscì a spostarsi in tempo e un centinaio di chili di muscoli le si abbatterono contro, scaraventandola a terra e inchiodandola al suolo. In preda al panico, lei prese a dimenarsi, ma non aveva abbastanza forza per liberarsi. Lo sguardo le cadde su un ramo, vicinissimo alla sua mano destra. Lo agguantò e cercò di colpirlo, lui però lo afferrò tra le mascelle e lo spezzò.

    – Ora basta giocare.

    La sua voce era tornata umana e così i suoi occhi, ma la feroce determinazione era ancora quella della belva. Con una zampata scagliò per l’ennesima volta Seril a qualche metro da sé. La giovane sbatté la testa e rimase riversa al suolo, stordita e sfinita. Ormai non aveva più forza per rialzarsi e ancora meno ne aveva per lottare. Rimase immobile, cercando di capire dove fosse il suo aggressore. Sentì le unghie graffiare la pavimentazione del sentiero: si stava avvicinando. Stringendo i denti, lottando contro i dolori che torturavano il suo corpo provò a trascinarsi lontano, ma i passi si facevano sempre più vicini. Stremata e ormai convinta di non avere via di fuga si lasciò cadere.

    Le ferite le bruciavano in modo insopportabile, le tempie martellavano e la vista andava e veniva, sempre più confusa e offuscata. Riuscì Tuttavia, a distinguere la sagoma del licantropo che stendeva le braccia verso di lei, provò a spostarsi, aggrappandosi con le dita ai mattoni della pavimentazione. Tentò con le ultime forze di sollevarsi, ma la testa era pesantissima, tutto attorno a lei vorticò e così ricadde al suolo; un conato di vomito le bloccò la gola, mentre lo stomaco si contraeva come se avesse ricevuto un colpo violento. Chiuse gli occhi, aspettandosi di sentir calare su di sé le zampe del lupo, ma il letale contatto tardava. Sorpresa, riaprì gli occhi: perché esitava tanto, quando ce l’aveva completamente in sua balia? Ma l’animale non le dedicava alcuna attenzione: aveva sollevato il lungo muso e dilatato le narici. Stava annusando l’aria con insistenza. I suoi occhi erano tornati gialli e ferini. Si alzò, lasciandola dove si trovava, e Seril vide i potenti muscoli delle sue zampe prepararsi al balzo.

    La giovane chiuse gli occhi e li riaprì, per essere sicura di non essersi ingannata: uno sconosciuto stava affrontando l’uomo lupo. Lei non riusciva a vederlo chiaramente, ne intravedeva a malapena la schiena. I suoi movimenti erano rapidissimi, tanto che le zampe del licantropo non erano ancora riuscite ad agguantarlo. Il suo abito nero lo mimetizzava perfettamente nelle ombre fitte degli alberi, dando l’illusione che scomparisse per riapparire poi in un altro posto.

    Seril trattenne il respiro quando si rese conto che il nuovo arrivato usava una spada. Era così veloce che quasi non riusciva a distinguere l’arma, ma sentiva il suono aspro del metallo che strideva contro le unghie del lupo. La lama lasciava una scia chiarissima, quasi incandescente, nell’aria della notte. Schizzi di sangue scuro zampillarono e alle sue narici arrivò un pungente sentore metallico.

    Chiunque fosse non poteva certo essere un comune essere umano, eppure non avvertiva nessuna magia provenire da lui. Chi o che cosa era? E soprattutto, perché la stava salvando? L’allarmante ipotesi che anche lui fosse interessato a questa Samantha si affacciò alla sua mente, raggelandola.

    Disperatamente, Seril prese a strisciare sul selciato, sperando di riuscire ad allontanarsi inosservata. Quella era un’occasione inaspettata, non sarebbe stata così stupida da sprecarla. Forse stava facendo un torto al suo sconosciuto salvatore, ma non aveva nessuna intenzione di restare per chiedergli quali reconditi motivi avevano guidato le sue azioni. Ma le forze la tradirono e lei ricadde a terra, stringendo i denti per la rabbia e il dolore. Poi tutto divenne confuso. Chiuse gli occhi sopraffatta dalla stanchezza. L’ultima cosa che vide fu la sagoma del suo salvatore che si allontanava da un cadavere per avvicinarsi a lei. Come in un sogno, si sentì sollevare. Una mano le sfiorò il viso e le parve che fosse molto fredda. Delle dita che le asciugavano con estrema delicatezza il sangue dalle labbra furono l’ultima cosa che avvertì. Poi, perse i sensi.

    02

    Seril aprì lentamente le palpebre. La vista restò offuscata per qualche secondo, poi fu come uscire dalla nebbia e riuscì a riconoscere delle pareti bianche attorno a lei. Spostò il capo e seguì il tubo trasparente della flebo. Era in ospedale e non era solo l’ago infilato nel braccio a suggerirglielo, ma anche l’odore di disinfettanti che le arrivò come una ventata alle narici. Sentì dei passi leggeri e quando si voltò verso la finestra, restò a osservare l’infermiera che si muoveva per la stanza.

    – Mhmm – mugugnò.

    La donna si voltò verso di lei con occhi sgranati, ma terminò di regolare il flusso della flebo. Girò, poi, attorno al letto della paziente e si avvicinò a uno dei monitor posti nella stanza. Guardò le linee, i punti e i numeri che luccicavano sullo schermo nero e prese la cartella che doveva aver appoggiato poco prima sul comodino annotando qualcosa con la biro che teneva nel taschino del camice.

    – Che cosa è successo? – mormorò Seril, scoprendo con grande fastidio di avere la gola secca e la lingua impastata come se fosse gonfia e le occupasse gran parte della bocca.

    L’infermiera si accostò con un rassicurante sorriso. – Ah, signorina, meno male che è tornata fra noi.

    Seril tentò di muoversi.

    – No. Rimanga tranquilla – le suggerì l’altra appoggiandole una mano sulla spalla. – Mi dica, come si sente oggi? – Non lo so – rispose Seril parlando piano.

    La ragazza scostò le tende per far entrare un po’ di luce. – Vado a chiamare il dottore. La visiterà e….

    Improvvisamente Seril si ricordò del licantropo, spostò le mani e si tastò il corpo per cercare di capire quanto gravemente fosse stata ferita. – Come sono arrivata qui? Da quanto tempo? L’infermiera, che già aveva mosso alcuni passi verso la porta, si fermò e si voltò verso di lei. – Sono due giorni – le rispose con tono garbato. – È stata aggredita nel parco. Non ricorda? La persona che l’ha aiutata l’ha portata qui. I dottori credevano che avesse ferite molto più gravi per via del sangue, ma per fortuna non era così; però era svenuta per lo shock e il colpo alla testa.

    La strega cercò di mettersi seduta, ma la ragazza le appoggiò le mani sulle spalle e la costrinse a rimanere sdraiata. Si arrese, perché si sentiva del tutto priva di forze, ma la curiosità la divorava.

    – Chi mi ha aiutata? Lei lo ha visto? – Sì, ero presente. Ero di turno al pronto soccorso. Però, è strano, ricordo solo che era un uomo e che era molto preoccupato. Sorrise. – Era così in ansia che ho creduto la conoscesse. Guardò Seril e fece spallucce. – Non riesco proprio a ricordare che faccia avesse, mi dispiace. Vedo così tante persone giù al Pronto Soccorso. Gli ho anche chiesto di fermarsi perché sicuramente la polizia avrebbe voluto parlargli, ma ho dovuto allontanarmi per una chiamata e quando sono tornata lui era sparito.

    Seril sospirò. – Non fa niente. Distolse lo sguardo e notò un vaso sistemato sotto la finestra. – E quelli? – domandò indicando con un cenno del capo il mazzo di gigli bianchi.

    La ragazza piegò le labbra e si avvicinò per sistemarli meglio nel vaso. – Belli, vero? Sono arrivati ieri mattina, subito dopo il suo trasferimento in questa stanza. Non so chi li abbia mandati, non c’era nessun biglietto.

    – Davvero? – la giovane maga li guardò. – È sicura che siano per me? Forse c’è stato un errore. Potrebbero essere per la persona che occupava questa stanza prima di me.

    – Oh, no. Nessun errore – la rassicurò l’infermiera. – Questa stanza era libera e il fiorista aveva precisi ordini di consegnarli alla signorina Seril Abendroth.

    – Capisco. – Era una bugia. Seril era sempre più sorpresa, ma il mal di testa le impediva di ragionare con lucidità. – E come mai sono in una stanza singola? – domandò guardandosi attorno con aria dubbiosa.

    – Non lo so – ammise l’infermiera sbattendo le palpebre. – Il dottore ha ordinato di trattarla con tutti i riguardi.

    Ordinato? rifletté.

    La strega scosse il capo, ma rinunciò a inseguire qualsiasi supposizione e lasciò che la testa affondasse nel cuscino. – Li sposterebbe qui sul comodino? – chiese guardando di nuovo i gigli.

    – Certo. – La ragazza si avvicinò. – Ah, il dottore si è permesso di guardare nel suo portafogli per risalire alla sua identità, visto che la persona che l’ha portata qui non ci è stata d’aiuto.

    – E la polizia? – Hanno deciso di lasciarla tranquilla – rispose l’altra con aria complice. – In realtà hanno chiesto di lei, ma viste le sue condizioni non potevano fare molto. Il dottore li avviserà che si è svegliata. Lei è ancora convalescente, Tuttavia, non possiamo evitarlo… capisce.

    Seril sorrise. – Va bene così.

    Rimasta sola, si coprì il volto con le mani. Non sentiva il bisogno di piangere, ma avvertiva l’irrefrenabile istinto di nascondersi. Chiuse gli occhi e si morsicò il labbro inferiore, mentre percepiva il formicolio delle sue membra ancora doloranti nonostante il riposo e le cure. Strinse le palpebre con forza Mi avrebbe uccisa o catturata? si domandò massaggiandosi le braccia. Si passò il dorso della mano sulle labbra come se sentisse ancora il sapore metallico del sangue, ma si immobilizzò e sgranò gli occhi. Il chiarore del soffitto bianco la infastidì, sentì le pupille dilatarsi e continuò a guardare quella superficie simile a un foglio immacolato Proveniva da quell’uomo la magia che avvertivo? Chi è? Perché mi ha aiutata e se n’è andato?" rimuginò tra sé, mentre nella sua testa l’immagine del suo salvatore era sfocata e confusa.

    La sua mente viaggiava come un treno ad alta velocità e la sera dell’aggressione le piombò addosso all’improvviso. Si ritrovò distesa sulla pavimentazione del sentiero. Si appoggiò con le mani a terra e si sollevò, ricordava di aver tentato di fare la stessa cosa dopo che il licantropo l’aveva colpita l’ultima volta, ma di non esserci riuscita. Invece ora, nel sogno, le cose parevano andare diversamente. Vedeva chiaramente il parco attorno a sé, forse perché era un ambiente molto familiare, Tuttavia, ebbe l’impressione che tutto le fosse estraneo. Ebbe un brivido. Sollevò lo sguardo e si accigliò perché il cielo era nuvoloso, mentre ricordava benissimo che quella sera era sereno. Sentì dei rumori. Costeggiò un’aiuola, cercando riparo dietro i tronchi degli alberi più grossi, e si fermò a osservare l’uomo lupo lanciarsi contro lo sconosciuto che l’aveva salvata. Era certa che fosse lui, benché non l’avesse visto chiaramente. Riconobbe l’abito scuro, le movenze rapide e la spada. Rimase a guardarlo con la speranza che si voltasse verso di lei e le mostrasse il suo volto, ma quello era solo un sogno e se anche lui lo avesse fatto lei non avrebbe visto altro che un’ombra.

    Avvertì il tocco di una mano sulla sua, abbandonata inerte sulle lenzuola, d’istinto cercò di prenderla, aprì gli occhi e si ritrovò a osservare la sagoma di un uomo seduto accanto al suo letto.

    – Scusa. Ti ho svegliata? Seril impiegò qualche secondo a collegare la mano, la voce e il volto al nome di Roberto. – No. Mi sarei svegliata comunque.

    – Bene. Perché sono qui in veste ufficiale.

    – E io che pensavo fossi venuto a farmi una vista di cortesia – rispose ironica la giovane, sollevandosi per mettersi a sedere. – Ti hanno mandato i superiori o sei venuto di tua spontanea volontà? – domandò all’uomo, rimanendo a osservarlo a lungo.

    Conosceva l’ispettore Roberto Lopez da circa un anno, si erano incontrati durante l’indagine relativa alla morte dei suoi genitori. Solo ora si rendeva conto di sapere pochissimo su quell’uomo sorridente che le aveva offerto una spalla su cui piangere nel momento più difficile della sua vita. Non si poteva neppure dire che fossero amici, eppure Roberto, in quell’anno, aveva fatto continue incursioni nella sua quotidianità, tanto che trovarselo accanto in ospedale non le aveva procurato la minima sorpresa.

    Lei lo osservò mentre cercava il taccuino nella tasca interna della giacca e sentì un lieve sorriso salirle alle labbra. Ripensandoci, era possibile che Roberto si fosse fatto in quattro per farsi affidare l’indagine.

    – Allora, cosa vuoi sapere? – I miei superiori hanno ipotizzato che la tua aggressione abbia qualcosa a che fare con la morte dei tuoi genitori – spiegò Roberto. – Ma immagino che non sia così.

    Seril sgranò gli occhi. – Infatti. Era normale che la polizia collegasse i due crimini, in fondo i suoi genitori erano morti solo un anno prima e il colpevole, così come il movente, non era stato ancora trovato.

    Tuttavia, il fatto che fosse Roberto a occuparsene e che avesse così rapidamente scartato l’idea che tra la morte della sua famiglia e quell’aggressione ci fosse un collegamento, le rendeva le cose più semplici. Non aveva di certo sperato di avere tanta fortuna.

    Ricordava di aver intravisto il corpo del suo assalitore, ormai tornato umano, giacere a terra. Era certa che la polizia avrebbe avviato un’indagine per omicidio e non le avrebbe reso la vita facile.

    – In quel parco ultimamente sono avvenute diverse aggressioni. Roberto sollevò un sopracciglio. – Sbaglio o ti avevo avvertita di non passare di lì per tornare a casa dopo i tuoi bagordi notturni? – Quali bagordi? – domandò la giovane con aria innocente.

    Roberto scosse il capo e sfilò dal taschino della giacca una biro. – Passiamo alle cose serie.

    – Perché sei venuto tu? – lo incalzò lei.

    – Perché tra noi c’è una certa confidenza ormai – ammise l’uomo. – Ho pensato che ti avrebbe dato meno fastidio dover parlare dell’accaduto con me piuttosto che con uno sconosciuto. Appoggiò il taccuino alle ginocchia. – Come vanno le cose, adesso? La giovane distolse lo sguardo. Nel momento in cui era rimasta sola, Roberto le era stato accanto andando ben oltre il suo ruolo di poliziotto e, anche se c’era sempre stato un muro che aveva impedito qualsiasi approfondimento di quell’amicizia, lui l’aveva vista toccare il fondo della disperazione e risollevarsi lentamente.

    – Non piango più – rispose. – Ma soffro ancora, quando penso a loro e a come sono morti. Lo guardò. – Immagino che non ci siano novità nell’indagine. Sapeva benissimo che non potevano esserci, ma il suo ruolo di sopravvissuta le imponeva di domandare.

    – No, nessuna.

    – Capisco. Probabilmente non era mai stata così sincera con lui. Ritornò con la memoria al giorno in cui aveva ricevuto la telefonata della polizia che le annunciava la morte di entrambi i suoi genitori. Aggressione a scopo di rapina, l’avevano classificata così, ma a lei era bastato uno sguardo al corpo della madre durante il riconoscimento per capire che non erano stati esseri umani a infierire così brutalmente sulla sua famiglia. Era sconvolta e arrabbiata, ma non sorpresa. I suoi genitori facevano un lavoro interessante, ma che a volte comportava dei rischi e poteva dar fastidio a qualcuno. Dipendeva da ciò che stavano cercando. Cosa stavano cercando in quella vecchia Villa?, si domandò per l’ennesima volta, scacciando poi il pensiero.

    – Hai visto l’aggressore? – le domandò Roberto.

    Seril abbassò lo sguardo. – No, purtroppo no.

    La sua voce era fin troppo afflitta: non era al licantropo che pensava, ma all’uomo che lo aveva affrontato. Certo era felice di non essere stata costretta a vedere quale fosse stato l’aspetto umano del suo aggressore, i suoi occhi e la sua voce erano stati più che sufficienti, ma del suo salvatore aveva a malapena visto la sagoma e i capelli scuri.

    – Seril, sai che dovrò farti delle domande che potrebbero risultare sgradevoli, ma….

    – Fai quello che devi.

    Roberto la fissò a lungo prima di decidersi a scrivere qualcosa sul foglio ancora bianco. – Hai idea del perché ti abbia aggredito? Ha cercato di prenderti la borsa o….

    – Non avevo borse con me – rispose secca.

    – Quindi non stava cercando di rapinarti – Roberto vergò alcuni tratti sul taccuino.

    Lei si accigliò. No, non stava cercando di rapinarmi! Di rapirmi forse o di uccidermi! ma questo non poteva in alcun modo rivelarglielo, così tacque e abbassò il capo.

    – Seril – la guardò. – I referti medici hanno escluso la violenza, ma ti è parso che l’aggressore volesse molestarti? Devo farti queste domande, Seril, anche perché dalla violenza dei colpi che hai subito abbiamo escluso categoricamente che si trattasse di una donna e quindi….

    La giovane strinse il lenzuolo. Un uomo? Una donna? Era una belva! pensò serrando i denti – No, io non… Non lo so – sfuggì lo sguardo del poliziotto. – Mi dispiace. Io non so nulla. Non sapeva cosa inventare e non le veniva in mente nessuna idea credibile.

    – Sì, sì. È ovvio. Sono solo domande di routine – si scusò l’uomo.

    Lei fissò Roberto in attesa della domanda successiva, ma lui guardò i gigli e a Seril parve che il suo sguardo diventasse più dolce e più ironico allo stesso tempo.

    – Gigli bianchi. Sono molto belli – sorrise. – Chi li ha mandati? – si avvicinò e cercò il biglietto.

    – Non so – rispose lei.

    – Hai un fidanzato? – le domandò incuriosito.

    – No – sbottò.

    – Te li manda un ammiratore segreto? – Può darsi.

    – Forse il tuo aggressore – la incalzò lui. – A volte lo fanno. Prendono di mira una preda e….

    Preda si ripeté, avvertendo un brivido lungo la schiena. Guardò Roberto e sbuffò. – È stato sicuramente un errore. Li avranno mandati qui per sbaglio.

    – Cosa pensi di un uomo che manda gigli bianchi senza biglietto? – insisté il poliziotto.

    – Dannazione! – proruppe la giovane. – Se non la smetti crederò che li abbia mandati tu.

    Lui scoppiò a ridere. – Io? No. – Non riusciva a smettere. – Oh, no. Io avrei scelto qualcosa di meno formale. Che ne so? Delle rose, ad esempio. Ma forse il tuo ammiratore segreto le ha ritenute eccessive.

    Lei si voltò dall’altra parte.

    – Va bene, signorina. Le puntò contro la punta della biro. – Stava tornando a casa, quando è stata aggredita.

    – Sì.

    – Che ore erano? – Mezzanotte, circa.

    – Che stavi combinando nel parco a quell’ora? – Roberto cliccò col pollice sul fondo della biro, facendo rientrare la sfera. Abbassò lo sguardo e fece scattare di nuovo la molla per estrarla. – Ti è parso che qualcuno ti seguisse? Seril controllò il respiro che sentiva sempre più rapido. – Affari miei – rispose confusa. – E no, non mi seguiva nessuno. Di nuovo bugie, ma che altro poteva fare?

    Lui sollevò il viso di scatto. La fissò, senza dire nulla, poi colpì il blocco per gli appunti un paio di volte con la biro. – Vediamo se questa versione dei fatti ti sembra veritiera: tu sei entrata nel parco intorno a mezzanotte. Picchiettò con la biro sul taccuino e scorse la pagina che aveva di fronte, come se avesse già scritto la sua deposizione e la stesse solo rileggendo. – Uno sconosciuto ti ha aggredita, all’improvviso. Sbucando dagli alberi? – Esatto – rispose la giovane sorpresa.

    Roberto annuì. – Sì. Hai cercato di difenderti? – Di nuovo alzò lo sguardo dallo scritto, ma solo un instante.

    – Sì, mi sono difesa – ammise lei.

    – Abbiamo trovato anche sangue non tuo sulla scena, ma nessun riscontro – spiegò, – ma l’aggressore era, diciamo, un uomo adulto e robusto? – Sì, più o meno.

    Lui indicò il suo collo con la biro. – Dai segni che porti direi che ha cercato di strangolarti. E ci è quasi riuscito.

    – Sì.

    Roberto fece rientrare la punta della biro, chiuse il notes e se lo infilò in tasca. Alzò lo sguardo e lo tenne fisso su Seril. Aveva una vaga aria afflitta, ma sembrava sicuro di sé come al solito.

    Tutta quella situazione però era irreale. La strega era confusa. Si sentiva sollevata dal fatto che lui avesse inventato al suo posto una storia credibile, ma aveva paura di domandarsi perché lo avesse fatto. Forse lui sapeva: dopotutto era un anno che indagava su quello che era accaduto alla sua famiglia e forse era arrivato a sospettare qualcosa. Fu scossa da un brivido. Lo guardò e sperò che fosse sul punto di darle una spiegazione. Poi sgranò gli occhi.

    – Sei stato tu? – gli domandò sottovoce. Era un’ipotesi che non aveva preso in considerazione, ma quella zona attorno al parco era la sua zona. – Mi hai aiutata tu? Lui deglutì, lei riuscì a sentirlo. Vedeva il suo turbamento, notava il pulsare delle sue tempie, il dilatarsi delle pupille, il modo in cui cercava di tenere ferme le mani intrecciando le dita.

    – No.

    Era una risposta secca, ma decisa. Era la verità. Seril lo avvertì, perché nella voce di Roberto non c’era stato alcun tremito, nessuna esitazione.

    – Sai chi è?

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