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Seraphim. I dannati
Seraphim. I dannati
Seraphim. I dannati
E-book389 pagine6 ore

Seraphim. I dannati

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Info su questo ebook

Sogni e visioni terribili irrompono nella vita del giovane serafino Noah. E finiscono sempre con le parole: “Aiutaci!”.
Noah non può ancora interpretare i segni dal passato, ma percepisce che è arrivato il momento di intraprendere la sua missione come uno degli angeli di più alto rango: la lotta contro il male. Insieme alla sua compagna Mirjam, va alla ricerca dell’antica unione dei dannati, che si oppone sia agli angeli, sia ai demoni, nella disputa per la supremazia sulla Terra.
La coppia si ritrova così negli orribili campi di battaglia della Prima guerra mondiale e poi a Parigi, dove Noah viene coinvolto negli attentati islamici. L’avventura si evolve, per l’angelo in cerca di se stesso e in lotta contro il suo lato oscuro.
LinguaItaliano
Data di uscita15 ott 2020
ISBN9788833170992
Seraphim. I dannati

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    Anteprima del libro

    Seraphim. I dannati - Benno Pamer

    Seraphim

    I dannati

    Benno Pamer

    Fantasy

    I Edizione ottobre 2020

    ©2020 Astro edizioni

    S.r.l.s., Roma

    www.astroedizioni.it

    info@astroedizioni.it

    ISBN 978-88-3317-099-2

    Direzione editoriale:

    Francesca Costantino

    Progetto grafico:

    Idra Editing Srl

    Traduzione:

    Martina Passannanti

    Redazione:

    Idra Editing Srl

    Tutti i diritti sono

    riservati, incluso

    il diritto di riproduzione

    integrale e/o parziale

    in qualsiasi forma.

    1.

    Un forte scoppio lo svegliò dal suo sonno agitato. Dallo spavento sobbalzò, sbattendo la testa sulla cuccetta sotto la quale dormiva. La cenere e l'odore della polvere da sparo fluttuavano nell'aria. In un primo momento, ebbe difficoltà a orientarsi. Poco a poco, le immagini del sogno inquieto sparirono dalla sua mente e si rese conto di trovarsi in grave pericolo. L'impatto era sembrato molto vicino e volle assicurarsi che i suoi commilitoni, che facevano la guardia per lui, fossero illesi. Con un lamento si alzò dal letto e cercò di orientarsi in fretta. La stanza in cui si trovava era grande appena dieci metri quadrati, ma offriva al suo interno sei cuccette, sistemate in letti a castello, e un angolo cottura improvvisato. Alle pareti c'erano numerosi scaffali sui quali erano state sistemate diverse conserve e del cibo secco. Tra gli alimenti si trovavano anche scatole di metallo, nelle quali munizioni per armi di diverso calibro e bombe a mano erano state disposte in maniera precisa ma, soprattutto, all'asciutto. Le pareti erano bianche. Bianche e fredde. La stanza era stata ricavata dentro un ghiacciaio e di conseguenza tutti gli oggetti erano ricoperti da un sottile strato di brina. Solo in quel momento si accorse che stava tremando dentro la sua uniforme leggera. Prese una spessa giacca di lana e se la mise addosso. Non appena si alzò e sforzò la gamba, un forte dolore lo colpì d'improvviso e per poco non perse l'equilibrio. Soltanto con un grande sforzo riuscì a non cadere sbattendo la testa contro il gelido pavimento di ghiaccio. Spaventato, abbassò lo sguardo e si ricordò della spessa benda che gli fasciava la parte inferiore della gamba sinistra, su cui era visibile una grossa chiazza rosso-ruggine e secca. Di colpo, la macchia divenne di nuovo umida e il piede cominciò a pulsare.

    Con lentezza, zoppicò verso quella che era una porta di legno arrangiata e che, ghiacciata, copriva lo stretto foro che serviva come via d'uscita. Indossò dei guanti pesanti e spinse di lato la porta. Un vento gelido gli sferzò il viso e in una frazione di secondo cristalli di ghiaccio gli ricoprirono le sopracciglia e la folta barba, che si era lasciato crescere come protezione dal congelamento. L'ingresso alla loro postazione si trovava su un terreno scosceso, appena sotto una piccola cima ghiacciata, che superava di diversi metri le alture circostanti. Per raggiungere i suoi compagni, dovette scendere una scala di legno traballante, in cui ogni piolo era ricoperto da uno strato di ghiaccio spesso e scivoloso, e percorrere uno stretto sentiero coperto di neve che portava a una sporgenza rocciosa e da lì verso il posto di guardia. Abbassò per un attimo lo sguardo e la solita vista di quattrocento metri di nulla, che lo osservava dall'abisso profondo, gli serrò ancora la gola dopo tutto quel tempo.

    I suoi passi si facevano sempre più pesanti e con le ultime forze aggirò infine la roccia, cercando di scorgere qualcosa. Il vento gelido fece vorticare la neve, permettendogli a malapena di vedere oltre i cinque metri di distanza. Tuttavia, notò che qualcosa non andava. La sentinella, in piedi accanto all'artiglieria, era ricoperta dal ghiaccio e si trovava di poco sopra allo stretto sentiero. Aveva le mani sulle impugnature del mitragliatore semiautomatico, ma il suo corpo sembrava stranamente contorto. Lui sbatté le palpebre e cercò di scacciare le lacrime dagli occhi. Si avvicinò adagio alla guardia ma si bloccò. Sulla schiena dell'uomo, una macchia scura si allargava, attraversata da piccoli cristalli di ghiaccio. Notò con orrore che dalla schiena spuntava l'estremità di una lancia di ferro. L'uomo era morto. Si guardò svelto intorno. Dov'erano gli altri? L'unità era composta da sei alpini e, a causa di una ferita alla gamba, lui era stato il solo ad aver lasciato la postazione, così da rimettersi in forze. Nelle cavità di ghiaccio circostanti, servite come basi di tiro per difendersi da qualsiasi tentativo di conquista, non riuscì a vedere nessuno. E qualcos'altro sembrava strano. Se ne accorse solo dopo un po', ma non riuscì a comprendere. Dalla schiena dell'alpino morto spuntava quella che sembrava un'antica lancia di legno. Nessun proiettile shrapnel, nessuna ferita dovuta a un colpo di fucile. No, la punta in ferro di una lancia con un pezzo di manico in legno. La scoperta lo confuse, era qualcosa che non aveva mai visto nel corso della guerra. Non sapendo cosa fare, avanzò curvo verso il fuciliere morto per dare un'occhiata più da vicino alla ferita. Quando lo raggiunse, la sua sensazione si rivelò giusta già a distanza: una sottile punta di ferro sporgeva dalla schiena del soldato e l'asta di legno si era rotta a circa trenta centimetri dall'estremità. Con le mani tremanti dal freddo, cercò di prendere al compagno la sua arma, al cui calcio si erano aggrappate le dita morte e rigide. Non riuscì neanche a spostarlo. Nonostante il freddo gelido, un intenso odore lo colpì all'improvviso. Non riuscì a identificarlo, ma usciva di certo dal petto del soldato, da dove sporgeva la piccola punta di lancia. Si piegò con attenzione verso il militare per esaminarne la lesione; qualcosa si mosse intorno al foro d'ingresso, ma nella penombra non riuscì a vedere bene. Si avvicinò ancora, ma subito balzò indietro, disgustato: intorno alla ferita mortale, una maleodorante massa bianca di piccoli vermi si muoveva e aveva già fatto un buco di dieci centimetri nei vestiti dell'uomo e un profondo cratere nella nuda carne congelata. Il lezzo di decomposizione era nauseante e, ancora una volta, solo dopo qualche secondo si accorse di quanto quella situazione non potesse essere reale. I vermi non avrebbero potuto sopravvivere a quelle temperature e, a venti gradi sottozero, gli odori si sarebbero dovuti avvertire a malapena.

    Mentre cercava di capire qualcosa di quella situazione surreale, fu sollevato in aria da due forti braccia e scagliato nel sentiero sottostante. Atterrò con violenza, sbattendo la testa sulla parete gelata. Stava per svenire, ma il forte dolore lo rese di nuovo cosciente. Tuttavia, non si trattava del dolore alla testa o alla gamba. No. Era quel dolore secolare, che ormai da mesi percepiva nel profondo della sua anima. Il dolore della disperazione. Ora sapeva perché quella lancia di ferro era piantata nel suo compagno e, senza bisogno di guardare, sapeva anche che essa portava il simbolo dei Dannati. Inciso nel sacro metallo antico e scagliato con l'obiettivo di distruggere. Ma l'obiettivo era sbagliato e comprese con assoluta sicurezza che la sua vita era appesa a un filo. Si concesse solo un attimo per ricomporsi, alla fine, aprì gli occhi e vide il suo nemico davanti a lui: alto, dalle spalle larghe e minaccioso, il suo antico avversario si trovava a nemmeno dieci metri di distanza. A gambe larghe e con un sorriso trionfante, lo guardò con occhi profondi e infuocati. Il male lo circondava e il soldato percepì subito l'oscura minaccia che emanava. A fatica si alzò, senza che il suo avversario distogliesse per un secondo gli occhi da lui. Quando, tremante, si rimise in piedi, estrasse con lentezza il revolver che teneva nella fondina. Con somma cautela, puntò l'arma contro l'assassino dei suoi compagni e sparò tre volte, mirando ogni volta proprio in mezzo alla fronte dell'avversario.

    Il gigante non si mosse. Come per magia, le pallottole rimbalzarono su di lui e caddero senza effetto sulla neve. L'avversario rise in modo beffardo e si avvicinò con lentezza al soldato. E lui capì che non c'era più scampo. Come il coniglio di fronte al serpente, rimase lì, immobile, a fissare l'avversario che si faceva sempre più prossimo. Parvero passare delle ore, prima che il demone oscuro gli fosse di fronte , e a quel punto gli portò gli artigli intorno al collo come delle morse. Il soldato non si oppose. Tuttavia, cercò, con le ultime forze, di organizzare i pensieri e mantenere quel segreto che a lungo aveva custodito dalla sua elezione, nascosto nella profondità della sua anima e al sicuro dai suoi nemici. Ma ormai era troppo tardi. Dagli occhi del demone, una strana energia si scagliò contro di lui, avvolgendolo come ragnatele e impossessandosi dei suoi pensieri. Come le larve sul petto del suo compagno, piccole ragnatele blu cominciarono a cibarsi delle sue interiora e a invaderlo sempre di più, finché non rischiò di soffocare. Stremato, il soldato cercò di reprimere il dolore e distruggere il segreto.

    «Non permettere che lo scoprano!», ripeté a se stesso, più e più volte, riuscendo per un momento a fermare il penetrare delle ragnatele. Aveva eretto un muro che il suo avversario difficilmente avrebbe potuto abbattere, e quei fili sembravano strisciarvi e martellarvi sopra, invano.

    Con un urlo furioso, il demone capì che non avrebbe raggiunto il suo scopo. Guardò il soldato fisso negli occhi.

    «Oggi potrai anche fermarmi, ma questa forza è troppo potente per voi. Ti sacrifichi invano. Vi sconfiggerà».

    Gocce di sudore comparvero sulla fronte del soldato, che si rese conto di essere ormai allo stremo delle forze. Con un grugnito adirato, il demone strinse il collo della sua vittima e osservò la vita scorrere via dai suoi occhi. Ma prima di lasciarsi morire, il soldato si fece forza un'ultima volta e con un filo di voce rantolò:

    «Noah, salvaci!».

    Noah si svegliò di soprassalto, madido di sudore. Essendo buio pesto e lui ancora mezzo addormentato, ebbe difficoltà ad orientarsi. Cercò con la mano la sveglia sul comodino e accese il display. Apparve una debole luce verde che illuminò la stanza. Era nella sua camera da letto. Ed erano le 2:31 di notte.

    «Che succede? Non riesci a dormire?»

    La voce assonnata accanto a lui lo calmò quasi all'istante e lo riempì con un'ondata di amore e affetto, cancellando dalla sua mente il sapore amaro di quel sogno inquietante. Si avvicinò a Mirjam, la sua splendida compagna, accoccolata accanto a lui sotto le lenzuola, e le posò un bacio sulle labbra, che lei ricambiò appena.

    «Stavo solo sognando, continua a dormire. È tutto a posto».

    «Va bene, mio tesoro, ma dormi anche tu».

    Con quelle parole, Mirjam si girò dall'altro lato e pochi minuti dopo Noah si accorse, dal suo profondo respiro regolare, che si era addormentata di nuovo. Ammirava questo in lei: mentre lui spesso si rigirava per ore da una parte all'altra prima di riuscire a dormire, lei riusciva ad assopirsi non appena chiudeva gli occhi. O addirittura prima. Noah ridacchiò al pensiero e notò che la sua mente ormai fantasticava e lo avrebbe tenuto sveglio; dormire era fuori questione, in quella situazione. Per non svegliare Mirjam, scivolò con delicatezza fuori dal letto e andò in bagno. Nella stanza aleggiava ancora il profumo di lei, pensò. Erano andati a letto tardi, quella sera, e Mirjam aveva lasciato i vestiti sulla mensola, accanto la doccia. Il leggero profumo di lavanda che emanava li aveva impregnati, diffondendosi poi in tutta la stanza. Noah annusò l'aria e si ricordò della prima volta in cui aveva sentito quel profumo. Era trascorso ormai un po' di tempo, e l'avventura vissuta insieme l'anno passato li aveva portati al limite delle forze.

    Noah scacciò dalla mente il pensiero di quel periodo orribile e, in mancanza di qualcos'altro da fare, si guardò allo specchio.

    Il suo viso era ben proporzionato, con occhi blu scuro che lo fissavano da un volto giovane e pieno di energia che, nonostante il sonno irrequieto, sembrava fresco e riposato. Dalle iridi brillava quella luce che tutti i membri della sua famiglia possedevano e che aveva subito attirato altri uomini nel loro incantesimo. Sulle guance, una leggera peluria sottolineava i contorni marcati del viso e, se proprio si fosse voluto dire qualcosa di negativo, soltanto il mento un po' sporgente disturbava quel viso attraente. Mirjam affermava sempre che quel mento lo rendeva ancora più virile, ma lui non capiva se lo dicesse solo per rassicurarlo. Del resto, aveva sempre preso in giro la sua peluria preadolescenziale, come lei chiamava la barbetta rada che graziava le sue mascelle.

    Noah sapeva di avere anche un corpo in forma e ben definito. Avrebbe potuto lavorare senza problemi come modello di intimo, ma, per fortuna, aveva trovato il lavoro più impegnativo del mondo. Doveva ristabilire l'equilibrio tra angeli e demoni. Dopo l'avventura in Siria, l'ormai ristretta famiglia degli angeli doveva essere rinnovata, e alcuni compagni dovevano essere innalzati alla sua casata. Purtroppo, il numero si era drammaticamente ridotto e sarebbero servite numerose generazioni affinché si riprendessero del tutto. Il patrigno Frank, assassino di suo padre e traditore dei valori degli angeli, era ormai morto, ma ciò pesava in maniera limitata sull'equilibrio del mondo. Morte, guerra, omicidi, violenza, crimine e dolore dominavano ancora la cronaca quotidiana e Noah non era del tutto sicuro di aver portato a termine il suo compito. Soprattutto dopo aver passato gli ultimi mesi a ricaricare le batterie che aveva quasi del tutto esaurito dopo quel primo, pericoloso viaggio.

    Sapeva che, in molti paesi del mondo, innumerevoli e potenti demoni erano al lavoro dalla parte dei suoi avversari, ma soprattutto che ovunque quelli come lui riuscissero ad arginare un pericolo, da un'altra parte la miseria emergeva di nuovo in superficie. Ciò che più lo preoccupava era il flusso incontrollato di migranti dall'Africa e dall'Arabia verso l'Europa, una situazione in cui il seme del male trovava terreno fertile.

    Noah, salvaci!

    Il grido di aiuto del suo sogno si abbatté con forte impeto nella sua coscienza. Aveva la sensazione che si trattasse di qualcosa di più che una semplice visione onirica. La faccia del soldato gli era sembrata familiare e il demone aveva con sé una frusta che aveva già notato in un piccolo capannone in Val Passiria, quando un terribile avversario chiamato Belphegor e il suo infido patrigno erano stati sul punto di violentare Mirjam e renderla loro schiava. Era un'antica paura quella che aveva provato e sapeva che il soldato morente aveva sentito lo stesso tipo di terrore. Non aveva visto il sogno dalla prospettiva dello spettatore: per un po', era stato il soldato, quasi sino alla fine. Solo quando il demone aveva strappato via la vita al guardiano dell'antica conoscenza, Noah si era rifugiato di nuovo nella realtà. Ancor di più lo aveva terrorizzato quella strana energia che aveva avvertito. Non aveva mai visto nulla di simile e il potere che era arrivato da quegli insoliti fili gli pulsava ancora dentro le vene.

    Tentò di ricordare il viso del soldato morente. Qualcosa, in lui, gli era sembrato familiare. La luce negli occhi aveva subito mostrato che si trattava di uno di loro. Ma c'era qualcosa di più di ciò che Noah aveva avvertito. Mancava ancora un pezzo per completare il puzzle e qualcosa gli diceva che si trattava di un importante messaggio che non aveva ancora capito.

    Di colpo, avvertì un lieve soffio sul collo e un piacevole brivido gli corse lungo la schiena.

    «Non girare così nudo per il bagno. Se mi svegli bene, magari potremo impiegare meglio il nostro tempo».

    Noah sentì il corpo formoso di Mirjam spingersi contro la sua schiena e a quella pressione, tutti i pensieri sull'angelo morente sul fronte di ghiaccio sparirono. Noah si girò e cercò la bocca di lei per baciarla con la più intensa necessità. Era ancora assonnata, ma rispose a quel bacio con molta più brama, rispetto al precedente in camera da letto. Presto il desiderio si risvegliò e Noah portò Mirjam nel letto, che dall'avventura in Siria condividevano come compagni eterni. Le successive ore trascorsero in una danza di passione e del più intimo amore fisico, relegando la ricerca del mistero sullo sfondo.

    Quando il mattino dopo Noah si sedette al tavolo della colazione, mescolando come sempre il suo caffè per diversi minuti, aveva dimenticato il sogno notturno. Tutto quello a cui riusciva a pensare era concentrarsi sulla giornata che lo attendeva. Era il più potente dei Serafini, ma proprio per questo doveva condurre una vita normale ed esercitare le sue attività celesti soltanto in segreto. Dopo lunghe riflessioni, aveva abbandonato gli studi e optato per una vita da fotoreporter freelance, cosa che gli permetteva di organizzarsi la giornata senza dover tenere conto di orari di ufficio e riunioni e che, se necessario, gli avrebbe permesso di dedicarsi alla sua attività nascosta nelle situazioni di emergenza. Anche Clark Kent aveva fatto lo stesso ragionamento, pensò tra sé. Se Superman non fosse stato un giornalista, forse la sua identità sarebbe stata scoperta molto prima. Il paragone lo divertì e un sorriso gli apparve all'angolo della bocca addormentata.

    Ma la libertà nel potersi organizzare il tempo era solo una teoria. Teoria che non interessava il suo nuovo capo del quotidiano locale, per il quale aveva cominciato a lavorare subito dopo l'abbandono degli studi. Il signor Dorner era l'incarnazione di uno dei superiori della vecchia scuola. Scrupoloso nel controllo del personale, con una visione del mondo conservatrice, dal pensiero sistematico ma, ciò che più importava, maestro di tutte le decisioni da prendere nel suo campo. Lasciava che i suoi autori vagassero per la redazione come polli spaventati, se non era d'accordo sulla scelta di una copertina o di un titolo, e nessuno lo batteva nel multitasking: poteva capitare sovente che, mentre gestiva un colloquio per un addetto alla prestampa in tipografia, stesse al telefono con il collegio sindacale facendo rapporto sui dati del trimestre in corso. Nonostante tutto quello stress, riusciva ancora a mantenere un imponente fisico da atleta, con un'altezza che sfiorava il metro e novanta e un peso di oltre 150 chili. Un peso del genere lo rendeva fisicamente un po' lento, ma non influiva in alcun modo sulla rapidità dei suoi pensieri. Con prontezza saltava da un argomento all'altro e confondeva l'interlocutore di turno con un'incredibile conoscenza dettagliata su svariati temi, guardandolo con quei piccoli occhi penetranti il cui sguardo era difficile da sostenere.

    E proprio il signor Dorner si era prefissato il compito di rovinare il piano di Noah di organizzarsi in maniera autonoma l'orario di lavoro. Ogni giorno lo convocava in riunioni su articoli o per questioni su foto a cui Noah stava ancora lavorando e che ai suoi occhi non raggiungevano gli standard qualitativi del quotidiano. Discuteva con lui sull'apertura dell'obiettivo, sul rapporto tra luci e ombre di un ritratto fotografico, o tagliava un intero articolo per le rubriche meno importanti come Dies & Das, o la sezione locale, che si trovava in fondo alla scala di qualità in termini di giornalismo. Noah aveva saputo da un collega che il signor Dorner si comportava così con tutti i nuovi impiegati, volendo in quel modo intimidirli e valutarli. Non aveva quindi nessuna scelta, se non quella di sottoporsi a quella estenuante procedura e tentare di uscirne senza critiche. Come risultato, ogni giorno partiva con l'intenzione di dedicare del tempo alla sua attività segreta, ma la maggior parte delle sere tornava a casa stanco e insoddisfatto, senza forze e sfinito, nella situazione di non riuscire a far nulla, se non buttarsi davanti alla televisione o infilarsi a letto prima del solito rispetto a qualsiasi altro ragazzo della sua età.

    «Buongiorno, tesoro. Hai di nuovo fatto nottata?».

    Una voce familiare lo risvegliò dalle sue considerazioni.

    «Buongiorno, mamma. Hai dormito bene?»

    Dopo l'abbandono degli studi da parte di Noah, lui e Mirjam si erano trasferiti dalla madre di lui, in una piccola casa in Val Passiria, e lì avevano istituito la loro base operativa. Il pacifico idillio della valle li aiutava a svolgere indisturbati i propri compiti e, dopo tutti gli anni passati accanto al suo patrigno, finalmente Noah era riuscito a conoscere meglio sua madre. Lei aveva smesso di bere e di prendere le pasticche che prendeva un tempo, sotto l'influenza maligna di Frank, ma il fuoco nei suoi occhi non era ancora tornato, e Noah non sapeva se lo avrebbe mai fatto del tutto.

    Lei si sedette accanto al figlio e gli posò un bacio sulla fronte.

    «Non sei riuscito a dormire neanche stanotte?».

    Lo sguardo malizioso negli occhi di lei gli fece arrossire le guance. Anche se aveva ormai ventidue anni, non voleva parlare con sua madre di certi argomenti. Del resto, chi parlerebbe volentieri di sesso anche solo con la propria ragazza, sapendo che la madre è in ascolto?

    «Sì, mamma, ho avuto un incubo. Ma niente di importante».

    «Ne sei sicuro?».

    Noah la guardò, stupito.

    «Che intendi?».

    «Voglio dire che negli ultimi tempi ti sei svegliato spesso. Lo sento. E non solo perché siete così... attivi. Ti sento chiamare. Ma cosa o chi chiami, non lo capisco».

    Noah ci pensò un istante. Non riusciva a ricordare se Mirjam gli avesse parlato di urla.

    «Mamma, non preoccuparti, va tutto bene. Ora devo andare».

    Noah si alzò, sfiorò la guancia della madre con un bacio e lasciò la cucina. La porta della loro camera da letto era rimasta chiusa, quindi Mirjam stava ancora dormendo. Lavorava in ospedale, ma quel giorno non era in servizio, così le concesse di cuore un paio d'ore di sonno in più. Uscì di casa e si diresse verso la fermata dell'autobus, che distava un centinaio di metri. Essendo ancora presto, non c'era molta gente in giro; solo qualche studente si unì a lui, parlando di esami imminenti, prove scolastiche e compiti svolti o non ancora finiti. Oppure, cosa che sembrava interessare alla maggior parte, di chi avesse viaggiato con chi il giorno prima, e di quali belle ragazze o ragazzi simpatici non fossero più o fossero di nuovo sul mercato.

    Noah si godeva la frizzante aria primaverile che gli penetrava il naso. Era l'inizio di maggio e al mattino la temperatura era ancora un po' fresca, anche se durante il giorno cominciava ad aumentare fino a oltre venti gradi, soprattutto a Merano, dove la redazione aveva la sua sede locale e dove lui trascorreva il novanta per cento del suo tempo lavorativo. Quel giorno, però, doveva recarsi nella tana del leone, alla sede principale di Bolzano, perché, secondo il caporedattore, alcune decisioni della massima importanza dovevano essere prese sui suoi futuri articoli e a tutti i costi doveva essere in ufficio alle 9 precise e non un minuto dopo, signor Seraph, in modo da non interrompere di nuovo il lavoro dell'intera squadra con il suo ritardo.

    L'autobus arrivò e le persone in attesa salirono. Noah trovò posto sul retro del mezzo e si sedette vicino il finestrino. Dato che non c'erano scuole superiori, nella valle, tutti i ragazzi dovevano andare a Merano, per cui un numero piuttosto alto di studenti era in viaggio ogni giorno. Il servizio di trasporti locale aveva tenuto conto della situazione, perciò ogni mattina sette autobus partivano in contemporanea per portare a destinazione gli studenti, con notevole disappunto dei molti pendolari che, sulla strada verso il lavoro, si ritrovavano dietro una colonna infinita di veicoli che strisciavano a passo di lumaca incontro alla città provinciale.

    Noah puntò le ginocchia contro lo schienale del sedile anteriore e chiuse gli occhi, pronto a sfruttare il tempo del viaggio per farsi un sonnellino. Ma gli studenti chiacchieroni intorno a lui gli fecero capire presto che la sua era una speranza vana. Quindi guardò fuori dal finestrino e osservò la valle che si ridestava e che gli passava davanti gli occhi. Tutto era iniziato lì alcuni anni prima, ricordò di colpo. Era seduto proprio su quell'autobus, quando quel farabutto del suo patrigno aveva cominciato a seguirlo e lui aveva capito di trovarsi in una storia che non aveva nulla a che fare con la sua precedente esistenza. Non ci pensava ormai da molto tempo, il quotidiano stress lavorativo gli aveva impedito di elaborare gli avvenimenti. Ma con il sogno della notte precedente, sembrava che qualcosa in lui fosse cambiato. Non riusciva a reprimere quei pensieri come aveva sempre fatto e a pensare agli incontri successivi.

    "Strana giornata", considerò tra sé, cercando di scacciare quei ricordi e concentrandosi invece sulla riunione con il suo capo, che di solito gli assorbiva tutte le energie, soprattutto da quando si era reso conto che, in qualche modo, il signor Dorner non era sensibile al fascino dell'energia angelica. Anzi, rimbalzava su di lui come su un animale morto. Né c'era nulla di oscuro in lui, perciò Noah non sapeva se facesse parte di qualche particolare specie, un'evoluzione alternativa della creazione o un uomo di Neanderthal dei tempi moderni.

    Noah sogghignò a quel pensiero, ma, ritenendolo ingiusto, lo scacciò via e si rimise a sonnecchiare.

    L'autobus arrivò alla stazione di Merano. L'area antistante l'ingresso della stazione veniva usata dalla compagnia di trasporti come parcheggio o luogo di manovra per tutte le tratte che sarebbero partite da lì. Numerosi autobus pieni di studenti provenienti da tutte le valli circostanti arrivavano uno dopo l'altro e parcheggiavano negli appositi spazi. Noah conosceva quello scenario dai tempi delle superiori e si ritrovò a sorridere sotto i baffi, vedendo gli studenti indaffarati, che si preoccupavano aspettando le ultime informazioni sulle prove previste per quel giorno e attendevano pieni d'ansia le sfide del nuovo giorno di scuola. Scese per ultimo dall'autobus ed entrò nella stazione. Aveva ancora venti minuti, prima della successiva coincidenza, così si sedette al bar e ordinò un espresso. Come in ogni stazione italiana, il bar era un ritrovo di pendolari mattutini che prendevano un caffè e si informavano sulle notizie del giorno.

    Noah si guardò intorno. Tutti le classi sociali erano rappresentate: l'indaffarato uomo d'affari con l'elegante vestito si intratteneva con i suoi colleghi; accanto, erano seduti alcuni operai che discutevano a voce alta dell'ultima partita della squadra locale, e in un altro tavolo sedeva una giovane donna dall'aspetto curato, che cercava di essere notata il meno possibile, per non dover rispondere agli sguardi importuni degli operai. Il delizioso odore dell'intenso caffè italiano e dei croissant appena scaldati riempiva tutta la scena.

    Noah leggeva nella Gazzetta dello Sport i risultati della sera precedente, gettando di tanto in tanto uno sguardo oltre il giornale verso gli eventi nel locale. Gli saltò all'occhio uno strano cliente all'angolo del bar, l'unico a non avere tra le mani un giornale o una tazza. Aveva occhi piccoli e castani, un naso nodoso e labbra sottili e un po' strette tra loro. Una barba spessa un centimetro e rasata ad arte gli copriva il labbro superiore, il mento e le guance. Indossava un elegante abito sopra il quale portava un leggero impermeabile, per coprirsi nelle fresche ore del mattino. Noah non sapeva per quale motivo fosse attratto da quel cliente, ma ogni volta che con sguardo furtivo si girava nella sua direzione, l'uomo ricambiava l'occhiata. Anzi, l'uomo cominciò a fissarlo dritto negli occhi, non lasciando alcun dubbio sul fatto che non fosse uno scambio di sguardi accidentale. Noah non percepì nessuna presenza oscura nella stanza ed era abbastanza sicuro che non si trattasse di un demone. Tuttavia, fu prudente e decise dopo un po' di posare il giornale e spostarsi nella direzione dello strano ospite. Si alzò, prese lo zaino e si fermò incredulo. Là dove fino a poco prima si trovava l'uomo, non c'era più nessuno, il tavolo era vuoto. Noah strizzò gli occhi. Era quasi impossibile che lo straniero fosse riuscito a uscire dalla stanza proprio nell'attimo in cui lui prendeva lo zaino: la distanza tra il tavolo e la porta del bar era troppo grande.

    Il giovane si guardò intorno, confuso. Da nessuna parte c'era traccia dell'uomo che cercava. Dopo un po', prese un respiro e decise di non pensare più a quell'incidente. L'attesa di venti minuti era quasi finita e Noah comprò un biglietto al distributore automatico. Con lentezza si incamminò in direzione della ferrovia, cadendo di nuovo nel letargo mattutino. Non appena il treno arrivò, frenando con un rumore stridulo, salì a bordo del vagone del treno regionale e attese la partenza. Dopo mezz'ora di viaggio, arrivò alla sua destinazione, la fermata di Castel Firmiano, un piccolo paese nelle vicinanze del capoluogo di provincia Bolzano, che aveva acquisito una certa fama grazie al castello omonimo e al museo sistemato dal famoso alpinista Reinhold Messner. Nelle immediate vicinanze della stazione si trovavano gli uffici della rivista regionale per la quale Noah lavorava.

    Guardò l'ora. Mancavano ancora quindici minuti prima che la riunione cominciasse. Abbastanza tempo per affrontare le poche centinaia di metri rimanenti senza ansia. L'ingresso agli uffici era controllato da una porta elettronica e Noah dovette esibire un tesserino di riconoscimento che lo identificava come un collaboratore indipendente del quotidiano. Già al suo primo colloquio di lavoro gli era venuto da ridere per quelle misure precauzionali esagerate. Non riusciva a immaginare come qualcuno potesse scegliere la sede di quella casa editrice per un'aggressione. Cosa si sarebbe potuto rubare, lì dentro? Al massimo, c'era soltanto l'archivio delle vecchie uscite del giornale. E, se i primi numeri erano storicamente interessanti, al mercato nero totalizzavano comunque soltanto piccole somme di denaro. Invece, Noah ne era sicuro, l'intera procedura era il risultato delle smanie di protagonismo del proprietario della rivista. Nonostante avesse all'attivo una pubblicazione di poco conto in una provincia letterariamente arretrata, voleva per lo meno dall'esterno dare l'impressione che si trattasse di un ufficio importante e degno di nota.

    Noah superò i controlli d'accesso e si recò senza esitazione al primo piano dell'edificio, in cui si trovava la meeting room. Sala riunioni, si corresse mentalmente Noah: il signor Dorner lo aveva già avvisato nel loro primo colloquio che i moderni anglicismi non sarebbero stati tollerati. L'attenzione alla lingua tedesca veniva tenuta in grande considerazione, così Noah doveva cercare di non parlare di cover, headline o meeting, ma utilizzare parole più adatte, come copertine, titoli e riunioni.

    Quando entrò nella sala riunioni Dolomiti (tutte evidenziavano il carattere internazionale del proprietario sebbene portassero i nomi delle catene montuose locali), era l'ultimo dei partecipanti.

    «Bene, Seraph. Mi fa piacere che ce l'abbia fatta», lo accolse l'imponente signor Dorner, prima che lui potesse aprir bocca per salutare.

    «Buongiorno», disse Noah, ma nessuno degli altri presenti badò al fotografo freelance arrivato tardi.

    «Adesso possiamo iniziare».

    Mentre Dorner procedeva con la proiezione, Noah gettò un'occhiata intorno. Oltre a lui e Dorner c'erano altre quattro persone, nella stanza. La signora Edith, l'assistente di Dorner, come in tutte le riunioni sedeva accanto a lui e aveva aperto un computer portatile per prendere appunti nel corso della riunione. Era una donna sulla sessantina, in servizio da tempo, che per diversi decenni aveva lavorato accanto al signor Dorner, liberandolo da tutti gli incarichi dattilografici e amministrativi. Era una persona piuttosto anonima, sempre vestita di grigio o beige, con i capelli raccolti in una stretta crocchia. Di rado il suo volto mostrava delle espressioni e, tra i piccoli occhi grigi, il sottile naso adunco ondeggiava piano su e giù, annuendo in accordo o disapprovazione secondo le affermazioni del suo superiore. L'unica cosa che la faceva notare

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