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Coscienza Artificiale
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E-book250 pagine3 ore

Coscienza Artificiale

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Info su questo ebook

La scienza e la tecnologia hanno miglioramento le condizioni di vita dell’uomo. Tuttavia, la ricerca sulle reti neurali e l’impianto di sistemi microelettronici nel cervello umano, per la movimentazione di arti meccanici attraverso la mente, lo hanno condotto ad una nuova frontiera: la nascita della coscienza artificiale.
In un tempo non molto lontano, prenderà vita una nuova razza: gli automi alter ego. Il cervello dell’uomo potrà essere replicato con materiali non biologici attraverso la tecnologia delle reti neurali.
Ian Han e Sue Laren scopriranno un metodo per far nascere una coscienza artificiale all’interno di un automa. Questo permetterà di vivere anche dopo l’insorgere di malattie incurabili, mantenendo in vita il corpo in stato d’ibernazione, e continuando a vivere materialmente all’interno di un automa alter ego in cui verranno memorizzati tutti i dati cerebrali per essere utilizzati dalla coscienza artificiale. L’automa alter ego sarà la replica non biologica dell’uomo ibernato.
Per evitare l’abuso delle nuove tecnologie, verrà istituito un Comitato Etico il cui compito sarà quello di vigilare sull’applicazione delle Regole. Per nessun motivo ci dovrà essere un automa alter ego senza un corpo ibernato in vita. Se il corpo muore, il suo automa dovrà essere disattivato.
La società arriverà ad uno stato repubblicano in cui sarà superato l’uso della moneta e debellata la pena di morte. Si potrà avere ogni cosa, in base alle proprie reali necessità. Si produrrà solo ciò che serve.
Ma l’uomo non riuscirà a sgomberare il cuore dall’egoismo: il potere fine a se stesso, l’uso diretto della vita di un’altra persona, non sarà mai superato.
Poco a poco, la disattivazione degli automi sarà equiparata ad una moderna pena di morte. L’uso degli automi alter ego, ad una distorta forma di testamento biologico.
Tutti i personaggi del romanzo attraverseranno un processo di maturazione, frutto dello spostamento del versante da cui guardare la propria vita. Le convinzioni, i punti di vista, cambieranno al mutare dei sentimenti coinvolti.
Lo spegnimento della vita di un essere vivente può essere giudicato in un modo piuttosto che in un altro, a seconda dei sentimenti che coinvolgono le nostre persone.
Ian Han, Sue Laren, il loro figlio Jolen, e tutti gli altri, giungeranno ad un epilogo in cui tutto verrà inaspettatamente messo in discussione.
LinguaItaliano
Data di uscita31 gen 2020
ISBN9788835365372
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    Anteprima del libro

    Coscienza Artificiale - Attilliano Gambaretto

    paradigma

    COSCIENZA ARTIFICIALE

    Premessa

    Alan Turing era un genio.

    «Le macchine possono essere intelligenti?»

    Inventò un test per cercare di dare una risposta a questa domanda. Se il comportamento di una macchina è uguale al comportamento di un essere umano, a fronte di uno specifico stimolo, allora la macchina può essere considerata intelligente.

    Era il ventesimo secolo, gli albori della cibernetica, l’inizio della teoria degli automi.

    Jhon McCarthy mise insieme le migliori menti umane per gettare le basi che permettessero di arrivare alla costruzione di macchine intelligenti, ma non sapeva quanto tempo sarebbe passato per raggiungere il sogno.

    Costruire sistemi artificiali automatici, dotati di intelligenza artificiale, in grado di replicare l’uomo.

    Coniarono il termine, oggi decaduto, di Intelligenza Artificiale. Si iniziò a parlare di feedback negativo. L’azione verso l’esterno era confrontata in un istante successivo con l’azione desiderata e il sistema, o macchina, doveva correggerlo riducendone l’errore. In tempi successivi si capì che il feedback positivo era di pari importanza: i sistemi potevano non essere in equilibrio, ma dinamicamente evolutivi, e pertanto il confronto tra l’azione in uscita e lo stimolo doveva portare ad una evoluzione dell’azione stessa.

    Era un tempo di grande fervore ed entusiasmo ma anche di facili illusioni. Pensavano che di lì a poco sarebbero stati creati degli automi in grado di fare tutto, solamente perché erano stati in grado di progettare delle piccole macchine che giocando a scacchi vincevano contro i campioni umani del momento. Oppure perché i primi computer erano stati programmati in modo tale da rispondere genericamente a qualunque domanda. Anche la più insulsa. Ma la risposta era come quella di un bambino, privo di maturità ed esperienza: semplicemente affermavano concetti preordinati, e pertanto banali, senza alcuna evoluzione dei medesimi.

    La cibernetica includeva tutti i settori di studio dell’uomo: la biologia, la nascente teoria degli automi, l’ingegneria, la matematica, il calcolo computazionale. Tutte le discipline concorrevano al raggiungimento dell’obiettivo.

    La nascita dell’elettronica, in grado di dettare le regole per la progettazione degli amplificatori di segnale e la sinergia con la meccanica dei servo-manipolatori, portò l’uomo sulla strada per la costruzione dei robot.

    L’abbinamento tra l’elettronica degli amplificatori e i motori elettrici, che azionavano bracci meccanici evoluti, era un primordiale tentativo di replicare l’uomo attraverso l’ingegneria.

    L’elettronica stava al cervello come la meccanica stava al corpo umano. L’avvento del microprocessore e dei sistemi programmabili in grado di funzionare per mezzo di un programma simbolico, rafforzò il concetto cartesiano di dualismo: il corpo e la mente come l’hardware e il software. In quel tempo, tra le tante scuole di pensiero, c’era chi sosteneva che non era possibile per un automa, pur dotato di comportamento intelligente, simulare totalmente il comportamento umano. Un sistema meccatronico basato sul paradigma causa-effetto e dotato di sistema sensoriale evoluto, in grado di misurare attraverso una serie di parametri l’ambiente circostante, poteva operare autonomamente ma non essendo in grado di avere la consapevolezza di sè, non avrebbe mai potuto prendere delle decisioni a fronte di eventi paradossali come, invece, era in grado di fare l’uomo.

    In quel tempo remoto, tutto era in funzione dell’economia. I finanziamenti di qualunque ricerca erano volti all’ottenimento di risultati applicabili nell’industria manifatturiera. Il concetto di Intelligenza artificiale declinò velocemente a favore di sistemi cosiddetti esperti o specializzati. L’uomo credeva che non fosse possibile, per un automa generico, operare in qualunque tipo di ambiente. Nacquero allora dei robot per compiti speciali che assumevano un comportamento intelligente solo nel sistema limitato per il quale erano stati progettati.

    Ebbe un grande impulso lo studio dell’hardware.

    Lo studio del software, e la sua evoluzione, costituì una disciplina autonoma, chiamata informatica. Ma per quanto questa scienza evolvesse non riuscivano a creare automi con comportamento simile a quello umano. Cominciarono a pensare che i tempi sarebbero stati maturi solo quando le capacità di calcolo, dei sistemi basati sul microprocessore, avessero raggiunto un livello molto superiore e, al momento, non quantificabile.

    Questo pensiero convinse l’uomo a continuare ad investire nella progettazione di umanoidi sempre più sofisticati tecnologicamente, anche se dalle capacità comportamentali non paragonabili a quelle umane.

    «Arriverà il momento in cui il software e l’hardware saranno in grado si simulare completamente le attività di un cervello umano» enunciarono.

    La convinzione era di poter replicare il cervello umano con materiali non biologici. «Allora, innestato nell’hardware, l’automa sarà la replica dell’uomo» così confidavano.

    La scoperta del neurone, come processore base del cervello, aveva aperto nuovi scenari di studio. Iniziarono a studiare nuovi sistemi di elaborazione delle informazioni: le reti neurali. Il calcolatore elettronico basato sull’architettura di Von Neumann, e tutte le ricerche nel campo dell’informatica, avevano permesso di costruire macchine programmabili che lavoravano attraverso la manipolazione simbolica delle informazioni.

    Il cervello umano, invece, lavora in modo completamente diverso.

    Lo studio del neurone e delle sue connessioni, le sinapsi, permise di comprendere come biologicamente siano processate parti limitate di informazioni che messe insieme generano altre informazioni.

    Nel cervello umano il sistema lavora attraverso l’associazione di concetti, che sta alla base della teoria dell’apprendimento: la più grande scoperta di quel tempo.

    Il neurone, inserito in una grandissima rete, non solo lascia passare una porzione di dati, ma si modifica lui stesso a seconda dei dati transitati.

    In una rete neurale avviene il più grande dei processi umani: l’apprendimento!

    Nel secolo successivo alla scoperta del neurone, la modellizzazione matematica delle reti neurali era arrivata a descrivere quasi perfettamente ciò che avviene nel cervello umano. Dopo cento anni, l’uomo era riuscito a simulare matematicamente il percorso dell’informazione dagli organi sensoriali al tessuto cerebrale, compreso la rete di connessioni neurali. Questi algoritmi iniziarono ad essere usati nell’ambito informatico per la progettazione di software in grado di gestire il processo di apprendimento dei robot industriali.

    In quel tempo, la tecnologia dei sensori era sufficientemente evoluta per rilevare qualunque parametro del mondo circostante. La sintesi vocale era a livelli eccelsi già da parecchi anni, come i sistemi meccatronici di movimentazione degli arti. Allora, iniziarono a costruire robot in grado di muoversi in ambienti pericolosi con la stessa facilità dell’uomo.

    Passarono altri anni e arrivarono alla sintesi biologica della pelle umana: gli automi dalle sembianze antropiche erano quasi indistinguibili dall’uomo. Si muovevano con naturalezza, facevano esperienza dell’ambiente in cui erano collocati, il loro viso aveva delle espressioni in perfetta sintonia con ciò che sperimentavano, come avrebbe fatto un uomo, ma la luce riflessa dai loro occhi continuava ad essere fredda: non avevano la cognizione del « Io sono!»

    Automi

    Ian Han, aveva dedicato tutta la vita allo studio dei robot. Non usava mai la parola automa, ma solo robot.

    «Sono macchine intelligenti come diceva qualche secolo fa il grande Turing!» evocava, «si comportano come uomini, anzi, in molte circostanze decisamente meglio. Ma non sanno di essere una macchina, né tanto meno un uomo!» proclamava spesso alla sua assistente di laboratorio all’università.

    «Quindi, lei, si ostina a non chiamarli automi, come li chiamano tutti!» gli rispose stizzita un giorno.

    «Li chiamerò automi solo quando si riuscirà a farne uno che avrà una coscienza, altrimenti seguiterò a chiamarli robot. Mia cara.»

    «Professor Han, lei è un vecchio burbero che vuole sempre essere fuori dal coro…ma è il burbero più simpatico e geniale che io conosca!»

    «Dottoressa Laren, da quanto tempo fa parte del mio gruppo di ricerca?»

    «Più o meno da otto anni, professore. Perché?»

    «Non si è ancora stancata? Voglio dire, lei ha avuto delle offerte da altre università ma le ha rifiutate. E’ ancora qui, con me.»

    «E’ vero. Ho ricevuto delle buone proposte che avrei potuto accettare. Ma non me la sono sentita…»

    «Cos’è che continua a trattenerla qui?»

    «La ricerca che stiamo portando avanti. Non riesco a staccarmene. Generare uno stato di coscienza negli automi. Sono persuasa che riusciremo a dar loro la consapevolezza di esistere».

    Il professor Han, si fece serio:

    «Sono lusingato della sua dedizione. Sarebbe una delle più grandi invenzioni nella storia dell’uomo. Ma le confesso una cosa: ne sono terribilmente spaventato!»

    Ian Han era uno dei più illustri scienziati del tempo, forse il più grande esperto di cibernetica tra i suoi contemporanei. Aveva contribuito con i suoi studi a portare il livello tecnico dei robot, sia hardware che software, ad un valore tale da renderli indistinguibili dall’uomo in molteplici attività. Voleva salire sull’ultimo scalino: dare loro una coscienza artificiale.

    Era convinto che la scienza non doveva essere frenata in questo, ma sapeva che se mai ci fosse riuscito avrebbe sconvolto la storia dell’uomo. Non cercava il riconoscimento scientifico, né la gloria. Semplicemente amava la ricerca, la conoscenza, la curiosità. Per nulla al mondo avrebbe rinunciato a questo.

    La dottoressa Sue Laren era stata una sua allieva. Una fra le più brillanti. Era rimasta affascinata sin dall’inizio dalla passione con cui il professore trasmetteva gli insegnamenti agli studenti e dopo la laurea era rimasta nel suo gruppo di ricerca. Era ambiziosa, voleva che il mondo si accorgesse di lei ma anche intellettualmente onesta e mai si sarebbe lasciata travolgere dalla voglia di successo a scapito della bontà del suo lavoro. Era affascinata dall’obbiettivo che il professor Han si era posto e dalla sua capacità di coinvolgere tutto il suo gruppo di ricercatori.

    Da otto anni lavoravano alla coscienza artificiale. Avevano capito chiaramente che la sua nascita, in un robot, non era legata alla capacità di apprendimento. Gli automi, come tutti li chiamavano, avevano una capacità di auto-apprendimento paragonabile a quella di un essere umano. Però, non erano in grado di superare quelli che erano chiamati stati paradossali. Il cervello non biologico, formato da processori neurali, aveva la stessa capacità di processare le informazioni di quello biologico. Le capacità sensoriali erano della stessa qualità di quelle umane, ed anche la trasmissione dei parametri era praticamente dello stesso livello.

    Quindi, «perché non possono avere una coscienza?» continuava chiedere ai suoi ricercatori, il professore.

    Sue era tormentata dal pensiero:

    «Quand’è che un bambino riconosce se stesso? Qual’è il momento in cui si rende conto di essere

    Impianti sui neuroni

    Nel ventunesimo secolo, l’uomo iniziò ad impiantare dei chip nel cervello. Questi dispositivi di silicio erano in grado di interpretare i segnali elettrici provenienti dai neuroni e trasmetterli a dei bracci meccanici esterni al corpo. I primi esperimenti condotti sulle scimmie permisero di capire a quali enormi conoscenze avrebbero portato.

    Quando la nano-elettronica portò all’inserimento di un chip su un disabile che aveva perso da anni l’uso degli arti ed attraverso di esso cominciò a diventare autonomo nella manipolazione degli oggetti, si aprì una nuova frontiera per la biotecnologia. I problemi da risolvere erano tanti e di enorme difficoltà ma la strada era ormai tracciata. Migliaia di persone costrette a vivere immobili in un letto ebbero una nuova speranza.

    L’economia, però, prese il sopravvento. Dopo qualche decina d’anni, il messaggio veicolato dai mezzi di comunicazione di massa, fu quello di una infinita possibilità di ricambi per qualunque arto colpito da una malattia degenerativa.

    Microprocessori sempre più potenti, specializzati nell’elaborazione dei segnali elettrici del cervello, di dimensioni infinitesimali, iniziarono ad essere prodotti su scala industriale con costi sempre più bassi.

    Servirono altri cento anni per permettere alla medicina ed alla biotecnologia di inserire una grande quantità di elaboratori all’interno del cranio di un uomo. I nuovi controllori erano in grado di trasmettere qualunque segnale elettrico in transito sulla rete neurale del cervello. Potevano trasmetterli ad un elaboratore esterno per essere archiviati, studiati ed eventualmente usati come dati d’ingresso in particolari software di simulazione.

    Ian Han, dopo il suo ciclo di formazione giovanile, vinse una borsa di studio per l’approfondimento degli algoritmi dedicati all’analisi dei segnali di comunicazione tra bio-chip impiantati nel cervello e un sistema di elaborazione esterno. Gli studi portarono alla progettazione di software, su sistemi paralleli, in grado di simulare completamente un cervello umano. Questi risultati gli permisero di ottenere la cattedra di Automatica all’università in cui lavorava come ricercatore.

    In quei tempi, la scienza e la tecnologia, risolsero molti problemi per l’applicazione di arti bio-meccanici e i sistemi di comunicazione tra i controllori cerebrali e gli arti stessi. I ricercatori erano arrivati ad un punto di eccellenza tale da non distinguere più un uomo con arti proprie da quello che avesse subito un nuovo innesto. L’essere umano era in grado di costruirsi i propri organi e comandarli come quelli biologici.

    Il gruppo di ricerca guidato dal professor Han aveva l’obiettivo di realizzare dei robot che fossero in tutto e per tutto uguali ad un organismo umano. Ian, aveva capito che il passaggio per arrivare a questo era l’analisi dei segnali provenienti da un cervello biologico, per essere poi innestati nelle reti neurali del robot. Uno dei punti di forza del professore era stata la capacità di mettere insieme un gruppo di scienziati, motivati e preparati, per affrontare un tema non privo di insidie morali. Già in anni precedenti altri studiosi erano riusciti ad elaborare i segnali trasmessi dal cervello, sintetizzandone i pensieri. Riuscirono a riprodurre su un computer le immagini di un paesaggio sognato da un uomo che si era sottoposto all’esperimento.

    Han era consapevole del pericolo che stavano correndo ma non poteva, né voleva, fermare la corsa verso la conoscenza.

    Quando nel gruppo arrivò la dottoressa Sue Laren, Ian Han non ebbe dubbi a chi affidare la simulazione del sub-conscio attraverso il computer. Il professore era convinto che quella ricerca avrebbe portato ad una svolta nell’evoluzione degli automi. I robot erano ormai impiegati in tutti i settori delle attività umane. Le capacità di elaborazione erano uguali a quelle dell’uomo e così pure le loro sembianze.

    Si incontrarono nell’ufficio del professore, vicino al laboratorio di Automatica:

    «Dottoressa Laren, il suo percorso di studi è di tutto rispetto. Le ricerche che ha affrontato durante il dottorato hanno portato a risultati meravigliosi. Mi complimento con lei.»

    «Mi mette in imbarazzo» disse togliendoli la parola.

    Poi continuò:

    «Ho sempre cercato di fare del mio meglio per dare il massimo contributo possibile alla ricerca. Vorrei, un giorno, essere ricordata per qualcosa di importante. Entrare ufficialmente nel suo team è un sogno.»

    «Una con il suo curriculum entrerebbe in qualunque gruppo, mi creda. Però, io sono diverso dagli altri. Io pretendo una dote in più: la capacità di lavorare in squadra. Lei è molto ambiziosa e lo deve ammettere. Però, credo che sia così intelligente da capire che non potrebbe arrivare a nessun risultato, degno di essere ricordato in futuro, se non fosse in grado di collaborare con i suoi colleghi. Mi risponda con sincerità. E’ in grado di dimenticare un pochino se stessa per il bene del gruppo?»

    «Si, certamente!» rispose, cercando di essere il più convincente possibile.

    «Bene. La settimana prossima può aggregarsi a noi. Benvenuta nel gruppo!» concluse il professore porgendole la mano. Lei ricambiò.

    Erano passati otto anni da quel momento. Molti passi in avanti erano stati fatti nello studio della simulazione dello strato più profondo dell’inconscio umano. Ma non era ancora abbastanza per la sintesi della coscienza artificiale. Sue era convinta che l’impianto teorico e di conoscenze raggiunti fossero sufficienti per generarla, sarebbe bastato solo trovare un sistema d’innesco, un meccanismo, un detonatore che ne provocasse l’accensione. Il resto sarebbe stato una sorta di effetto domino che progressivamente avrebbe portato l’automa alla consapevolezza di esistere come essere unico e pensante.

    Il tempo passava e malgrado evidenti miglioramenti nell’analisi dei segnali, non erano ancora riusciti ad innescare quel circolo virtuoso che avviene in un bambino. I robot continuavano a non riconoscersi come singola creatura.

    Sue Laren era diventata il punto di riferimento del gruppo di ricerca, dopo il professore.

    Nick, un giovane appena reclutato, la chiamò mentre lei stava uscendo:

    «Sue, aspetta…sai cosa pensavo ieri sera»?

    «Non dirmi che mi stai invitando a cena!» rispose.

    «No…no» replicò ridendo, «stavo pensando a quando avevo circa un anno,» continuò facendosi serio, «mi è sembrato di ricordare il momento in cui ho avuto la percezione di esistere…non so come dirlo. Fino a quel momento credo che non mi vedessi. Vedevo gli altri, guardavo le mie mani ed era come se guardassi le mani di un altro. Non le riconoscevo come mie. Le vedevo come mezzi per prendere altri oggetti, con difficoltà.»

    Sue cominciò a prestare attenzione a quelle parole: «Continua» disse posando a terra la borsa.

    «E’ difficile, è come se si fosse accesa la luce in soffitta per un istante e fossi riuscito ad intravedere qualcosa ma poi…di nuovo buio! Per un istante mi è sembrato di rivedere il momento in cui per la prima volta ho conosciuto me stesso. Sai, io credo che tutto avvenga come in un gioco di specchi».

    «Cosa intendi dire?»

    «E’ come se tu fossi in mezzo a due specchi, la tua immagine viene riflessa all’infinito. Poi, lentamente, uno dei due inizia ad appannarsi e gradatamente resta un’unica immagine nell’altro, te stessa! In quel momento, soltanto in quel momento, hai la percezione di essere unica, di esistere.»

    Sue, rimase in silenzio per qualche secondo. Poi, riprendendo in mano ciò che aveva posato a terra poco prima, disse:

    «Nick, tutto quello che hai detto è molto interessante. Prova a sintetizzarlo nel computer. Ora devo andare…è tardi…ci vediamo domani».

    S’incamminò con passo veloce lungo il corridoio. Mentre camminava i lunghi capelli ondeggiavano sulle spalle. Lui rimase a guardarla fino a quando si spense la luce automatica. Fece un movimento con il corpo per riaccenderla.

    «E’ una donna affascinante,» pensò tra sé.

    Il giorno dopo, di buonora, Sue era già al lavoro. Aspettò che arrivasse il professore, poi entrò nel suo ufficio.

    Ian Han, stava bevendo una

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