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La casa della foresta
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E-book608 pagine9 ore

La casa della foresta

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Info su questo ebook

Il secondo libro del ciclo di Avalon, lo straordinario ritorno del mondo che ha ispirato Le nebbie di Avalon.
Il suo nome è Eilan, figlia di una famiglia druidica e dotata della Vista. Il suo fato, da sempre, è quello di diventare sacerdotessa della Dea, custode della Casa della Foresta e dell'Isola Sacra, il futuro regno di Avalon.
Ma Eilan, durante le celebrazioni di Beltane, ha scelto una strada diversa. La strada della ribellione e dell'amore. Si è infatti innamorata di Gaio, un soldato di sangue misto che è arrivato in Britannia con le truppe romane per soggiogare l’antica terra dei Druidi. Ma quando la Somma Sacerdotessa muore, Eilan è designata come sua erede. Dovrà diventare Signora della Casa della Foresta o seguire il suo cuore?
Solo il potere della Dea potrà aiutarla a districarsi nel crudele destino che il Fato sembra aver disegnato per lei…
Il secondo volume del Ciclo di Avalon, ambientato ai tempi dell'invasione romana in Britannia nel I secolo d.C., narra eventi avvenuti circa quattrocento anni prima rispetto ai fatti di Le nebbie di Avalon.
Dopo Le nebbie di Avalon, anche La Casa della Foresta, precedentemente intitolato "Le querce
di Albion", è ripubblicato per la prima volta in versione integrale nella nuova traduzione di Flavio Santi, che restituisce all'opera il suo splendore originario e conserva il titolo voluto dall'autrice.
LinguaItaliano
Data di uscita17 ott 2019
ISBN9788830505537
La casa della foresta
Autore

Marion Zimmer Bradley

Nata nel 1930 ad Albany, New Jersey, si è laureata in Letteratura nel 1964 alla Hardin Simmons University ed è stata per lungo tempo ricercatrice alla University of California di Berkeley.Ha esordito come scrittrice nel 1961 con il romanzo, The Door Through Space, e l'anno seguente il primo titolo del fortunato Ciclo di Darkover, La spada di Aldones, l'ha consacrata tra le più famose autrici di narrativa fantastica a livello mondiale. Pubblicato nel 1982 e considerato il suo capolavoro, Le nebbie di Avalon ha raggiunto in tutto il mondo i vertici delle classifiche, compresa quella del New York Times, e nel 1984 ha vinto il Locus Award come miglior romanzo fantasy. Autrice di oltre sessanta romanzi e numerose raccolte di racconti tradotti in venti lingue, Marion Zimmer Bradley si è spenta a Berkeley nel 1999, a soli sessantanove anni.

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    Anteprima del libro

    La casa della foresta - Marion Zimmer Bradley

    1

    Lame di luce risplendevano tra gli alberi mentre il sole tramontava al di sotto delle nuvole, tingendo d’oro il contorno di ogni foglia, umida per la recente pioggia. I capelli delle due fanciulle che avanzavano lungo il sentiero brillavano dello stesso fuoco tenue. La rigogliosa foresta vergine che ricopriva ancora gran parte della Britannia meridionale era bagnata e silenziosa, e da qualche ramo basso stillavano gocce di pioggia come una benevola benedizione.

    Eilan inspirò profondamente l’aria carica dei pungenti odori del bosco e dolce come l’incenso nell’atmosfera fumosa della dimora paterna. Nella Casa della Foresta, le avevano detto, usavano erbe sacre per purificare l’aria. Istintivamente si raddrizzò, cercando di camminare come una delle sacerdotesse che vivevano laggiù, e sollevò il cesto delle offerte imitando la loro grazia soave. Poi, per un attimo, il corpo ondeggiò con un ritmo al contempo inconsueto e spontaneo, come se, in un lontano passato, fosse stata abituata a muoversi in quel modo.

    Soltanto quando era iniziato il suo ciclo lunare aveva avuto il permesso di portare le offerte alla fonte. Come il ciclo mensile faceva di lei una donna, diceva sua madre, così le acque della sorgente sacra rappresentavano la fertilità della terra. I riti della Casa della Foresta facevano discendere la Dea al plenilunio. La notte precedente c’era stata la luna piena e, prima che la madre la richiamasse in casa, Eilan era rimasta a lungo a contemplarla, colma di un’attesa vaga e indefinibile.

    Forse la sacerdotessa dell’Oracolo mi chiamerà come Dea per la festa di Beltane. Eilan chiuse gli occhi e cercò di immaginarsi la veste blu delle sacerdotesse e il velo che ombreggiava misteriosamente i loro volti.

    «Eilan, cosa stai facendo?» La voce di Dieda la riscosse, riportandola alla realtà. Inciampò in una radice e per poco il cesto non cadde a terra. «Sei rimasta indietro come una vacca zoppa! Se non ci sbrighiamo, farà notte prima che torniamo a casa.»

    Eilan si riprese, recuperò l’equilibrio e, paonazza in viso, si affrettò dietro la compagna. Sentiva già il dolce mormorio della sorgente. Adesso il sentiero era in discesa e lei seguì Dieda verso la fenditura tra le rocce da cui scaturiva la sacra fonte. In un remoto passato gli uomini vi avevano posato intorno delle pietre e, con il tempo, l’acqua aveva levigato le incisioni a spirale che vi erano scolpite. Ma il nocciolo ai cui rami la gente legava i nastri con i propri desideri era giovane, e discendeva dai numerosi alberi cresciuti in quel luogo.

    Sedettero sul bordo e stesero un telo per le offerte: prelibate focacce, un’ampolla di idromele e alcune monete d’argento. Certo, era una piccola sorgente, dimora delle divinità minori della foresta, e non uno dei laghi sacri dove gli eserciti sacrificavano i tesori conquistati, tuttavia da molti anni ogni mese, al termine del ciclo lunare, le donne della famiglia di Eilan vi portavano delle offerte per rinnovare il legame con la Dea.

    Tremando per l’aria fresca, si tolsero gli abiti e si chinarono verso l’acqua.

    «O sacra fonte, tu sei il grembo della Dea. Come le tue acque sono la culla della vita, così io possa portare nuova vita nel mondo…» Eilan raccolse un po’ d’acqua e se la versò sul ventre e tra le cosce.

    «O sacra fonte, le tue acque sono il latte della Dea. Come tu nutri il mondo, così io possa nutrire coloro che amo…» Lambiti dall’acqua gelida, i capezzoli si indurirono.

    «O sacra fonte, tu sei lo spirito della Dea. Come le tue acque sgorgano eterne dalle viscere della Terra, così dona a me il potere di rinnovare il mondo…» Eilan trasalì quando l’acqua le bagnò la fronte.

    Osservò la superficie della sorgente tra le ombre e, mentre la fonte si quietava, il pallido bagliore del suo riflesso si ricompose, ma il viso che ricambiava il suo sguardo mutò. Era quello di una donna più vecchia, la carnagione ancora più pallida, i riccioli scuri dalle striature rosse simili a scintille; soltanto gli occhi erano rimasti gli stessi.

    «Eilan!»

    Appena Dieda parlò, la giovane sbatté le palpebre e il viso riflesso nella fonte tornò il suo. Le due fanciulle erano infreddolite, così si rivestirono in fretta. Poi Dieda prese il cesto con le focacce e con voce sincera e melodiosa cantò:

    Della sacra fonte mia signora,

    queste offerte ti porto or ora.

    Vita ti chiedo, fortuna e amore.

    I miei doni, oh Dea, accetta per favore.

    Nella Casa della Foresta, pensò Eilan, quella canzone sarebbe stata intonata da un coro di sacerdotesse. La sua voce, flebile ed esitante, si unì a quella di Dieda in un’armonia stranamente piacevole:

    Benedici i campi e la foresta

    perché ci diano doni con cui far festa;

    tutti i parenti stiano bene,

    i corpi e le anime proteggi dalle pene!

    Eilan versò l’idromele, mentre la compagna sbriciolava le focacce e le gettava nell’acqua. La corrente le trascinò via e per un momento le sembrò che il mormorio della sacra fonte fosse diventato più forte. Le due ragazze si sporsero in avanti e lasciarono cadere le monete che avevano con sé.

    Quando le increspature svanirono, Eilan scorse i riflessi dei loro volti sulla superficie. Erano così vicini e così simili che si irrigidì, temendo di intravedere di nuovo la sconosciuta, invece le apparve un solo viso, con gli occhi che scintillavano nell’acqua come astri nel mare oscuro del firmamento.

    «Signora, sei lo spirito della sorgente? Cosa vuoi da me?» chiese dal profondo del cuore. E le sembrò di sentire la risposta: «La mia vita fluisce in tutte le acque come fluisce nelle tue vene. Io sono il Fiume del Tempo e il Mare dello Spazio. Per molte vite sei stata mia. Adsartha, figliola, quando adempirai ai voti che mi hai promesso?».

    Ebbe l’impressione che dagli occhi della Signora si sprigionasse un bagliore così forte da illuminarle l’anima – o forse era il sole dato che, tornata in sé, sbatté le palpebre a causa dei raggi che penetravano tra gli alberi.

    «Eilan!» proruppe la compagna in tono seccato. «Che ti succede oggi?»

    «L’hai vista?» esclamò Eilan. «Hai visto la Signora nella sorgente?»

    Dieda scrollò la testa. «Parli come una di quelle invasate di Vernemeton che vaneggiano a proposito di visioni!»

    «Come puoi dire una cosa del genere? Sei la figlia del Sommo Druido… Nella Casa della Foresta potresti diventare un bardo!»

    Dieda corrugò la fronte. «Un bardo donna? Ardanos non lo permetterebbe mai. E poi non voglio passare tutta la vita in compagnia di un branco di femmine! Preferirei unirmi ai Corvi con tuo fratello Cynric e combattere contro i Romani…»

    «Taci!» Eilan si guardò intorno come se gli alberi potessero sentirle. «Non sai fare altro che parlare di lui persino qui? E poi tu non vuoi unirti ai Corvi, vuoi unirti a Cynric, semmai… Ho notato come lo guardi!» Sorrise maliziosa.

    Dieda avvampò. «Tu non sai niente! Ma verrà la tua ora, e quando perderai la testa per un uomo, sarò io a ridere!» Iniziò a ripiegare il telo.

    «Non accadrà mai» rispose Eilan. «Io voglio servire la Dea!» Per un momento la sua vista si oscurò e il mormorio dell’acqua sembrò diventare più forte, come se la Signora l’avesse udita.

    «Su, torniamo a casa.» Dieda le porse il cesto e si incamminò verso il sentiero, ma Eilan esitò, turbata da un rumore sospetto.

    «Aspetta Dieda! Hai sentito? Viene dalla vecchia trappola per cinghiali…»

    Dieda si fermò, voltando la testa. Di nuovo quel rumore, più flebile, simile al verso di un animale morente. «È meglio che andiamo a vedere» propose. «Anche se arriveremo tardi a casa. Ma, se è caduto un animale, gli uomini dovranno venire a sgozzarlo.»

    Scosso e ferito, il ragazzo giaceva nel fossato; le speranze di salvarsi diminuivano con il calare della luce.

    La fossa, umida e sporca, puzzava dello sterco degli animali che vi erano caduti in passato. Sul fondo e ai lati spuntavano pali appuntiti, uno dei quali gli aveva trafitto la spalla: non sembrava una ferita gravissima, e per il momento nemmeno molto dolorosa, tuttavia probabilmente alla lunga lo avrebbe ucciso.

    Non che avesse paura di morire: Gaius Macellius Severus Siluricus aveva diciannove anni e aveva giurato fedeltà all’imperatore Titus come ufficiale romano. Aveva cominciato a combattere prima che la peluria gli spuntasse sul viso, però il pensiero di morire perché era caduto in una trappola come una stupida lepre lo mandava su tutte le furie. Era colpa sua, rifletté amareggiato. Se avesse dato ascolto a Clotinus Albus, in quel momento sarebbe stato seduto davanti al fuoco a bere la birra delle Terre del Sud e a corteggiare la figlia del suo ospite, Gwenna, che aveva abbandonato le caste abitudini dei Britanni di campagna per adottare gli atteggiamenti più spregiudicati delle ragazze delle città romane come Londinium, con la stessa facilità con cui suo padre aveva accolto la lingua latina e la toga.

    Eppure era stato inviato in missione laggiù perché conosceva i dialetti britanni, si disse con una smorfia di amarezza. Il vecchio Severus, suo padre, era praefectus castrorum della Legio II Adiutrix a Deva e aveva sposato la figlia dai capelli corvini di un capoclan dei Siluri nei primi tempi della conquista, quando Roma sperava di potersi alleare stabilmente con quelle tribù. Gaius aveva imparato il loro dialetto ancora prima di iniziare a balbettare qualche parola latina.

    Un tempo, un ufficiale di una legione imperiale di stanza nel forte di Deva non si sarebbe disturbato a formulare le sue richieste nella lingua del paese conquistato. Ancora adesso Flavius Rufus, tribuno della seconda coorte, non badava a simili accortezze. Ma Macellius Severus, praefectus castrorum, rispondeva soltanto ad Agricola, governatore della provincia di Britannia, e aveva il compito di mantenere la pace e l’armonia tra la popolazione e la legione che occupava, difendeva e governava quella terra.

    La generazione successiva alla regina guerriera Boudicca aveva cercato invano di ribellarsi ed era stata brutalmente punita dalle legioni: il popolo britanno si stava ancora leccando le ferite, eppure era abbastanza pacifico da sopportare le tasse e i tributi imposti. L’arruolamento forzato degli uomini, invece, era meno tollerato e lì, ai confini dell’Impero, il risentimento e il malcontento covavano ancora, alimentati da alcuni capi di second’ordine. In quella situazione così tesa Flavius Rufus aveva mandato un contingente di legionari per sovrintendere al reclutamento di uomini destinati alle miniere imperiali di piombo sulle colline.

    La politica imperiale non ammetteva che un giovane ufficiale prestasse servizio nella stessa legione in cui il padre aveva una carica importante come quella di praefectus, perciò adesso Gaius aveva il grado di tribuno militare nella Legio XX Valeria Victrix a Glevum, e, sebbene fosse per metà britanno, sin dall’infanzia era stato sottoposto alla ferrea disciplina dei figli dei soldati romani.

    Fino a quel momento Macellius non aveva chiesto favori per il suo unico figlio. Ma Gaius era rimasto leggermente ferito a una gamba durante uno scontro sul confine e un’improvvisa febbre l’aveva poi costretto a trascorrere un periodo di convalescenza a Deva. Una volta guarito, quel soggiorno nella casa del padre l’aveva reso irrequieto, così la possibilità di condurre un manipolo di Britanni alle miniere gli era apparsa come una piacevole vacanza.

    Il viaggio non aveva riservato sorprese: dopo aver portato gli uomini a destinazione, Gaius, che disponeva di altri quattordici giorni di licenza, aveva accettato l’invito di Clotinus Albus a fermarsi per qualche giorno e andare a caccia. A convincerlo erano state soprattutto le occhiate lascive della figlia. Del resto Clotinus era un cacciatore molto abile e, come Gaius sapeva bene, era compiaciuto all’idea di offrire ospitalità al figlio di un’importante personalità romana. Aveva quindi accettato con una scrollata di spalle, si era divertito – la caccia era andata bene – e aveva sussurrato alla figlia di Clotinus svariate menzogne galanti – anche quella caccia era andata benone. Proprio il giorno prima in quel bosco aveva ucciso un cervo, maneggiando la lancia leggera con la stessa destrezza con cui i Britanni maneggiavano le proprie armi. Adesso, invece…

    Disteso nel lerciume della fossa, Gaius aveva inveito contro il pavido schiavo che si era offerto di mostrargli una scorciatoia la quale, a suo dire, conduceva direttamente dalla casa di Clotinus alla strada romana per Deva. Aveva imprecato contro la propria leggerezza perché aveva permesso a quello sciocco di guidare il carro, contro la lepre – o quel che era – che aveva spaventato i cavalli, contro quegli animali male addestrati, contro lo stolto che se li era lasciati sfuggire e infine contro l’attimo di disattenzione in cui aveva perso l’equilibrio ed era caduto a terra, mezzo svenuto.

    Certo, si poteva cadere ma, se non fosse stato fuori di sé per ciò che era accaduto, la prudenza gli avrebbe suggerito di restarsene dov’era: persino quello stupido schiavo prima o poi avrebbe ripreso il controllo dei cavalli e sarebbe tornato indietro a cercarlo. Malediceva soprattutto la propria follia che l’aveva spinto a lasciare il sentiero e aggirarsi per la foresta. Doveva aver vagato a lungo.

    Era ancora stordito dalla caduta, ma ricordava con agghiacciante lucidità lo scivolone improvviso, il cedimento delle foglie e dei rami che coprivano la trappola e infine il volo e il palo appuntito che gli aveva trafitto la spalla facendogli perdere conoscenza per qualche minuto. Era pomeriggio inoltrato quando si era ripreso abbastanza per valutare le ferite. Un secondo paletto aguzzo gli aveva lacerato il polpaccio, riaprendo una vecchia ferita: non era grave, ma l’urto era stato così violento che la caviglia si era gonfiata a dismisura, diventando grossa quanto la coscia… Era fratturata, o almeno così sembrava. In condizioni normali Gaius, agile quanto un felino, sarebbe uscito dalla fossa con un balzo, ma adesso era troppo debole e frastornato per muoversi.

    Sapeva che, se prima del calare della notte non l’avesse ucciso l’emorragia, sarebbe stato aggredito dalle bestie feroci attirate dall’odore del sangue. Cercò di non pensare alle storie che gli aveva raccontato la nutrice, storie in cui accadevano fatti ancora più orribili.

    La fredda umidità gli penetrava nel corpo. Aveva gridato fino a sgolarsi. Ora, se proprio doveva morire, l’avrebbe fatto con la dignità di un soldato romano! Si coprì il volto con un lembo del mantello insanguinato, poi, mentre il cuore batteva all’impazzata, si raddrizzò: aveva udito delle voci.

    Raccolse le poche forze che gli restavano e lanciò un urlo a metà tra un grido e un ululato. Vergognandosi di quel suono nell’attimo stesso in cui gli uscì di bocca, tentò di aggiungere qualche implorazione più umana, ma invano. Si aggrappò a uno dei pali, riuscendo però soltanto a sollevarsi in ginocchio e ad appoggiarsi alla parete di terra.

    Abbagliato da un ultimo raggio di sole, sbatté le palpebre e vide la testa di una ragazza incorniciata dalla luce sopra di lui.

    «Grande Madre!» esclamò lei con voce cristallina. «Per gli Dei! Come hai fatto a cadere qui? Non hai notato i segnali di avvertimento sugli alberi?»

    Gaius non rispose. La giovane gli aveva parlato in un dialetto strettissimo che gli era poco familiare. Ovvio: doveva trovarsi nel territorio degli Ordovici. Rifletté un istante prima di tradurre la risposta nel dialetto silurico della madre.

    Non aveva ancora aperto bocca quando una seconda voce femminile, più forte e squillante, esclamò: «Che babbeo! Dovremmo lasciarlo lì come esca per i lupi!». Si affacciò un secondo viso, così simile al primo che all’inizio Gaius si domandò se la vista non gli stesse giocando qualche brutto scherzo.

    «Su, afferra la mia mano. Credo che fra tutte e due riusciremo a tirarti fuori» disse la seconda ragazza. «Eilan, aiutami!» Delle dita femminili, candide e affusolate, si tesero verso di lui. Gaius allungò la mano illesa, ma non riuscì ad aggrapparsi. «Che succede? Sei ferito?» chiese la ragazza in tono più gentile.

    Prima che potesse rispondere, l’altra, di cui Gaius non vedeva quasi nulla – anche se ne intuiva la giovane età – si sporse per guardare meglio.

    «Oh, adesso ho capito… Dieda, sta sanguinando! Corri a chiamare Cynric per tirarlo fuori!»

    Gaius fu invaso da un sollievo così intenso che per poco non perse i sensi. Si accasciò, e quel movimento gli riaprì le ferite, strappandogli un gemito.

    «Non svenire» disse la voce dall’alto. «Lascia che le mie parole siano la corda che ti lega alla vita. Mi senti?»

    «Sì» mormorò Gaius. «Continua a parlarmi…»

    Forse perché sapeva che stavano per soccorrerlo, adesso poteva dare ascolto alle proprie sensazioni, benché le ferite cominciassero a fargli molto male. Udiva la voce della ragazza sopra di sé, anche se le sue parole non avevano più alcun significato. Assomigliavano al mormorio di un ruscello e trascinavano la sua mente al di là del dolore. Il mondo si oscurò. Soltanto quando scorse fra gli alberi il lampo di una torcia capì che era stata la luce del giorno, e non la sua vista, a venir meno.

    Il volto della ragazza sparì. Gaius la sentì gridare: «Padre, un uomo è caduto nella vecchia fossa dei cinghiali!».

    «Lo tireremo fuori» rispose una voce austera. «Mmm…» Gaius avvertì un movimento sopra di sé. «Ci vorrà una barella. Cynric, è meglio che tu scenda a vedere.»

    Subito dopo un giovane si calò nella fossa. Guardò il ferito e gli chiese allegramente: «A cosa stavi pensando? Bisogna essere proprio furbi per cadere qui dentro quando tutti, nei dintorni, sanno che questa trappola esiste da trent’anni!».

    Facendo appello al proprio orgoglio, Gaius stava per ribattere che, se il giovane l’avesse tirato fuori, l’avrebbe generosamente ricompensato, ma poi si compiacque di aver taciuto. Appena i suoi occhi si furono abituati alla luce della torcia, si accorse che il soccorritore aveva all’incirca la sua età, poco più di diciott’anni, ma era un gigante. I capelli biondi e ricci gli scendevano sulle spalle e il viso, ancora imberbe, era rilassato e allegro, come se salvare sconosciuti in fin di vita fosse per lui una faccenda di ordinaria amministrazione. Indossava una tunica di stoffa a quadretti e brache di cuoio tinto; il mantello di lana finemente ricamato era fissato da una fibbia d’oro a forma di corvo stilizzato in smalto rosso. Erano i vestiti di un uomo di famiglia nobile, ma non di quelli che fraternizzavano con i conquistatori e ne adottavano le usanze.

    «Non sono di queste parti e non conosco i vostri segnali» ribatté, secco.

    «Bene, non preoccuparti. Ti tirerò fuori, poi parleremo di come hai fatto a cadere.» Il giovane gli passò un braccio intorno alla vita e lo sollevò senza fatica, come se fosse un bambino. «Abbiamo scavato questa fossa per i cinghiali, gli orsi e i Romani» spiegò tranquillamente. «Peccato che ci sia finito tu…» Alzò lo sguardo. «Sarà difficile trovare qualcosa per preparare una barella. Dieda, passami il tuo mantello. Quello di quest’uomo è fradicio di sangue.»

    La ragazza glielo gettò e lui lo annodò intorno ai fianchi di Gaius, fissò l’altra estremità ai propri, appoggiò un piede sul paletto più basso e disse: «Se ti faccio male, urla. In questo modo ho tirato fuori parecchi orsi, ma erano morti e non potevano lamentarsi».

    Gaius strinse i denti. Si sentì sul punto di svenire per il dolore quando la caviglia gonfia urtò contro una radice sporgente. Qualcuno in alto si tese in avanti e gli afferrò le mani. Finalmente lui riuscì a sollevarsi oltre il bordo e rimase disteso a terra, immobile, ansimante, prima di trovare la forza per riaprire gli occhi.

    Un uomo più vecchio era chino su di lui. Gli tolse con delicatezza il mantello sporco ed emise un fischio. «Straniero, lassù qualcuno ti ama. Poche dita più in basso e il palo ti avrebbe trafitto il polmone. Cynric, ragazze, guardate la sua spalla ferita» continuò. «Il sangue è scuro e sgorga lentamente, quindi sta tornando al cuore. Se provenisse da lì, invece, sarebbe rosso fiammante e uscirebbe a fiotti. Se non lo avessimo trovato, probabilmente sarebbe morto dissanguato.»

    Il ragazzo biondo e le due giovani fecero a turno per osservare Gaius, che non proferiva parola. Un terribile sospetto si stava insinuando in lui. Aveva già rinunciato a presentarsi e a chiedere che lo portassero alla casa di Clotinus Albus in cambio di una lauta ricompensa. Ora sapeva che soltanto la vecchia tunica britanna che aveva indossato quella mattina per viaggiare lo aveva salvato. La sapienza medica che trapelava dalle parole dell’uomo gli rivelò che era alla presenza di un druido. Poi qualcuno lo sollevò, il mondo sprofondò nelle tenebre e svanì.

    Quando riprese i sensi, il viso di una ragazza lo stava scrutando alla luce del fuoco. Per un momento i suoi lineamenti sembrarono circonfusi da un alone luminoso. Era giovane e pallida, ma gli occhi avevano un’insolita sfumatura tra il nocciola e il grigio ed erano distanti, ornati da ciglia chiare. Nonostante le fossette ai lati, la bocca aveva una linea così seria che la invecchiava; i capelli erano chiari come le ciglia, quasi privi di colore, se non dove il bagliore del fuoco li tingeva di rosso. Una mano gli sfiorò il viso e Gaius ne sentì la freschezza: la ragazza gli stava bagnando le gote con l’acqua.

    Rimase a guardarla a lungo, finché quel volto non si impresse nella sua memoria. Poi qualcuno parlò: «Basta così, Eilan, credo sia rinvenuto», e lei indietreggiò.

    Eilan… Aveva già sentito quel nome… Forse in un sogno? Era così bella…

    Gaius aguzzò la vista e si accorse di essere sdraiato su un letto appoggiato a un muro basso. Si guardò intorno per cercare di capire dove fosse. Accanto a lui c’erano Cynric – il giovane che l’aveva tirato fuori dalla fossa – e il vecchio druido di cui non conosceva ancora il nome. Era in una struttura rotonda di legno, costruita secondo l’antico stile celtico, con le travi disposte a raggiera dalla cima del tetto alla sommità della parete. Non aveva più messo piede in una casa del genere da quando, ancora bambino, era andato con la madre a far visita ai parenti.

    Il pavimento era ricoperto di giunchi; i muri, formati da rami di nocciolo intrecciati, erano intonacati con calce e argilla e i letti erano separati da divisori in vimini. Come porta d’ingresso, una grande tenda di pelle. Trovarsi in quel luogo lo faceva tornare bambino, come se tutti gli anni di educazione romana fossero di colpo svaniti nel nulla.

    Girò lentamente lo sguardo e osservò di nuovo la ragazza. Indossava una veste di lino rosso scuro e teneva in mano un recipiente di rame. Era alta, più giovane di quanto avesse pensato in un primo momento, e il corpo, sotto le pieghe del tessuto, era minuto come quello di una bambina.

    Il bagliore delle fiamme svelò anche il vecchio druido. Il ragazzo si voltò leggermente per sbirciare nella sua direzione. Sebbene per i Britanni i Druidi fossero uomini saggi, a Gaius era stato sempre detto che erano solo dei fanatici. Trovarsi nella casa di uno di loro era come risvegliarsi nella tana di un lupo, e non si vergognava ad ammettere di avere paura.

    Per fortuna aveva avuto il buonsenso di nascondere la propria identità romana quando il vecchio aveva parlato della circolazione del sangue, conoscenza che il medico greco di suo padre attribuiva ai sacerdoti guaritori di rango più alto.

    Quella gente, invece, non faceva mistero di chi era. «Abbiamo scavato questa fossa per i cinghiali, gli orsi e i Romani» aveva ammesso candidamente il giovane, frase da cui avrebbe dovuto capire subito che si trovava molto lontano dalla cerchia protettiva dell’Impero romano, nonostante fosse ad appena un giorno di viaggio a cavallo dalla sede della legione a Deva!

    Anche se era nelle grinfie del nemico, almeno lo trattavano bene. Gli abiti della ragazza erano di buona fattura, il bacile di rame era finemente lavorato – senza dubbio proveniva da qualche mercato del Sud.

    Le canne intrise di sego usate come torce ardevano nei sostegni alle pareti. Il giaciglio era coperto di lini, il pagliericcio emanava un piacevole odore di erbe. Dopo il freddo della fossa, il caldo era una benedizione. Il vecchio che aveva diretto il salvataggio si sedette accanto a lui e per la prima volta Gaius poté vederlo chiaramente.

    Era un uomo possente, abbastanza forte da abbattere un toro con una spallata. I tratti del viso erano spigolosi, come se fossero stati scolpiti rozzamente nella pietra, gli occhi erano grigi e freddi e i capelli brizzolati. Gaius si disse che doveva essere sulla cinquantina, come suo padre.

    «Ti sei salvato per puro caso, mio giovane amico. La prossima volta tieni gli occhi aperti!» commentò il druido. Gaius ebbe l’impressione che fosse abituato a fare quelle ramanzine. «Ora controllerò la spalla. Eilan…» Fece un cenno alla ragazza e le diede alcune indicazioni sottovoce.

    Quando la ragazza uscì, Gaius domandò: «A chi devo la vita, mio nobile signore?». Mai avrebbe pensato di poter mostrare un simile rispetto per un druido. Come ogni altro bambino, anche lui aveva udito le orribili storie narrate da Iulius Caesar sui sacrifici umani e i racconti sulle tragiche guerre combattute per soffocare il culto druidico in Gallia e in Britannia. I Druidi che restavano erano ormai sottoposti alle leggi romane, ma potevano lo stesso causare gravi problemi, come i Cristiani. La differenza stava nel fatto che, mentre i Cristiani diffondevano il dissenso nelle città rifiutandosi di venerare l’imperatore, i Druidi potevano incitare a guerre sanguinose anche popolazioni già sottomesse.

    Tuttavia in quell’uomo c’era qualcosa che incuteva rispetto.

    «Mi chiamo Bendeigid» rispose il druido. Non fece domande, e Gaius si ricordò di aver sentito dire dai parenti materni che per i Celti l’ospite era sacro, almeno al di fuori delle terre romane. Anche il peggior nemico poteva chiedere cibo e riparo e poi andarsene indisturbato. Il suo respiro affannoso si calmò: in quel luogo sarebbe stato più sicuro – e più saggio – invocare l’ospitalità, anziché pretendere di averne diritto in quanto conquistatore.

    Eilan ritornò, portando con sé un piccolo scrigno di quercia placcato di ferro e un corno per bere. «Spero sia quello giusto» sussurrò timida.

    Il padre annuì bruscamente e le strappò lo scrigno di mano facendole segno di porgere il corno a Gaius. Il giovane cercò di afferrarlo ma, con sua grande sorpresa, si rese conto che non aveva la forza di chiudere le dita.

    «Bevi!» gli intimò il druido con il tono inconfondibile di chi è abituato a dare ordini ed essere obbedito. Poi aggiunse: «Ne avrai bisogno, credimi». Sembrava abbastanza gentile, ma Gaius cominciava ad avere paura.

    Bendeigid fece cenno alla figlia di avvicinarsi al letto.

    La ragazza sorrise, sorbì qualche goccia nel gesto tradizionale dell’ospitalità, poi accostò il corno alle labbra di Gaius. Il giovane cercò di sollevarsi, ma i muscoli non collaboravano, così Eilan gli sostenne la testa con il braccio perché potesse bere.

    Gaius sorseggiò il liquido: era idromele molto forte, a cui erano state aggiunte delle spezie amare medicamentose.

    «Straniero, avevi quasi raggiunto la Terra dell’eterna Giovinezza, ma non morirai» mormorò la ragazza. «Ti ho visto in sogno… eri più vecchio e avevi un bambino al tuo fianco.»

    Gaius la guardò: era troppo stordito per considerare inquietanti quelle parole. Per quanto fosse giovane, trovarsi con la testa contro il seno di quella fanciulla era come essere tornato fra le braccia della madre. Ora, nella sofferenza, riusciva quasi a ricordarla e gli occhi gli si riempirono di lacrime. Si rese vagamente conto che il vecchio druido gli aveva tagliato la tunica e, con l’aiuto di Cynric, gli stava lavando le ferite con una sostanza che bruciava, anche se non più dell’impiastro che il vecchio Manlius gli aveva applicato sulla gamba quando era rimasto ferito tempo prima. Gli spalmarono un unguento appiccicoso, dall’odore pungente, poi lo fasciarono con bende di lino e mossero la caviglia gonfia. Gaius osservava la scena con distacco e sentì qualcuno dire: «Niente di grave… non è nemmeno rotta».

    La voce di Cynric lo riscosse da quel torpore trasognato. «Preparati, giovane» lo avvertì. «Il palo era sporco, ma forse riusciremo a salvare il braccio, se lo cauterizziamo subito.»

    «Eilan» ordinò seccamente il vecchio, «esci. Non è uno spettacolo per una fanciulla della tua età.»

    «Resto io» le mormorò Cynric. «Puoi andare.»

    «Voglio rimanere, padre. Forse potrò essere utile» rispose lei, e strinse la mano di Gaius.

    Il vecchio borbottò: «Fa’ come vuoi, allora, ma non urlare né svenire».

    Un attimo dopo Gaius sentì due mani robuste – Cynric? – che lo tenevano fermo. Le dita di Eilan erano ancora intrecciate alle sue, ma stavano tremando leggermente. Voltò la testa, chiuse gli occhi e strinse i denti per non gridare come un bambino. Avvertì l’odore del ferro rovente, poi un dolore lancinante gli squassò il corpo e lui emise un gemito strozzato nel tentativo di soffocare un urlo.

    Cynric lasciò la presa e Gaius sentì soltanto le mani morbide della ragazza. Quando riaprì gli occhi, il vecchio druido lo fissava con un sorriso appena accennato in mezzo al barbone bigio. Ancora chino su di lui, Cynric era pallido come un cencio. Gaius aveva visto quella stessa espressione sul volto dei giovani al suo comando dopo la loro prima battaglia.

    «Bene, non sei di certo un coniglio» commentò Cynric con voce strozzata.

    «Grazie» sibilò Gaius. Risposta, date le circostanze, piuttosto assurda. Poi perse i sensi.

    2

    Quando Gaius riprese conoscenza, ebbe l’impressione di essere rimasto svenuto a lungo. Le torce si erano consumate, dalle braci del focolare arrivava poca luce, appena sufficiente per scorgere Eilan, che sonnecchiava, seduta accanto a lui. Era stremato. Il braccio gli pulsava dal dolore e aveva sete. Sentiva alcune voci femminili non distanti. La spalla era avvolta in bende di lino: gli sembrava di essere fasciato come un neonato. La ferita era cosparsa di unguento, il lino odorava di grasso e balsamo.

    La ragazza stava seduta accanto a lui in silenzio su uno sgabello, pallida e snella come una giovane betulla, i capelli ondulati – troppo sottili per non arricciarsi – pettinati all’indietro. Portava una collana d’oro con una specie di amuleto. Le donne della Britannia maturavano tardi, Gaius lo sapeva: poteva avere quindici anni. Non era ancora una donna, ma di sicuro non era più una bambina.

    Si sentì un rumore metallico, come se qualcuno avesse lasciato cadere un secchio. Una voce giovane sbottò: «Ma vacci tu a mungerle, se ci tieni tanto!».

    «E questo cosa c’entra con le vacche?» intervenne bruscamente una donna.

    «Oh, piange e si lamenta come una banshee perché quei macellai dei Romani hanno costretto il suo uomo ad arruolarsi ed è rimasta con tre bambini» replicò la persona che aveva parlato per prima. «E adesso anche il mio Rhodri se ne è andato per seguire le loro tracce…»

    «La maledizione di Tanarus si abbatta su tutti i Romani!» esclamò una voce che Gaius riconobbe come quella di Cynric, ma la donna lo interruppe.

    «Chiudi quella boccaccia! Mairi, metti i piatti in tavola, non stare lì a sgridare i bambini! Andrò io da quella povera donna, le dirò che può portare i piccoli a casa nostra. Ma anche se i Romani ci privassero di tutti gli uomini della Britannia, qualcuno dovrà pur mungere le vacche la sera…»

    «Tu sei buona, madre» osservò Cynric, e a quel punto le voci si abbassarono.

    La ragazza guardò Gaius e si alzò dallo sgabello. «Oh, sei sveglio» gli disse. «Hai fame?»

    «Potrei divorare un cavallo e il carro e inseguire il conducente fino a Venta» rispose Gaius serio.

    Eilan lo fissò per un momento, poi sgranò gli occhi e rise. «Andrò a vedere se in cucina hanno un carro con un cavallo» ribatté scherzosa.

    All’improvviso la luce alle sue spalle aumentò e sulla soglia comparve una donna. Gaius, sorpreso che nella stanza fosse entrato il sole, domandò senza pensare: «È già domani?». La donna rise, si voltò, tirò la tenda di pelle di cavallo e la fissò a un gancio.

    «Eilan non ha voluto che ti disturbassimo nemmeno per farti mangiare» gli spiegò. «Era convinta che il riposo ti avrebbe giovato più del cibo. Credo che avesse ragione, ma adesso avrai una fame da lupi. Mi dispiace non essere stata qui a darti il benvenuto nella nostra casa. Ero andata ad assistere una malata del nostro clan. Spero che Eilan si sia presa cura di te.»

    «Oh, sì» rispose Gaius. Sbatté le palpebre perché qualcosa, nel modo di fare della donna, gli aveva ricordato dolorosamente sua madre.

    La britanna lo guardò. Era molto bella, assomigliava così tanto alla ragazza che la parentela fra loro era evidente, anche prima che Eilan dicesse «Madre…» e si interrompesse, troppo timida per proseguire. Come la figlia, la donna aveva capelli biondi e occhi scuri, tra il grigio e il nocciola. Doveva aver lavorato con le sue ancelle, perché sulla sobria tunica di lana c’era uno sbaffo di farina, eppure la gonna che spuntava da sotto era candida, orlata di ricami e del lino più fine che Gaius avesse mai visto in Britannia. Le scarpe erano di squisito cuoio tinto e la veste era fissata da raffinate fibbie d’oro a spirale.

    «Spero che tu ti senta meglio» gli disse in tono gentile.

    Lui si appoggiò sul braccio illeso. «Molto meglio, mia signora» rispose. «E sono eternamente grato a te e ai tuoi.»

    La donna accennò un gesto per minimizzare. «Vieni da Deva?»

    «Ero in visita da quelle parti…» confermò Gaius. La sua inflessione latina sarebbe stata normale se la donna avesse pensato che proveniva da una città romana.

    «Poiché ti sei svegliato, chiederò a Cynric di aiutarti a lavarti e a vestirti.»

    «Sarà un vero piacere lavarmi» commentò Gaius, avvolgendosi nella coperta quando si accorse di essere nudo, a parte le bende.

    La donna seguì il suo sguardo e gli disse: «Ti troverò qualcosa da mettere. Forse ti starà un po’ grande, ma per il momento andrà bene. Se preferisci, resta qui a riposare. Appena ti sentirai in grado di alzarti, saremo lieti di accoglierti tra noi».

    Gaius rifletté un momento. Ogni fibra del corpo gli faceva male, come se fosse stato percosso da una gragnola di randellate; d’altra parte, però, era curioso di conoscere la famiglia e non voleva mancare di rispetto ai loro costumi. Aveva sempre creduto che i Britanni non alleati con Roma fossero dei selvaggi, ma quella comunità non aveva niente di primitivo.

    «Mi unirò a voi con piacere» rispose, e si passò una mano sulla faccia, notando con stupore che era ispida. «Ma vorrei lavarmi… e magari radermi.»

    «Non credo che dovresti darti la pena di raderti apposta per noi» puntualizzò lei. «Comunque Cynric ti aiuterà a lavarti. Eilan, va’ a cercare tuo fratello e digli che c’è bisogno di lui.»

    La ragazza sgattaiolò fuori. La donna si voltò per seguirla, poi osservò meglio Gaius. I suoi occhi passarono da un’espressione di cortesia a una di grande dolcezza che gli ricordò il modo in cui, tanto tempo prima, sua madre era solita guardarlo. «Sei giovanissimo…» commentò lei.

    Per un momento Gaius si sentì punto sul vivo – da tre anni faceva un lavoro da uomo! – tuttavia, prima che potesse ribattere, riecheggiò una voce giovane e impertinente: «Se lui è un ragazzo, madre, allora io sono un bambino in calzoni lunghi! Bene, hai sempre la testa fra le nuvole? Sei pronto a cadere in un’altra trappola per orsi?».

    Era entrato Cynric. Ancora una volta Gaius rimase colpito dalla sua statura: il britanno era il doppio di lui ma, a parte quello, era ancora un ragazzo. «Be’» commentò ridendo, «mi sembri un po’ meno pronto a essere portato via dal vecchiaccio che falcia gli stolti e i beoni. Lascia che dia un’occhiata alla gamba, così capiremo se puoi appoggiare il piede a terra.» Nonostante la stazza, esaminò la ferita con delicatezza. Appena ebbe finito, rise di nuovo. «Avessimo tutti gambe così perfette per camminare! È solo una brutta botta: hai urtato contro un paletto? Penso di sì. Un altro meno fortunato di te se la sarebbe rotta in almeno tre punti rimanendo zoppo per il resto della vita, invece tu te la caverai, ne sono convinto. La spalla è un’altra cosa: non potrai viaggiare per altri sette giorni.»

    Gaius cercò di alzarsi. «Ma devo partire…» ribatté. «Devo essere a Deva fra quattro giorni.» La licenza stava per finire…

    «Ti assicuro che, se fra quattro giorni sarai a Deva, i tuoi amici ti faranno un bel funerale» replicò Cynric. «Questo è certo. Oh, a proposito…» Divenne serio, come se stesse per ripetere una formula solenne imparata a memoria. «Bendeigid manda i suoi saluti all’ospite di casa e gli augura di guarire quanto prima; si rammarica che la necessità lo costringa a essere assente oggi e questa notte, ma sarà lieto di vederti al suo ritorno.» Poi concluse: «Ci vorrebbe un uomo più coraggioso di me per dirgli che non hai accettato la sua ospitalità».

    «Tuo padre è molto gentile» rispose Gaius.

    Meglio riposare. Del resto era impossibile fare altro. Non poteva certo parlare di Clotinus. Ciò che sarebbe accaduto dipendeva dallo sciocco che aveva guidato il carro: se era andato a riferire che il figlio del praefectus era stato sbalzato a terra e forse era morto, probabilmente in quel momento stavano già cercando il suo cadavere nei boschi. Se invece l’imbecille aveva mentito o approfittato dell’occasione per rifugiarsi in un villaggio non controllato dai Romani – ce n’erano molti anche nei pressi di Deva – allora chissà… Forse non si sarebbero preoccupati fino a quando Macellius Severus non avesse iniziato a chiedere del figlio.

    Cynric si chinò su una cassapanca ai piedi del letto. Estrasse una camicia e la osservò con un misto di divertimento e perplessità. «Gli stracci che porti vanno bene per uno spaventapasseri» commentò. «Domanderò alle ragazze se possono lavarli e rammendarli. In questo periodo non hanno molto da fare. Ma con questa addosso sembreresti una verginella.» Gettò a terra la camicia. «Andrò a farmi prestare qualcosa di più adatto alla tua taglia.»

    Quando Cynric uscì, Gaius frugò tra gli indumenti piegati accanto al letto per cercare la borsa appesa alla cintura di cuoio che avevano dovuto tagliare. A quanto pareva, non era stato toccato niente. Alcune lastre di stagno – ancora in uso come monete fuori dalle città romane – una fibula, un coltello con la lama pieghevole, un paio di anelli di piccole dimensioni e altri ornamenti che non aveva voluto indossare per andare a caccia… Ah, sì, trovato! Non era stato molto utile… Lanciò una rapida occhiata alla pergamena con il sigillo del praefectus: lì quel salvacondotto non gli sarebbe servito a niente, anzi, forse l’avrebbe messo in pericolo. Eppure, quando fosse ripartito, ne avrebbe avuto bisogno per poter viaggiare. Lo ripose in fretta.

    Avevano visto l’anello con il sigillo? Se lo sfilò dal dito e, proprio mentre lo stava nascondendo nella borsa, tornò Cynric. Aveva alcuni vestiti sul braccio. Gaius si sentì quasi in colpa: sembrava che stesse esaminando la sua roba per controllare se gli avevano rubato qualcosa.

    «Credo che il sigillo dell’anello si sia allentato quando sono caduto» si affrettò a dire, smuovendo leggermente la pietra verde. «Temevo che si staccasse se avessi continuato a portarlo.»

    «Ciarpame romano» commentò Cynric, sprezzante. «Cosa c’è scritto sopra?»

    Sull’anello erano incise soltanto le sue iniziali e l’insegna della legione, ma Gaius ne andava molto fiero, perché Macellius l’aveva commissionato a un orafo di Londinium in occasione della sua nomina a ufficiale. «Non lo so» tagliò corto. «È un regalo.»

    «Lo stile è romano» osservò Cynric con una smorfia. «Quei maledetti hanno sparso la loro robaccia da qui alla Caledonia.» E aggiunse sprezzante: «Impossibile capire la provenienza».

    Dal tono del ragazzo Gaius intuì che in quel momento era in pericolo più di quanto lo fosse stato in fondo alla fossa. Il vecchio druido Bendeigid non avrebbe mai violato le leggi dell’ospitalità – lo sapeva dalle storie che gli avevano raccontato la madre e la nutrice – ma quel giovane dalla testa calda chissà di cosa era capace…

    D’impulso estrasse dalla borsa uno degli anelli più piccoli. «Devo la vita a te e a tuo padre. Vuoi accettarlo in dono? Non è prezioso, ma servirà a ricordarti la tua buona azione.»

    Cynric prese l’anello: era così piccolo che poteva infilarlo soltanto al mignolo. «Cynric, figlio di Bendeigid il druido, ti ringrazia, straniero» rispose. «Però non so con quale nome rivolgermi a te…»

    Quella richiesta suggerita dalle buone maniere era piuttosto esplicita, Gaius non poteva ignorarla. Avrebbe voluto fare il nome del fratello della madre, ma forse anche in quell’angolo della Britannia conoscevano il capotribù dei Siluri che aveva dato in sposa la sorella a un romano. La soluzione migliore era modificare leggermente la verità.

    «Mia madre mi chiamava Gawen» disse alla fine. Era vero, perché Gaius, il nome romano, nella sua lingua non esisteva. «Sono nato nel Sud, a Venta Silurum. Non credo che tu conosca la mia stirpe.»

    Cynric rifletté per un momento, rigirandosi l’anello intorno al mignolo. Poi il suo viso si illuminò, come se all’improvviso avesse capito qualcosa. Fissò Gaius e gli chiese: «I corvi volano a mezzanotte?».

    La domanda e la reazione di Cynric lo meravigliarono. Forse il giovane era impazzito, rifletté, e rispose freddamente: «Penso che tu conosca i boschi meglio di me. Non ho mai sentito di corvi a mezzanotte…».

    Abbassò lo sguardo sulle mani del ragazzo: le dita erano intrecciate in modo strano. La situazione iniziò a farsi più chiara. Doveva essere il segno di una delle tante società segrete in gran parte religiose, come i culti di Mitra o del Nazareno. Erano Cristiani? No, il segno dei Cristiani era una specie di pesce, non un corvo.

    Comunque la cosa non gli interessava e con ogni probabilità il giovane britanno se ne accorse, perché cambiò espressione e si affrettò a scusarsi: «Ho commesso un errore… Ecco, credo che questi possano andarti bene. Me li ha prestati mia sorella Mairi, sono del marito. Vieni, ti aiuterò a raggiungere il bagno e andrò a prendere il rasoio di mio padre, se vuoi raderti, anche se mi sembri abbastanza grande da farti crescere la barba. Attento… non appoggiare tutto il peso su quel piede o cadrai».

    Dopo essersi lavato, sbarbato e aver indossato, con l’aiuto di Cynric, una tunica pulita e le brache larghe dei Britanni, Gaius si sentì in grado di provare a camminare da solo. Il braccio bruciava e la gamba gli doleva in parecchi punti, ma avrebbe potuto stare molto peggio di così. Inoltre sapeva che i muscoli si sarebbero irrigiditi se fosse rimasto a letto. Dovette comunque appoggiarsi al robusto braccio di Cynric, che lo guidò attraverso il cortile verso la grande sala dei banchetti.

    Al centro spiccava una lunga tavola di legno, fiancheggiata da pesanti panche. Il tepore all’interno della stanza era assicurato dai focolari alle due estremità. Intorno al fuoco si stavano raccogliendo uomini, donne e alcuni bambini. Uomini dalla barba folta, avvolti in ruvide tuniche di lana, confabulavano tra loro in un dialetto così stretto che Gaius non capiva nemmeno una parola.

    Anche se il suo precettore gli aveva insegnato che il termine latino familia indicava in origine tutti coloro che condividevano un tetto – padrone, figli, liberti e schiavi – ora i Romani tenevano i servitori separati dalla famiglia vera e propria.

    Cynric scambiò l’espressione disgustata di Gaius per un segno di stanchezza e si affrettò a condurlo verso una panca imbottita in fondo alla sala.

    Lì, separata dalla folla, all’estremità inferiore della tavola, la padrona di casa sedeva su un grande scanno. Il trono accanto a lei, coperto da una pelle d’orso, era chiaramente riservato al consorte. Altri posti erano occupati da giovani uomini e donne: a giudicare dagli abiti eleganti e dai modi garbati dovevano essere figli legittimi o adottivi dei padroni, o forse servitori di rango superiore. La donna rivolse un cenno ai due ragazzi, ma non smise di conversare con un vecchio seduto accanto al focolare, alto e magro come uno spettro, la chioma grigia e riccia, acconciata in maniera ricercata. Anche la barba era grigia e curata. Gli occhi erano di un verde brillante. Portava una lunga tunica candida come la neve e ricamata sfarzosamente. Al suo fianco la piccola arpa dalle corde sottili aveva decorazioni d’oro.

    Un bardo! Non era così sorprendente nella dimora di un druido... Mancava soltanto un indovino perché fossero rappresentate le tre classi di Druidi descritte da Iulius Caesar. Un indovino, però, avrebbe potuto riconoscere il travestimento del giovane romano. Il vecchio bardo gettò a Gaius un’occhiata che gli provocò un brivido lungo la schiena, poi tornò a rivolgersi alla padrona di casa.

    Cynric mormorò: «Conosci già mia madre adottiva Rheis. Lui è il bardo Ardanos. Lo chiamo nonno perché è il padre della mia madre adottiva. Io sono orfano».

    Gaius tacque. Aveva sentito parlare di Ardanos al quartier generale della legione. Si diceva che fosse un druido molto potente, forse il capo di tutti quelli rimasti nelle isole della Britannia. Anche se a prima vista sembrava un arpista qualunque, ogni suo gesto attirava gli sguardi della folla. Ancora una volta si chiese se sarebbe uscito vivo da lì.

    Fortunatamente era seduto su una panca accanto al focolare e tutti lo ignoravano. Sebbene fuori fosse ancora chiaro, sentiva freddo e apprezzò il tepore del fuoco. Ormai non era più abituato alle usanze del popolo di sua madre e sperava di non commettere errori che lo tradissero.

    Cynric proseguì: «Conosci già mia sorella Eilan. Ed ecco accanto a lei la sorella di mia madre, Dieda». Eilan era seduta tra Rheis e Dieda, un’altra ragazza vestita di lino verde che, appoggiata alla spalliera della sedia, ascoltava il vecchio bardo. Per un momento le due gli parvero simili come foglie di quercia, ma poi notò che Dieda era un po’ più grande e aveva gli occhi azzurri, mentre quelli di Eilan erano quasi grigi. Ricordava vagamente di aver intravisto due facce che lo guardavano da sopra mentre si trovava nella fossa, però aveva creduto di essere in preda al delirio.

    «Si somigliano moltissimo, più di due gemelle, non è vero?»

    Era vero, ma d’un tratto Gaius si convinse che la sicurezza con cui aveva riconosciuto Eilan non l’avrebbe mai lasciato. Per tutta la vita sarebbe stato uno dei pochi in grado di distinguere a prima vista le due donne, d’istinto. All’improvviso gli tornò in mente il frammento di un ricordo legato al dolore e al fuoco: Eilan gli aveva detto di averlo sognato.

    Ora che le osservava, si accorse che in realtà erano diverse in molti piccoli particolari: Dieda era più alta, e i capelli erano lunghi e lisci, mentre quelli di Eilan, ribelli ai nastri, sfuggivano all’acconciatura formando una nuvola di ricci. Il viso di Dieda era liscio, pallido e perfetto, dall’espressione solenne; quello di Eilan era roseo, come se avesse assorbito la luce del sole.

    A lui apparivano molto diverse, e ancora di più lo erano le loro voci. Dieda disse qualcosa con garbata disinvoltura; la sua intonazione era calda e musicale, senza la nota timida o allegra di Eilan.

    «Dunque sei tu il fesso che è finito nella trappola per i cinghiali?» domandò seria Dieda. «Da quanto mi aveva detto Cynric mi aspettavo un bifolco stralunato, invece

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