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Web-scale discovery services: Principi, applicazioni e ipotesi di sviluppo
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Web-scale discovery services: Principi, applicazioni e ipotesi di sviluppo
E-book408 pagine4 ore

Web-scale discovery services: Principi, applicazioni e ipotesi di sviluppo

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Info su questo ebook

La molteplicità di fonti di informazione per cui le biblioteche e simili istituzioni mediano l’accesso, unita alla continua evoluzione delle abitudini degli utenti del web, ha favorito la diffusione di sistemi definiti web-scale discovery services (WSDS), comunemente rappresentati da strumenti chiamati discovery tool. L’obiettivo di questi servizi è rendere simultaneamente interrogabili i cataloghi, le banche dati, i repository, gli archivi open access e altri database attraverso un unico punto di accesso. La diffusione crescente dei sistemi di discovery, nonché l’inevitabilità di creare connessioni tra i dati diffusi dalle biblioteche e quelli pubblicati da altre istituzioni culturali, pongono la necessità di un’analisi approfondita di tali sistemi. È necessaria, inoltre, un’analisi comparativa dei WSDS rispetto agli OPAC tradizionali, ai cataloghi di nuova generazione, ai diversi tipi di database e ai metodi dei linked data, indagando i bisogni cognitivi cui essi rispondono. Allo stesso modo, è necessario approfondire i principi in base ai quali accogliere i nuovi sistemi nell’ambito biblioteconomico e bibliotecario.
LinguaItaliano
Data di uscita5 mar 2020
ISBN9788878122970
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    Anteprima del libro

    Web-scale discovery services - Roberto Raieli

    Web-scale discovery services

    Principi, applicazioni e ipotesi di sviluppo

    Roberto Raieli

    Prefazione di Riccardo Ridi

    Roma

    Associazione italiana biblioteche

    2019

    Per la valutazione ex ante delle pubblicazioni monografiche l’Associazione italiana biblioteche ricorre a due esperti del settore, di cui almeno uno individuato all’esterno del Comitato scientifico.

    Il testo viene riesaminato da almeno uno dei due esperti dopo la revisione richiesta agli autori.

    Il Comitato scientifico è composto da Giovanni Di Domenico, Anna Galluzzi, Alberto Petrucciani.

    Editing Palmira M. Barbini

    Una versione PDF per e-book reader e cartacea è disponibile in vendita all’indirizzo <http://www.aib.it/negozio-aib/>

    © 2020 Associazione italiana biblioteche

    Produzione e diffusione: Associazione italiana biblioteche

    Viale Castro Pretorio 105 - 00185 Roma

    Tel. 064463532, fax 064441139

    e-mail aib@aib.it, http://www.aib.it

    ISBN 978-88-7812-297-0 (epub)

    Sommario

    Prefazione

    Introduzione. Ambito, strumenti, attori e valori della scoperta di conoscenza

    1. Evoluzione dei sistemi di ricerca

    1.1 Il rinnovamento degli OPAC

    1.2 Panorami di ricerca, interazione e scoperta

    1.3 Problematiche dei sistemi di discovery

    2. Gli strumenti di ricerca e scoperta

    2.1 Definizione degli strumenti e delle risorse

    2.2 I principali sistemi di discovery

    2.3 Problematiche di implementazione dei sistemi e di visualizzazione dei dati

    3. Principi e teorie

    3.1 La metodologia dei linked data e il progetto del web semantico

    3.2 Possibilità e criticità dei nuovi metodi

    3.3 Verso una nuova definizione di risorsa

    4. Information discovery e information literacy

    4.1 Information retrieval e discovery

    4.2 Discovery tool e information literacy

    4.3 L’information literacy e le persone

    Conclusioni Da quando abbiamo Google e Sci-Hub, che bisogno c’è delle biblioteche?

    Bibliografia e letture consigliate

    Prefazione

    Sempre più spesso chi, navigando nei siti web delle università sia italiane che straniere, riesce a raggiungere la sezione dedicata alle biblioteche (purtroppo spesso assente dai menu principali) non trova più, come prima cosa, un link ben eviden­ziato al catalogo online, ma una maschera di ricerca ‘alla Google’ che consente di inserire uno o più termini senza né specificare se si riferiscono ad autori, titoli, sog­getti o che altro, né collegarli fra loro con gli operatori boo­leani, ottenendo una lunghissima lista di descrizioni di docu­menti dei quali solo talvolta è possibile visualizzare online (a seconda dei propri diritti di accesso) il testo completo oppure localizzarlo presso le collezioni fisiche delle bibliote­che di quella università.

    A tali software, che fanno parte della più ampia famiglia dei cosiddetti web-scale discovery services e che vengono prevalentemente denominati – dopo un iniziale periodo di incertezza – discovery tool (ma c’è ancora chi li chiama, più genericamente, ‘portali’, specificando solo talvolta ‘per la ricerca bibliografica’), e che in certi paesi da qualche anno stanno cominciando a diffondersi anche nelle biblioteche di altre tipologie, Roberto Raieli ha dedicato questo libro – di cui si cominciava a sentire il bisogno – molto chiaro, com­pleto, aggiornato e documentato, nel quale trovano spazio anche considerazioni piuttosto ampie e pertinenti su temati­che collegate come l’open access, il web semantico, i linked data e l’information literacy.

    Il gradimento dei discovery tool da parte degli utenti è note­vole e crescente, tanto da indurre la grande maggioranza delle biblioteche che li adottano a evidenziarli rispetto al tradi­zionale catalogo online, che talvolta viene addirittura abbandonato, limitandosi magari a offrire un link a un OPAC collettivo cui la biblioteca aderisce. I principali motivi di tale successo sono, a mio avviso, tre:

    1) L’eccezionale semplicità d’uso, modellata su quella tipica dei motori di ricerca del web di tipo generalista e di cui gli utenti – soprattutto quelli più giovani – non sanno più fare a meno.

    2) La grande vastità dei risultati mediamente ottenuti, che va al di là delle dimensioni della collezione locale (sia fisica che digitale) rispecchiata dall’OPAC, individuando anche documenti meno tradizionali e riducendo il rischio di frustranti ricerche dai risultati esigui o nulli, senza però rischiare di imbattersi nei documenti ancora più nume­rosi e spesso di scarsa qualità offerti dai motori di ri­cerca generalisti.

    3) La percezione, illusoria ma diffusa, che l’uso esclusivo di uno di tali strumenti consenta una ricerca bibliografica esaustiva, o comunque sufficiente per gran parte delle esi­genze di – mettiamo – uno studente universitario me­dio, dispensandolo dall’individuare, imparare a usare e infine interrogare anche altri repertori.

    A fronte di tali vantaggi c’è chi, soprattutto fra bibliotecari e biblioteconomi, nota però anche numerosi difetti, o comunque problematicità, alcuni dei quali paradossalmente causati o comunque assecondati dai bibliotecari stessi che hanno il compito di adattare i discovery tool alle esigenze di ciascuna specifica biblioteca o università, mentre su altri aspetti le possi­bilità di intervento dello staff locale sui software, spesso acquistati da grandi aziende internazionali, sono oggetti­vamente limitate. Fra tali criticità vorrei ricordare almeno le seguenti:

    A) È estremamente difficile, non solo per gli utenti ma per­sino per i bibliotecari, conoscere con certezza e comple­tezza quali sono esattamente le banche dati e le altre fonti coperte dall’indice del discovery tool che è stato acquisito, le quali oltretutto mutano spesso a seconda degli accordi commerciali fra il produttore del disco­very tool e i fornitori delle fonti bibliografiche.

    B) Ancora più imperscrutabili sono i criteri con cui il disco­very tool ordina i risultati delle ricerche effettuate, che in linea generale si ispirano agli algoritmi di rele­vance ranking tipici dei motori di ricerca generalisti, origina­riamente concepiti per essere applicati a testi integrali non strutturati di varia natura e qualità prodotti da chiunque (come le pagine web) e non a insiemi di meta­dati omogenei e strutturati creati da professionisti (come quelli spesso presenti nelle banche dati bibliografiche). Solo talvolta i bibliotecari sono in grado di modificare tali criteri a priori, ad esempio valorizzando le risorse lo­cali catalogate nell’OPAC, e agli utenti è consentito di cam­biarli a posteriori, riordinando l’elenco dei risultati in base alla data o all’autore.

    C) Poiché talvolta l’azienda che produce il discovery tool distribuisce anche fonti bibliografiche, potrebbe nascere il sospetto che esse vengano privilegiate nell’ordinamento o comunque valorizzate in qualche modo rispetto a quelle distribuite da aziende concorrenti.

    D) Poiché, sebbene le pubblicità dei produttori talvolta sem­brino suggerire il contrario, nessun discovery tool include nel proprio indice la totalità delle banche dati e delle altre fonti bibliografiche esistenti sul mercato e in open access; capita spesso che una biblioteca paghi l’abbonamento per fonti informative che non sono coperte dall’indice del discovery tool adottato. In tal caso quelle fonti dovranno essere interrogate dagli utenti attra­verso la loro interfaccia nativa, oppure la biblioteca dovrà procurarsi uno strumento di ricerca da gestire parallelamente al discovery tool, in entrambi i casi col rischio che le fonti in questione risultino sottoutilizzate.

    E) Inversamente, l’indice di ciascun discovery tool copre quasi sicuramente anche fonti informative a testo integrale alle quali la singola biblioteca non è abbonata. Desele­zio­narle dall’indice stesso, rendendole invisibili ai propri utenti, sarebbe per i bibliotecari un lavoro impegna­tivo e non sempre possibile, che comunque prive­rebbe gli utenti anche dei puri metadati bibliogra­fici, in certi casi comunque utili. Non deselezionarle, d’altra parte, aumenterebbe la percentuale delle descrizioni bibliografiche recuperate durante la ricerca che non conducono al testo integrale del documento descritto e, quindi, la frustrazione degli utenti.

    F) Per cercare di ridurre i rischi legati ai punti D ed E alcune biblioteche potrebbero essere tentate di acquisire soprattutto fonti informative commercializzate dalla stessa azienda che produce il loro discovery tool o, almeno, incluse nell’indice del discovery tool stesso. Ciò potrebbe condurre, sul lungo periodo, a uno snaturamento delle collezioni o, quanto meno, alla penalizzazione e progressiva marginalizzazione di preziose fonti informative pubblicate da piccoli editori.

    G) La natura doppiamente ibrida dei discovery tool (in parte bibliografie dell’esistente e in parte cataloghi del posseduto, ma anche repertori sia di documenti cartacei, di cui forniscono sempre solo i metadati, che di documenti digitali, dei quali offrono talvolta anche il testo inte­grale), unita al secondo corno del dilemma descritto nel punto E, riduce la percentuale dei documenti rintralciati al cui testo digitale integrale gli utenti possono imme­diatamente accedere. Ciò può, paradossalmente, risultare particolarmente frustrante proprio per quegli utenti più giovani a cui i discovery tool si rivolgono prefe­renzialmente e per i quali ciò che non è immediata­mente fruibile sullo schermo risulta quasi inesistente.

    H) Gli algoritmi di ricerca dei discovery tool privilegiano l’operatore booleano OR rispetto a quello AND e, più in ge­nerale, il richiamo rispetto alla precisione, producendo elenchi di risultati estremamente lunghi che, dopo un attimo di sollievo per ‘aver trovato qualcosa’, generano negli utenti (soprattutto quelli meno giovani) prima un’ansia da ‘sovraccarico informativo’ e poi irritazione per la significativa percentuale di documenti rintracciati che si rivelano completamente irrilevanti.

    I) La maschera di ricerca ‘avanzata’ dei discovery tool, che permetterebbe di incentivare la precisione e di ridurre il ri­chiamo, è spesso estremamente meno ricca e sofisticata di quella dei migliori OPAC ed è sempre molto meno visi­bile della single search box in stile Google, che scatena invece in automatico gli algoritmi ‘moltiplicatori di ri­sultati’.

    J) I metadati presenti nell’indice del discovery tool sono etero­genei e spesso sia qualitativamente peggiori che quan­titativamente minori rispetto a quelli delle banche dati originarie da cui provengono. Inoltre il loro riversamento nell’indice non sempre è contemporaneo e tempe­stivo. Ciò produce disfunzioni sia nei meccanismi di ricerca che nelle descrizioni dei documenti e, in partico­lare, rende meno efficaci i filtri applicabili a posteriori alla lista dei risultati per cercare di segmentarla in insiemi coerenti di documenti.

    K) Oltre alla ricerca sul loro intero indice, spesso i discovery tool permettono anche di indagare solo su alcuni suoi sottoinsiemi che dovrebbero mutualmente esclu­dersi, ma segmentazioni irrazionali e terminologie ambi­gue (spesso attribuibili più ai bibliotecari locali che alle aziende produttrici) rendono tale opzione di incerta applica­zione. Ad esempio: se la scelta è fra ‘risorse cartacee’ e ‘risorse online’, dove stanno CD e DVD? E se fra le alternative ci sono ‘riviste elettroniche’ e ‘articoli’, dove devo cercare un articolo pubblicato in una rivista elet­tronica?

    L) I nomi fantasiosi con cui ciascuna biblioteca o istituzione denomina il proprio discovery tool rendono più diffi­cile agli utenti capire che si tratta comunque sempre della stessa tipologia di strumento e sottolineano talvolta (come nel caso di Tutto o di Uno per tutto) proprio quella pretesa esaustività della ricerca da cui invece i bibliote­cari dovrebbero mettere in guardia.

    M) Il processo di progressivo incremento dell’ipertestualizzazione (e, quindi, della contestualizzazione dei documenti e della libertà di scelta dei percorsi di navigazione bibliografica da parte degli utenti), che ha accompagnato l’evoluzione delle varie generazioni di OPAC dalla loro nascita fino a oggi, si arresta e regredi­sce nei discovery tool, nei quali sia la lista dei risultati che le descrizioni dei singoli documenti recuperati presen­tano in genere un numero minore di link rispetto ai più recenti OPAC.

    N) I discovery tool sono strumenti concepiti per la ricerca bibliografica e non per una più complessiva gestione dei do­cumenti bibliografici. Essi sono quindi spesso carenti di servizi tipicamente offerti agli utenti dagli OPAC, come la gestione dei prestiti, la segnalazione personalizzata delle nuove acquisizioni, il mantenimento di uno ‘scaf­fale virtuale personale’ ecc.

    Per cercare di contrastare almeno una parte di questi problemi, Raieli propone e argomenta varie strategie, fra le quali riassumo qui sommariamente le principali:

    I) I discovery tool andrebbero utilizzati prevalentemente nella fase iniziale della ricerca bibliografica, per passare poi agli OPAC (ammesso che non siano stati, nel frattempo, dismessi) e alle banche dati specializzate per i successivi approfondimenti.

    II) Il successo di strumenti ‘amichevoli’ come i discovery tool non riduce l’importanza dell’information literacy, su cui occorre continuare a investire affinché tutti conoscano costi, limiti e illusioni di tale amicizia, nonché l’intero ventaglio disponibile dei mezzi e delle tecniche di ricerca e, soprattutto, di selezione e valutazione delle informazioni.

    III) Per quanto gli algoritmi di ricerca e le interfacce di interazione con l’utente siano importanti in qualsiasi strumento bibliografico digitale, neppure quelli dei discovery tool possono fare miracoli quando la materia prima a cui vengono applicati è di scarsa qualità e troppo eterogenea. Per migliorare efficacia e affidabilità dei discovery tool sarebbe quindi indispensabile, prima di tutto, aumentare il livello qualitativo e l’omogeneità dei metadati che vengno riversati nei loro indici.

    IV) I bibliotecari non dovrebbero illudersi che il costoso (in termini finanziari) acquisto di un discovery tool li esima dall’ulteriore costo (in termini di risorse umane) di un impegnativo e costante lavoro di implementazione e di personalizzazione rispetto alle specificità dell’utenza e della collezione locale.

    V) Non solo i bibliotecari dovrebbero essere maggiormente coinvolti e impegnati nell’information literacy, nella produzione e nel controllo dei metadati e nell’implementazione dei software, ma, più in generale, andrebbe riconosciuta, valorizzata e potenziata – come scrive Raieli nelle ultime righe della prima parte del libro – «la necessità della presenza delle conoscenze bibliotecarie in ogni fase della crea­zione, strutturazione, archiviazione, ricerca e visualizza­zione dei dati» gestiti dai disco­very tool. Tali conoscenze risul­teranno, ad esem­pio, partico­larmente preziose nel garan­tire appropria­tezza e coe­renza dei termini utilizzati per indicare agli utenti fun­zioni, segmentazioni, operatori, filtri e maschere di ricerca disponibili.

    Sono tutti consigli corretti e condivisibili, anche se personal­mente sono forse un po’ più pessimista di Raieli sulla loro efficacia, perché sarà sempre più difficile per una catego­ria professionale in crescente crisi (numerica, economica, cultu­rale, identitaria, ecc.) incidere significativamente sugli inte­ressi, gli orientamenti e i comportamenti degli utenti, delle aziende fornitrici e persino delle proprie istituzioni di affe­renza. In particolare, nel mio ruolo di docente che tiene agli studenti universitari anche corsi sulle basi della ricerca biblio­grafica, incontro notevoli difficoltà nell’insegnare loro a compren­dere e utilizzare al meglio strumenti talmente imper­scrutabili e scarsamente ‘orientabili’ come i discovery tool.

    In ogni caso, insegnanti di bibliografia e bibliotecari devono per forza aggiornarsi sui discovery tool e sforzarsi di trasmettere a studenti e utenti ciò che apprendono da studi come quello che state per leggere e dalle loro esperienze sia davanti che dietro le interfacce dei sistemi di discovery, tenendo realisticamente conto del clima creato sia dal contesto socio-culturale (ovvero da ciò che chi effettua ricerche biblio­grafiche, a torto o a ragione, preferisce) che da quello economico-tecnologico (ossia dalle potenti spinte impresse delle aziende sul mercato informatico in generale e sui software bibliotecari in particolare).

    Concludo questa prefazione con un ultimo, breve, elenco di rapide considerazioni:

    Vista la natura preliminare e introduttiva che dovrebbero rivestire le ricerche bibliografiche effettuate con i discovery tool, credo che sarebbe più corretto (ma, lo capisco, an­che meno accattivante) chiamarli ‘strumenti di esplora­zione’ anziché ‘di scoperta’.

    È paradossale (anche se comprensibile dal punto di vista tecnologico ed economico) che il successo dei discovery tool sia nato e tuttora spicchi proprio nell’ambiente universi­ta­rio, dove ricercatori e studenti non dovrebbero spa­ventarsi troppo delle complessità della ricerca bibliogra­fica, visto che per i primi si tratta di una parte rile­vante del pro­prio lavoro e delle proprie competenze e per i secondi co­stituisce una delle cose principali che stanno cercando di im­parare (ma che difficilmente impare­ranno davvero, se viene eccessivamente semplificata e auto­matizzata).

    Forse i discovery tool potrebbero essere un buon esempio, nell’ambito della ricerca bibliografica, di quanto espresso in linea generale dall’aforisma tradizionalmente attribuito ad Albert Einstein secondo cui «tutto dovrebbe essere reso il più semplice possibile, ma non più semplice ancora».

    Riccardo Ridi

    Università Ca’ Foscari, Venezia

    ottobre 2019

    Introduzione.

    Ambito, strumenti, attori e valori della scoperta di conoscenza

    Lo spazio dell’informazione e della conoscenza

    Nell’universo dell’informazione e della conoscenza, che è esploso e ha cominciato a espandersi irrefrenabilmente agli albori dello sviluppo dell’intelligenza umana, le biblioteche e gli altri istituti per la conservazione e la diffusione del sapere hanno da sempre tentato di definire una specifica galas­sia, uno ‘spazio’ in cui vivere e svilupparsi organicamente, prendendo e cedendo scambievolmente gli elementi essenziali per l’esistenza concreta e culturale.

    Questo spazio, concepito, dunque, nel concepire una data biblioteca e la sua specifica mission, non facile da definire o teorizzare, ineffabile nell’essenza logica e tecnica, da anni si sta nuovamente ridefinendo e ristrutturando, come è ovvio che accada in un sistema organico in salute¹. Tale ridefinizione, che ha i tratti della rivoluzione, dà spesso la sensa­zione di avvenire quasi ‘da sola’, il che vuol dire in modo inestricabilmente connesso a una serie di sviluppi che riguar­dano l’universo di cui lo spazio ‘ritagliato’ è parte: la società dell’informazione nei sui diversi aspetti, la rete internet in generale, il web, la Information and comunication technology (ICT).

    Mutano, di conseguenza, gli strumenti di selezione, organiz­zazione, mediazione e reperimento delle informazioni e delle risorse della conoscenza a disposizione delle biblioteche e degli istituti culturali, le caratteristiche degli strumenti e dei servizi che essi rendono disponibili per le atti­vità di ricerca, il ruolo specifico e l’ambito di applicazione di ognuno di tali strumenti e servizi, nonché le metodolo­gie che devono essere applicate nelle specifiche atti­vità di mediazione, e nelle attività di ‘istruzione’, nei con­fronti degli utenti, delle persone. Tutti cambiamenti, e linee di sviluppo, che devono essere valutati attraverso una considerazione obiettiva dei cambiamenti sociali ed economici che caratterizzano la società odierna, riflettendosi vicende­volmente sulla ICT².

    Riguardo lo spazio a cui si applicano le odierne attività di ricerca e scoperta, che non si può più definire restrittivamente ‘documentario’, o delle ‘collezioni’, è necessario ade­rire a una «prospettiva di lunga durata», che possa consen­tire l’organizzazione di una struttura bibliotecaria – e non solo – in grado di continuare oggi l’originaria missione di connettere le informazioni con le esigenze di conoscenza delle persone³. Il concetto stesso di ‘posseduto’ da mettere a disposizione – per un’utenza più o meno nota – si è anch’esso evoluto, e da molto più tempo rispetto agli stru­menti della sua connessione con le persone. Questo spazio si è ampliato fino a comprendere non solo quanto non è material­mente posseduto, pur sempre acquisito come servi­zio, ma anche ciò che è ‘semplicemente’ selezionato in rete e mediato largamente come ‘risorsa’, purché abbia le caratteri­stiche di un oggetto di conoscenza sufficentemente strutturato, coerente, riconoscibile: in poche parole, affida­bile. Si può arrivare pure a considerazioni estreme, chieden­dosi se la mediazione possa comprendere nel proprio spazio anche risorse quali semplici progetti, programmi, tag o hashtag dei siti social ecc.⁴ – che possono giungere anche ai limiti della galassia ‘bibliografica’.

    A questo proposito, e dando per scontato che per quanto grande lo spazio affidabile delle biblioteche sarà sempre un luogo ‘confinato’ e ‘sicuro’ nel quale anche il ricercatore meno esperto può avventurarsi con serenità, vale la pena di ricordare il saggio di David Weinberger Too big to know⁵. Il saggio, già dalla chiara ricchezza del titolo – e soprattutto del sottotitolo: Rethinking knowledge now that the facts aren’t the facts, experts are everywhere, and the smartest person in the room is the room –, spiega quali sono le ragioni dello sbigottimento, o del senso di ‘sublime’⁶, che è legittimo provare dinanzi alle dimensioni del web. Weinberger sostiene che, data la crescente mole di informazioni conte­nute in internet e nel web, siamo sempre meno sicuri di ciò che sappiamo, di sapere qualcosa, di chi è che sa real­mente qualcosa, e addirittura non siamo sicuri del concetto stesso di conoscenza. In ogni caso, internet rappresenta una rivoluzione fondamentale riguardo ai metodi e alle logiche che adottiamo per comprendere il mondo in cui viviamo, addi­rittura consentendo alle persone elaborazioni delle informa­zioni più rapide e compiute rispetto alle tradizionali – o passate – risorse e fonti di conoscenza.

    Nella dimensione di internet non deve essere determinante nemmeno il problema di trovare un metodo, o uno stru­mento, unico per affrontare lo spazio sconfinato della ricerca. In un recente articolo comparso su «Avvenire», la questione è spiegata al grande pubblico in termini di rischio di omologazione delle intelligenze e delle conoscenze⁷. Relati­vamente alla diffusione dei big data, l’autore com­menta che se gli algoritmi e gli altri strumenti per guidare le nostre azioni in rete, come per la gestione e la ricerca dei dati, proponessero un infallibile percorso, un’agevolazione continua per giungere al risultato, il grande svantaggio conse­guente sarebbe un mondo a ‘senso unico’, senza spa­zio per l’imprevisto e, quindi, fondamentalmente per la libertà degli esseri umani. Le persone adotterebbero le mede­sime strategie di pensiero, tutti i problemi sarebbero affrontati allo stesso modo – e non è detto che si tratterebbe del modo migliore –, le ricerche in ogni campo sarebbero tutte uguali e porterebbero a risultati simili. La soluzione, esaltando il senso e il valore delle discipline umanistiche, sarebbe diffondere in tutti i curricula di studi filosofia, arte, letteratura e poesia, anche nell’ambito delle discipline scientifi­che, in quanto tali materie hanno la capacità di ren­dere le menti elastiche e flessibili, capaci di creare soluzioni inattese, individuali, innovative, rivoluzionarie.

    Da questi scritti si può dedurre che si rinnova, così, il primato della ‘mente’ del ricercatore, in grado di creare, inven­tare e – perché no? – anche trascurare e perdere alcune informa­zioni. Il percorso di ricerca è indirizzato in modo vario, anche ‘soprappensiero’, sceverando pure ‘a occhio’ tra milioni di risorse dell’informazione, attraverso un infinito che attrae, un sublime che non spaventa, forti della propria vocazione a conoscere.

    Non si deve temere, dunque, lo spazio sconfinato delle infor­ma­zioni e della conoscenza: in esso ci si può avventurare con l’entusiasmo della scoperta, con ‘serendipità’, come da sem­pre l’essere umano ha fatto nell’infinito spazio della na­tura, nel mondo, nell’universo. Si può scegliere, per que­sta avven­tura, la rassicurante guida della biblioteca e degli altri istituti culturali, il loro ‘punto di vista’ che definisce un dato spazio delle informa­zioni – che per quanto ampliato è sempre una ‘restrizione’ ri­spetto all’intero web –, oppure la­sciarsi an­dare…

    Tornando alla logica dell’ampliamento affidabile, confinato e sicuro dello spazio di azione e mediazione delle biblioteche, un esempio – non troppo vago – è quello delle discus­sioni sulla catalogazione delle risorse open access (OA). Sotto­li­neando il ruolo che possono avere le biblioteche nel circuito della conoscenza, e le funzioni di cui si possono riap­pro­priare, si può motivare il valore che assume la cataloga­zione delle risorse OA, e-book ed ejournal per primi. Se una biblio­teca sceglie certe risorse, e le inserisce in catalogo, impli­citamente ed esplicitamente sancisce il loro valore cultu­rale. Per esempio, le biblioteche specializ­zate, con i loro catalo­ghi, raccolgono, valutano, selezionano e mettono a disposi­zione le risorse rilevanti per il settore di interesse, sepa­randole da tutto il resto della produzione. Queste opera­zioni hanno un alto valore bibliografico, anche perché si creano accessi semantici specifici, o punti di ac­cesso collegati a standard particolari o a particolari reper­tori⁸. Il senso di catalo­gare le risorse OA, comunque reperi­bili in altri modi, è ancora più forte rispetto al semplice indiriz­zare verso queste elencando i siti da cui sono accessi­bili: serve a dare autorevo­lezza alla risorsa, a dotarla di una serie di accessi di solito riser­vati a risorse più tradizionali, e ad ampliare quello che può essere definito il ‘posseduto’, a vantaggio tanto della ri­sorsa quanto dello spazio della biblio­teca⁹.

    Catalogando, addirittura, le risorse più varie, non solo indi­riz­zando in diversi modi verso esse, si rafforza di molto, dunque, il senso dell’ampliamento dello spazio ‘bibliotecario’. Nelle nuove logiche della ricerca in questo spazio, del resto, è sempre più presente il senso della ‘scoperta’ di nuove informazioni e risorse nell’ambito di percorsi di inda­gine più ampi. Tra gli strumenti che la biblioteca cura o pro­pone agli utenti, quindi, prendono posto strumenti nuovi la cui efficacia è ancora da valutare e migliorare, e strumenti nati fuori dall’ambito bibliotecario e di ancora più problema­tica integra­zione, tutti comunque tesi a mediare un ampio e varia­bile patrimonio e la conoscenza che lo contestua­lizza. In que­sto sistema anche il catalogo, che tradizio­nalemente è posto come il principale strumento per l’individuazione e l’accesso ai documenti, è spesso messo alla prova, e deve dimostrare il permanere della propria speci­fica necessità, come affidabile mezzo per trovare, identifi­care, selezionare, acquisire le risorse e navigare tra esse¹⁰.

    Serve, allora, che ci si interroghi a fondo sulla

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