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Il Bancarietto
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E-book190 pagine2 ore

Il Bancarietto

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Info su questo ebook

Cosa accadrebbe se un giovane e promettente ufficiale dell’esercito ricevesse, nel giorno del suo matrimonio, un ordine di trasferimento dal Ministero dell’Interno per una destinazione lontana?
LinguaItaliano
Data di uscita9 apr 2020
ISBN9788831663557
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    Anteprima del libro

    Il Bancarietto - Edoardo Torre

    Mar­co

    Premessa

    So­no in­de­ci­so, for­te­men­te, se con­ti­nua­re a scri­bac­chia­re su que­sti fo­gli con l’in­ten­zio­ne di rie­vo­ca­re le an­ti­che vi­cis­si­tu­di­ni del­la mia vi­ta, non per­ché sia con­vin­to che pos­sa­no in­te­res­sa­re a qual­cu­no an­zi, so­no cer­to del con­tra­rio, e cioè che non im­por­ti­no pro­prio a nes­su­no, ma far­lo per di­mo­stra­re, so­prat­tut­to a me stes­so (mal­gra­do l’età che non oso nep­pu­re de­nun­cia­re) e un de­va­stan­te ic­tus di qual­che an­no fa, che no­no­stan­te tut­to, an­co­ra esi­sto.

    La mia è un’as­sur­da pre­te­sa o una for­sen­na­ta ne­ces­si­tà? De­ci­de­te voi.

    Co­mun­que, so­no per­sua­so che la me­mo­ria del pas­sa­to è all’ori­gi­ne di ogni rac­con­to e di tan­ti epi­so­di del­la no­stra esi­sten­za, a ca­po di un tem­po or­mai lon­ta­no e che ora ven­go­no ine­so­ra­bil­men­te in­go­ia­ti da quel­la "sca­ra­bat­to­la" che tut­ti han­no fra le ma­ni.

    Se ca­pi­to in mez­zo al­la gen­te sen­to usci­re, dal­le ta­sche de­gli uo­mi­ni o dal­le bor­set­te del­le don­ne, dei suo­ni e ini­zia­no a par­la­re, sen­za al­cun ri­te­gno del­le lo­ro stram­be­rie, la­scian­do­mi per­ples­so. Quin­di pen­so di es­se­re fuo­ri tem­po: so­no sta­to sor­pas­sa­to da quel­la stre­go­ne­ria che tut­ti strin­go­no fra le ma­ni e fis­sa­no di con­ti­nuo. Un astuc­cio mi­nu­sco­lo, qua­si in­si­gni­fi­can­te, ma dal­le fa­col­tà im­men­se. Una ma­gi­ca "lam­pa­da" che, co­me quel­la di Ala­di­no, ba­sta stro­fi­na­re de­li­ca­ta­men­te per ve­der com­pa­ri­re da­van­ti ai tuoi oc­chi ester­re­fat­ti, non il vi­va­ce spi­ri­tel­lo del­la fa­vo­la, ma il mon­do, il mon­do in­te­ro.

    In que­ste pa­gi­ne par­le­re­mo di un al­tro "ge­nio", an­ch’es­so ca­pa­ce di sod­di­sfa­re, da sem­pre, i de­si­de­ri del­la gen­te e a con­di­zio­na­re la lo­ro vi­ta. Par­le­re­mo del de­na­ro e di quel­le strut­tu­re do­ve vie­ne con­ser­va­to, cioè le ban­che.

    Par­le­re­mo di un gio­va­ne sem­pli­ciot­to che, per sua na­tu­ra, in­se­gui­va biz­zar­re fan­ta­sie e ave­va la te­sta fra le nu­vo­le, cer­can­do di im­pri­me­re i sui so­gni sul­le te­le con l’au­si­lio dei co­lo­ri.

    Quel gio­va­ne che, per co­mo­di­tà, chia­me­re­mo Edo era la di­spe­ra­zio­ne del­la mam­ma per­ché non chiu­de­va mai le por­te e la­scia­va i cas­set­ti se­mi aper­ti. Non sop­por­ta­va gli am­bien­ti chiu­si e ave­va il ter­ro­re per le chia­vi, i luc­chet­ti e, so­prat­tut­to, av­ver­sa­va i nu­me­ri e le ope­ra­zio­ni ad es­si ri­fe­ri­bi­li, non per­ché aves­se dif­fi­col­tà a com­pren­der­li ma per la ra­gio­ne che lo co­strin­ge­va­no ad im­bri­glia­re e a fre­na­re la sua men­te agi­ta­ta, sem­pre al­la ri­cer­ca di nuo­vi oriz­zon­ti.

    Le pa­ro­le cro­cia­te o i re­bus poi, un ve­ro tor­men­to.

    Le sue pe­ne ini­zia­ro­no con le scuo­le su­pe­rio­ri: la mam­ma (il pa­pà era an­co­ra in In­dia, pri­gio­nie­ro) chie­se a chi le sem­bra­va ben in­for­ma­to a qua­le li­ceo do­ves­se iscri­ve­re il fi­glio.

    «Ha qual­che at­ti­tu­di­ne?» chie­se il be­ne in­for­ma­to.

    «Si, gli pia­ce di­se­gna­re.»

    «Al­lo­ra il li­ceo scien­ti­fi­co fa per lui.» Omet­ten­do di ag­giun­ge­re, il be­ne in­for­ma­to, che nel pro­gram­ma set­ti­ma­na­le del­la scuo­la era­no pre­vi­ste quat­tro ore di ma­te­ma­ti­ca.

    Cin­que an­ni nei qua­li Edo, op­pres­so da al­go­rit­mi di ogni ge­ne­re, si ar­ra­bat­tò sof­fren­do ter­ri­bil­men­te ma, al­la fi­ne, riu­scì a pren­de­re il di­plo­ma del­la ma­tu­ri­tà.

    Poi ven­ne la vi­si­ta di le­va, pres­so il Di­stret­to Mi­li­ta­re di Ge­no­va, do­ve fu ra­du­na­to in­sie­me ai coe­ta­nei in una gran­de sa­la, da­van­ti ad un ban­co con dei fo­gli sui qua­li era­no ri­por­ta­te sem­pli­ci ope­ra­zio­ni di cal­co­lo ma­te­ma­ti­co che do­ve­va­no es­se­re ri­sol­te e com­ple­ta­te; esem­pio: 9+9=…, 7-4=…, 10:2=…, e via di­cen­do.

    Ad un suo­no con­ve­nu­to i fu­tu­ri sol­da­ti, po­sti die­tro ai ban­chi e con la ma­ti­ta fra le di­ta, do­ve­va­no ri­sol­ve­re i con­teg­gi, men­tre un me­ga­fo­no dif­fon­de­va nell’aria un’in­fi­ni­tà di nu­me­ri: 72, 34, 18, ….

    Un si­ste­ma per va­lu­ta­re la ca­pa­ci­tà di ognu­no: era la vi­si­ta at­ti­tu­di­na­le. Il suo sco­po quel­lo di orien­ta­re le fu­tu­re re­clu­te se­con­do le di­ver­se spe­cia­li­tà dell’Eser­ci­to.

    Or­be­ne, Edo, fra­stor­na­to, fu uno de­gli ul­ti­mi a con­se­gna­re il fo­glio com­pi­la­to, per cui fu as­se­gna­to al­la Ca­val­le­ria, ma te­mo che se nel no­stro Eser­ci­to ci fos­se sta­ta una spe­cia­li­tà che si av­va­le­va di asi­ni, an­zi­ché ca­val­li, avreb­be avu­to ben al­tra de­sti­na­zio­ne

    Co­mun­que, in qual­che mo­do Edo riu­scì a con­clu­de­re gli stu­di li­cea­li ma, su­bi­to do­po, lo at­ten­de­va il ser­vi­zio mi­li­ta­re che, i gio­va­ni di quel tem­po, era­no te­nu­ti a fa­re.

    En­trò quin­di all’Ac­ca­de­mia Mi­li­ta­re di Mo­de­na che do­po due an­ni lo spe­dì al­la Scuo­la di Ap­pli­ca­zio­ne di To­ri­no, dal­la qua­le uscì con tut­te le car­te in re­go­la per in­tra­pren­de­re la vi­ta mi­li­ta­re con l’ap­pro­va­zio­ne di Mar­te, dio del­la guer­ra, di cui era di­ven­ta­to un di­sce­po­lo mol­to pro­met­ten­te.

    Fu co­sì che fu man­da­to a svol­ge­re il ser­vi­zio in quel­la cit­tà, se­de di un po­de­ro­so ap­pa­ra­to mi­li­ta­re, ai pie­di del­le mon­ta­gne e con una cat­te­dra­le il cui cam­pa­ni­le ap­pun­ti­to sem­bra pun­zec­chia­re il se­de­re del­le nu­vo­le, se que­ste po­tes­se­ro aver­lo. E qui il no­stro bel­li­co­so guer­rie­ro eb­be la ven­tu­ra di in­con­tra­re una splen­di­da ra­gaz­za, e di in­na­mo­rar­se­ne. In­fat­ti, il dio dell’amo­re Cu­pi­do, ave­va im­pu­gna­to il suo ar­co e scoc­ca­to la frec­cia am­ma­lia­tri­ce che tra­pas­sò il cuo­re di Edo.

    Que­sti, col­mo di ar­do­re, die­de l’av­vio a tut­te le pra­ti­che ne­ces­sa­rie per im­pal­ma­re la sua fan­ciul­la, ad ini­zia­re dall’ap­pro­va­zio­ne dei su­pe­rio­ri ma so­prat­tut­to dell’au­to­riz­za­zio­ne, nien­te me­no, del Pre­si­den­te del­la Re­pub­bli­ca. Ma las­sù, ol­tre l’az­zur­ro del cie­lo, Mar­te non ven­ne av­ver­ti­to che un suo de­vo­to sud­di­to lo sta­va ab­ban­do­nan­do, ce­den­do al­le soa­vi lu­sin­ghe del suo pic­co­lo e scal­tro col­le­ga.

    Quan­do lo ven­ne a sa­pe­re de­ci­se di ven­di­car­si dan­do la sve­glia ai suoi gal­lo­na­ti val­let­ti, co­mo­da­men­te se­du­ti su­gli scran­ni di Ro­ma, per op­por­si ai pal­pi­ti bra­mo­si del suo in­fe­de­le ser­vi­to­re.

    I gal­lo­na­ti si die­de­ro su­bi­to da fa­re per bloc­ca­re gli spon­sa­li del fe­di­fra­go, tra­sfe­ren­do­lo lon­ta­no. Idea­ro­no uno stra­ta­gem­ma: se il 15 Set­tem­bre è la da­ta con­cor­da­ta per le noz­ze, eb­be­ne Edo, quel­lo stes­so gior­no, do­vrà tro­var­si in un al­tro luo­go, pen­san­do di aver ri­sol­to la si­tua­zio­ne.

    Ma Cu­pi­do, nel­la com­pe­ti­zio­ne, riu­scì a spun­tar­la, man­dan­do all’aria tut­te le ma­no­vre del suo ga­gliar­do col­le­ga. In­fat­ti, sug­ge­rì al pa­dre del­la fu­tu­ra spo­sa il pro­po­si­to di far as­su­me­re nel­la ban­ca, do­ve sta­va la­vo­ran­do da ol­tre cin­quant’an­ni, il fu­tu­ro ge­ne­ro. E fu co­sì che, il 15 Set­tem­bre di quell’an­no, i due fi­dan­za­ti si spo­sa­ro­no: San­dra nel suo abi­to bian­co bel­lis­si­ma e, in di­vi­sa Edo pur es­sen­do, di fat­to, già as­sun­to in ban­ca, tra l’esul­tan­za dei suoi sol­da­ti, fuo­ri dal­la chie­sa, ve­nu­ti a por­ge­re l’ul­ti­mo sa­lu­to al lo­ro co­man­dan­te.

    Mar­te, con fra­go­ro­si tuo­ni, la sul­le mon­ta­gne, si sen­tì bron­to­la­re.

    Per con­clu­de­re, Edo ap­pe­se al chio­do la di­vi­sa e la sciar­pa az­zur­ra per in­dos­sa­re una nuo­va pel­le e di­ge­ri­re, al­la svel­ta, una par­la­ta stra­na in­far­ci­ta di fra­si e si­gle in­com­pren­si­bi­li.

    As­se­con­da­re, poi, il pro­ce­de­re dei gior­ni esat­ta­men­te iden­ti­ci e di un gri­gio­re sen­za pa­ri che, con il pro­se­guo del tem­po, avreb­be fat­to escla­ma­re, cer­ta­men­te, ai no­stri av­ve­du­ti ni­po­ti: «ma che pal­le!»

    Edo ora si sen­ti­va co­me im­bot­ti­glia­to in un mon­do di­ver­so, alie­no, e guar­dan­do­si al­lo spec­chio, se è ve­ro che gli oc­chi so­no l’im­ma­gi­ne dell’ani­ma, la sua ap­pa­ri­va se­ria­men­te com­pro­mes­sa.

    In­fi­ne, con­clu­se, che quel­la fi­gu­ra ri­fles­sa non ave­va nean­che l’aspet­to di un im­pie­ga­to di ban­ca, ma di un esan­gue si­mu­la­cro mol­to più mo­de­sto, co­me se aves­se in­dos­so la tri­ste ma­sche­ra di un ban­ca­rio pic­co­lo pic­co­lo: un ban­ca­riet­to, ap­pun­to.

    Introduzione

    In po­che pa­ro­le Edo, all’im­prov­vi­so, si era do­vu­to to­glie­re di dos­so il vi­sto­so piu­mag­gio del­la di­vi­sa e in­dos­sa­re co­mu­ni abi­ti ci­vi­li, as­su­men­do l’aspet­to di quel gal­lo spen­nac­chia­to a cui, nel gior­no pre­ce­den­te la fe­sta, si ti­ra­va il col­lo. Il mon­do che ave­va fre­quen­ta­to per mol­ti an­ni, all’istan­te, si era com­ple­ta­men­te ca­po­vol­to.

    Ora ap­par­te­ne­va al­la gran­de schie­ra: quel­la dei nor­ma­li nell’uni­ver­so dei nor­ma­li che si al­za­no tut­ti al­la mat­ti­na, al­la stes­sa ora e co­sì, ogni se­ra, van­no a dor­mi­re, che fan­no le me­de­si­me co­se tut­ti i gior­ni, nel­lo stes­so mo­men­to, che si ve­sto­no in mo­do ade­gua­to se­con­do le pre­vi­sio­ni del me­teo e, se il cie­lo vol­ge al brut­to, pren­do­no su­bi­to l’om­brel­lo, e usa­no esclu­si­va­men­te pro­dot­ti pub­bli­ciz­za­ti e guar­da­no, al­la se­ra, la te­le­vi­sio­ne e, se ap­pas­sio­na­ti di cal­cio, tre­pi­da­no per la squa­dra del cuo­re.

    Ah, di­men­ti­ca­vo, fa­re all’amo­re il sa­ba­to o al­la vi­gi­lia del­la fe­sta per­ché il gior­no do­po si ha tut­to il tem­po per ri­po­sa­re e re­cu­pe­ra­re le ener­gie.

    Era di­ven­ta­to un or­di­na­to nel­la bri­ga­ta di ar­den­ti or­di­na­ti, pas­sa­to da una strut­tu­ra (quel­la mi­li­ta­re) do­ve l’ap­pros­si­ma­zio­ne era fre­quen­te, a quel­la del­la ban­ca do­ve vi­ge­va l’er­me­ti­smo più as­so­lu­to.

    In po­chis­si­mo tem­po ave­va do­vu­to as­su­me­re l’ap­pa­ren­za dell’at­to­re, co­stret­to dal co­pio­ne, ad in­ter­pre­ta­re una par­te a lui non con­ge­nia­le. E in­fi­ne tran­si­ta­re dal­la gui­da spe­ri­co­la­ta di un car­ro ar­ma­to, al­la com­po­sta re­go­la di una mac­chi­na da scri­ve­re.

    Ora, pri­ma di ini­zia­re la nar­ra­zio­ne, per­met­te­te­mi di con­fi­dar­vi le de­bo­lez­ze di Edo (di al­tre con­vie­ne sor­vo­la­re). La pri­ma ri­guar­da la scon­fi­na­ta in­vi­dia ver­so co­lo­ro che na­ti in un pae­se (bel­lo o brut­to che sia) han­no tra­scor­so la vi­ta all’om­bra dell’iden­ti­co cam­pa­ni­le (per in­ci­so, quel­lo di Edo si tro­va nel bel mez­zo del Gol­fo del Ti­gul­lio). So­no sta­ti vi­ci­no ai lo­ro ge­ni­to­ri, si so­no fat­ti una fa­mi­glia, han­no avu­to fi­gli, ecc., ecc., sem­pre nel­lo stes­so luo­go o nel­le im­me­dia­te vi­ci­nan­ze.

    La se­con­da ri­guar­da quel­li che so­no riu­sci­ti a rea­liz­za­re con pro­fit­to le pro­prie aspi­ra­zio­ni: me­di­ci, in­ge­gne­ri, av­vo­ca­ti, ecc., ecc., com­pren­den­do an­che le oc­cu­pa­zio­ni più umi­li ma for­te­men­te in­di­spen­sa­bi­li. E poi, la­scia­te­me­lo di­re, una par­ti­co­la­re no­stal­gia per quel­li che han­no scel­to l’ar­duo per­cor­so dell’ar­te tro­van­do­si nel­le con­di­zio­ni, fa­vo­re­vo­li o me­no, per dar li­be­ro sfo­go al­la lo­ro pas­sio­ne: pit­to­ri, scul­to­ri, mu­si­ci­sti e via di­cen­do.

    In con­clu­sio­ne per Edo, i sud­det­ti strug­gi­men­ti, nell’ar­co dell’in­te­ra vi­ta, so­no an­da­ti tut­ti di­sat­te­si, as­su­men­do l’im­ma­gi­ne di un va­go mi­rag­gio.

    3 - La banca

    Do­po ol­tre tre me­si, al­la fi­ne, ar­ri­vò dal Mi­ni­ste­ro del­la Di­fe­sa il de­fi­ni­ti­vo fo­glio di con­ge­do, in ba­se al qua­le Edo po­te­va con­si­de­rar­si un cit­ta­di­no qual­sia­si.

    Ben si sa che quan­do c’è di mez­zo la bu­ro­cra­zia, quel­la ro­ma­na in par­ti­co­la­re, le co­se so­prat­tut­to sem­pli­ci di­ven­ta­no enor­me­men­te com­ples­se, co­me quel­la che per ot­te­ne­re il rim­bor­so dei con­tri­bu­ti ver­sa­ti per gi­rar­li sul si­to pre­vi­den­zia­le, do­vet­te inol­tra­re una suc­ces­si­va ri­chie­sta al Mi­ni­ste­ro. Poi del T.F.R. (ov­ve­ro trat­ta­men­to di fi­ne rap­por­to), do­po die­ci an­ni al ser­vi­zio del Pae­se, nem­me­no una li­ra, una pu­ra fan­ta­sia.

    Co­mun­que quel gior­no Edo, or­mai li­be­ro, var­cò la so­glia dell’au­ste­ro pa­laz­zo, se­de del­la pre­sti­gio­sa Ban­ca Pa­da­na. Lo ac­col­se il so­brio por­ti­na­io che uscì dal­la sua guar­dio­la per esa­mi­na­re con at­ten­zio­ne il nuo­vo ve­nu­to e, do­po aver­lo guar­da­to per be­ne, gli die­de tut­te le in­for­ma­zio­ni per ac­ce­de­re al co­spet­to dell’emi­nen­te ca­po del per­so­na­le: «Pren­da lo sca­lo­ne, quel­lo di fron­te, che la por­te­rà al pri­mo pia­no. Li tro­ve­rà un com­mes­so che la con­dur­rà da lui.»

    Edo sa­lì, a di­re il ve­ro con una cer­ta sog­ge­zio­ne, nel fa­sto­so am­bien­te ador­na­to da splen­di­di qua­dri in cui ri­co­nob­be l’ar­te di ce­le­bri pit­to­ri del pri­mo no­ve­cen­to. Al pia­no fu ac­col­to da un gio­va­ne pre­stan­te che, con evi­den­te sup­po­nen­za do­man­dò: «Co­sa de­si­de­ra?» e su­bi­to do­po, «at­ten­da qui, ve­do se il Si­gnor P la può ri­ce­ve­re».

    Edo ri­ma­se in pa­zien­te at­te­sa e si guar­dò at­tor­no. No­tò che c’era un fret­to­lo­so via vai di ra­gaz­ze che usci­va­no, bus­sa­va­no, en­tra­va­no di­sin­vol­te nei lo­ca­li dal­le gran­di por­te e che ave­va­no in co­mu­ne un par­ti­co­la­re: in­dos­sa­va­no tut­te un ve­re­con­do grem­biu­lo­ne az­zur­ro scu­ro che an­nul­la­va qual­sia­si for­ma: pec­ca­to, pen­sò Edo, al­cu­ne so­no dav­ve­ro bel­le.

    Sem­bra­va che do­ves­se­ro in­se­gui­re chis­sà qua­li oc­cul­te in­com­ben­ze, a giu­di­ca­re dal lo­ro vi­so eret­to e ri­go­ro­sa­men­te com­pun­to.

    Do­po quel cu­rio­so an­di­ri­vie­ni, Edo ven­ne am­mes­so al co­spet­to di un ti­zio cor­pu­len­to che, pe­rò, osten­ta­va il pi­glio del­le per­so­ne im­por­tan­ti: era il ca­po del per­so­na­le. Al­to e mas­sic­cio, con un pa­io di orec­chie dal pa­di­glio­ne mol­to svi­lup­pa­to, in bre­ve a sven­to­la, che fa­ce­va­no da cor­ni­ce a una fac­cia ton­da e, a dir po­co, or­di­na­ria che gli ri­cor­dò quel­la del sa­lu­mie­re del ne­go­zio di fron­te a ca­sa.

    In qua­li­tà di nuo­vo ar­ri­va­to, Edo si pre­sen­tò ri­spet­to­so, al che l’au­to­re­vo­le sa­lu­mie­re, do­po un ra­pi­do esa­me, bo­fon­chiò: «Lei, dun­que, sa­reb­be il

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