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Pian di luce
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E-book199 pagine2 ore

Pian di luce

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Info su questo ebook

Fine anni ottanta.
Maria e Alberto decidono di sposarsi e di farlo a Pian di Luce, il loro paese d’origine. Oltre all’amore li unisce la passione per la storia contemporanea, per cui frequentano Ferruccio, un anziano signore che racconta loro alcuni fatti storici successi in paese anni or sono.
La narrazione dell’anziano fa venire a galla una verità così grave che mette in discussione persino il loro progetto coniugale.
Ed è così che la storia fa male, fino a un travolgente epilogo.
LinguaItaliano
Data di uscita3 ago 2020
ISBN9788866603580
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    Anteprima del libro

    Pian di luce - Martino Panico

    abitare.

    Premessa

    Tanti anni fa, in una scuola dell’urbinate, alla fine di un incontro con gli studenti che ancora ricordo con piacere, mi fu chiesto chi fosse per me l’eroe ideale.

    Risposi senza pensarci troppo: «Mercuzio. Sì, lui, Mercuzio».

    Gelo comprensibile nell’aula e viso imbarazzato della professoressa. In effetti, dopo aver parlato dei drammi del secolo breve, era impensabile quel salto nella Verona del 1303, al tempo della signoria degli Scaligeri. Ma tant’è.

    Feci un grande sorriso e tentai di spiegare che gli eroi, quasi sempre, sono frutto dell’immaginazione e, se dovevo sceglierne uno, ne avrei scelto uno complicato, un personaggio a suo modo straordinario, grande affabulatore ma anche persona decisa. Pronto alle armi che in cuor suo detestava.

    Amico di Romeo - a cui donerà la vita sulla punta della spada di Tebaldo - ma in fondo nemico di quel maledetto conflitto, che separa e fa combattere gli uomini e le loro famiglie.

    L’Autore

    Prefazione (1)

    di Marina Lenzi, Roma

    «Chi vorrei essere? Marcuzio».

    «Ma perché Marcuzio?», si chiedono spiazzati i ragazzi della scuola che interrogano Martino Panico.

    Perché Marcuzio è un eroe inventato. Perché è frutto dell’immaginazione che affabula e può tutto.

    «Pronto alle armi che in cuor suo detesta», risponde Martino con la sua risata breve e profonda.

    Gli eroi quindi non esistono? Gli eroi devono necessariamente essere inventati? Ci chiediamo allora noi.

    Calma, non è così, perché proprio Martino Panico ci consegna un libro sugli eroi non inventati. Eroi che non sanno di esserlo. Eroi per caso, diremmo noi.

    Ma andiamo per ordine.

    In Pian di Luce, Martino Panico compie quel salto necessario all’esperienza di ogni scrittore, passando dalla narrazione di vicende familiari alla impersonalità di un racconto. La capacità di rielaborare episodi familiari, ascoltati avidamente nell’infanzia e nell’adolescenza, cede qui il posto al passo successivo – indubbiamente più complesso e autonomo – per dare vita a una storia d’amore e di tenebra, direbbe Amos Oz. D’amore e di storia, dice Martino Panico.

    Dall’amore, infatti, dobbiamo necessariamente partire ed ecco Alberto e Maria che prendono la grande decisione di unirsi in matrimonio, perché quando si ama non basta che lo sappiamo noi, lo devono sapere tutti.

    E quindi il ritorno a Pian di Luce, paese d’origine di entrambe le famiglie. È lì che tutto deve cominciare.

    Ma noi lettori sappiamo cos’è Pian di Luce, nome sì di fantasia, ma nella realtà quel gioiello posto fra monti e mare, battuto dai venti freddi dei Balcani, armonico e aspro, carico di contrasti e di storia antichissima. Non la storia antica e rinascimentale, ma quella recente, che coinvolge e stravolge, dura e inaspettata, la vita di Alberto e Maria nel racconto della voce narrante, custode del passato e della memoria. Ed ecco che il borgo amato diventa luogo di conflitto fra fazioni e addirittura fra famiglie. Le loro.

    Eroi per caso, si diceva. Combattenti ragazzini, partigiani giovanissimi o meno giovani, uomini colti o contadini, ma anche donne combattenti capaci di rischiare la vita con la stessa semplicità con cui si dedicano alla famiglia o alla cura dei campi. Mogli e madri che piangeranno mariti e figli che non faranno ritorno.

    Ma allora, come si diventa eroi per caso?

    Il contesto storico, come diremmo noi oggi, era quello di una dittatura prima strisciante – come sempre accade – poi diventata feroce nell’accettazione quotidiana del male. Si finge con se stessi che quella concessione, rimossa nell’inconscio, non sia granché. Anzi, in fondo è poca cosa, significa essere realisti, si potrebbe persino utilizzarla a fin di bene prendendo la palla al balzo, potrebbe essere persino utile, addirittura a tutta la comunità. Perché non accettare l’inevitabilità del compromesso? Ma una volta fatto il grande salto, il nemico è l’altro, quel parente, quel compaesano che non media e non si sposta dal rigore.

    Resistere (la Resistenza!) entro la propria ristretta comunità di uomini e donne cresciuti insieme nello stesso borgo è un gioco crudele, non per ragazzi, eppure l’hanno fatto soprattutto i ragazzi. E quella lapide commemorativa è lì a ricordare anche i più giovani, quelli con tutta la vita davanti che avrebbero avuto il diritto di giocare ancora a pallone nel campetto.

    Uomini fatti per resistere e ricominciare e ricostruire.

    Pagine toccanti quelle di Martino Panico, che rivisita il passato della sua gente con lo sguardo attento e lieve che già gli conosciamo, disegnando con maestria, commozione ed emozione il distacco della storia.

    Prefazione (2)

    di Michel Brunelli, Bruxelles

    Qualche anno fa ho chiesto a Martino di dedicarmi un’ora ogni settimana per fare il corrispondente di una stazione radio di Bruxelles.

    Ricordo di avergli detto: «Ti telefono e tu fai un riassunto delle notizie politiche e sociali italiane. Parliamo come in un incontro informale, un drink, una sorta di chiacchierata, e se esiti, continui a parlare, come succede nella vita».

    Non proprio convinto, Martino rispose che non era sicuro di accettare, perché a volte non si sentiva in ottima forma e quindi non si radeva e rimaneva in pigiama tutto il giorno.

    «Non è niente, Martino, facciamo solo informazione, solo radio!»

    Non potendo più obiettare, si inchinò con grazia e talento a questo esercizio. E di questo lo ringrazio ancora.

    Ora credo, però, che un angolo del suo cervello stesse preparando una dolce vendetta. E quando di recente mi ha chiesto di scrivere la prefazione del suo romanzo, ne ho avuto la certezza. Ho subito capito che non potevo nascondermi dietro a una scusa.

    Ero in una trappola: morbida come il velluto, giocosa come l’occhiolino di un amico.

    Ma la vita non è solo dolci sorprese. L’amore è una trappola.

    La guerra è una trappola. Alcuni sono eroi di guerra, altri sono eroi dell’amore.

    Amore e guerra lasciano sempre segni indelebili.

    Amore e guerra non sono mai solo degli altri.

    I fantasmi del passato a volte riappaiono, con la gola ancora piena di risentimento e di veleni.

    Martino ebbe bisogno di scovarli, di togliere loro la maschera per cercare un nuovo percorso, quando la sua vita precedente morì, portando con sé riunioni, incontri, responsabilità e batterie del telefono sempre insufficienti.

    Le leggi naturali della genetica e dell’amore bussano alle porte della nostra vita senza preavviso. Per testare la nostra resistenza, il nostro sistema immunitario, la nostra fede.

    Il calendario della storia non è più importante delle aspirazioni eterne delle anime libere.

    Questo romanzo storia e amore è soprattutto una storia d’amore. Non solo l’amore che unisce Alberto e Maria, i personaggi di questo romanzo, ma anche l’amore che lega l’autore a un luogo che, come le cose troppo grandi, troppo toccanti, rivela il suo nome attraverso un sotterfugio, quello del poeta.

    E sì, mio caro Martino (congedo il francese), come mio padre fuggito dal fascismo nel 1920, sono anch’io nato a Pian di Luce.

    CAPITOLO I

    Alberto era attraversato da un senso di leggera euforia, come raramente gli capitava

    «E dai, apri sto finestrino. Che t’importa dei capelli! Sei bella lo stesso. Anzi di più... e poi senti l’aria frizzante dei nostri monti, non è un’aria normale, è diversa anche rispetto a quella delle Alpi. Non è solo fresca, è profumata, sa di buono, di calma, di vivere positivo, di comunità... e se ti concentri sa anche di mare.

    «Un’aria che sa di storia... ah ah ah!»

    «Sapevo che eri innamorato di Pian di Luce, ma così esageri, mi rendi gelosa. In fondo è solo un luogo, anche se vi sono nati i nostri famigliari», replicò Maria.

    «E ti pare poco, la genetica non scherza e il luogo della vita condiziona l’evoluzione. Cose serie, Maria, molto serie», incalzò ancora Alberto.

    «Di serio c’è che stiamo bene insieme e che ci vogliamo sposare, il resto lo valuteremo con calma. Anche le nostre radici saranno considerate con la giusta attenzione, nulla di più. E poi che discorsi mi fai fare: voglio essere leggera, sì, quasi volatile, evanescente... io sono l’aria impalpabile, inesistente, ah ah ah, ma cosa dico? No, esistente ma un’altra persona, ecco. Oddio che emozione! Alberto, mi vengono i tremori, sarà grave? Sarà questa la felicità?», e con queste parole Maria allungava le mani affusolate verso il volto di lui per una carezza.

    «Ehi, così andiamo a sbattere», urlò Alberto, facendo finta di aver paura.

    «E allora fermati!»

    Alberto frenò immediatamente e con un movimento secco del volante sterzò e fermò l’auto nello spazio a destra, fuori dalla statale.

    «Va che fortuna!», sottolineò.

    I due volevano quasi mangiarsi tanta era l’attrazione e per qualche momento smisero di respirare, per entrare ancora più profondamente in quella sensazione così unica che quasi stordiva.

    Il viaggio da Roma si stava concludendo, la meta era vicina e la frenesia aumentava.

    «Ehi, basta ora, non siamo mica ragazzini. Sì, ammetto: è da qualche anno che ci frequentiamo ma su... abbiamo fatto l’amore centinaia di volte, perché questa agitazione?», lo riprese Maria.

    «Perché non ci è mai capitato di partire per andarci a sposare. Ti sembra poco?»

    L’ultimo commento di Alberto aveva colto nel segno.

    Aprì la portiera e invitò Maria a fare due passi.

    In piedi, appoggiati alla vettura, potevano stringersi meglio e certo a questa opportunità nessuno dei due pensò di rinunciare, continuarono a baciarsi fino a mordersi le labbra, fino a farsi male.

    «Cos’hai detto? Non siamo ragazzi, quindi calmiamoci. Hai detto di fare due passi: facciamoli!»

    Alberto annuì.

    Il valico era a pochi metri, lui prese la mano di Maria e la costrinse a correre.

    «Ma tu sei matto, mi fai cadere e dai non sta bene una sposa con le sbucciature... Però, quanto mi piaci pazzo così!»

    Dal valico si poteva vedere una verdissima valle che si allargava fino alla linea dell’orizzonte, chiusa su ogni lato da più sistemi di monti che rilanciavano amplificandole le cangianti sfumature della luce del tramonto.

    Armonia e asprezza, sentimenti che quella valle faceva convivere.

    «Pian di Luce è laggiù, a destra del Biancone, il grande massiccio che chiude la valle a Nord-Ovest, al centro il Monte Pelato e a Est c’è lui, il guardiano maestoso di questi luoghi: il Monte Cattedra. Sono tutti oltre lo spartiacque del Tirreno. È un altro pezzo d’Italia rivolto verso l’Adriatico. Altro clima, altre culture, qui arrivano i venti freddi dei Balcani, dell’Europa dell’Est, la bora, il burian... e tanta neve, talmente tanta che non riesci nemmeno a immaginarla, metri di neve bianchissima», disse Alberto.

    «Bum, ah ah ah», si schernì Maria.

    «Macché bum, non mi credi eh? Ho le foto, fregata! E insieme ai fiocchi candidi, il vento a volte porta con sé anche l’eco delle tragedie dell’Est. Da quelle più vicine a quelle lontanissime, buh buuuh», continuò Alberto.

    «Eddai mi fai paura...»

    «Che paura, concentrati: a volte mi è sembrato di sentire le loro urla, le loro grida di dolore, come quando hanno invaso la Cecoslovacchia. I carri russi in piazza San Venceslao, Jan Palach che si bruciava vivo, i militari che caricavano la folla sul Ponte Carlo. Una cosa orribile. Ero un ragazzino, ma ricordo benissimo. Mmmhh! Una terra bellissima la nostra, ma tosta e spesso parca nel concedere i suoi frutti», concluse Alberto.

    «O mio Dio, ti sei fatto serio. E pensare che volevo essere leggera, evanescente... allora il mondo non lo abbiamo sulle spalle, a partire da te, e poi che vuol dire parca? Sarà generosa come le altre, nessuna terra è matrigna, dipende da chi la abita e se ha voglia di fare o meno. Se hai sale in zucca e intraprendenza oppure no. Quanti esempi abbiamo? Infiniti: il Veneto, il Friuli... terre d’emigrazione e di fame, solo qualche decennio fa! Oddio, mi fai parlare di politica? Sai che non voglio», dissentì Maria.

    «No, no, era una considerazione volante. Sto troppo bene, non voglio discutere. E poi il tuo sapore è così dolce...»

    Tornarono ad abbracciarsi, questa volta con misura, tentando di incastrare i propri colli e aspirando profondamente l’odore della pelle dell’altro.

    Era il gesto che rappresentava l’incondizionata disponibilità a donarsi reciprocamente e la temporanea conclusione del loro gioioso interloquire d’innamorati.

    Pian di Luce li accolse con la sua meravigliosa piazza rinascimentale. Grande, organizzata su più quinte di palazzi, quasi a chiuderla in un imponente cerchio.

    Un salotto arricchito dal Palazzo Comunale e dalla Chiesa di San Giovanni, che da soli ne delimitavano buona parte dello spazio.

    La piazza, arredata dai tavoli dei locali, era gremita di persone intente a consumare il rituale aperitivo.

    La classica dimensione italiana, o meglio da mittelitalia, resa strepitosamente luminosa da una luce tersa che solo il Monte Cattedra e i venti dell’Est potevano allestire.

    «Eh sì, che bello, Maria!», fu il commento di lui, «che atmosfera da paese incantato».

    Eh sì, saranno le radici che si fanno sentire, ma penso che ci sia anche dell’altro: Pian di Luce ha un fascino tutto suo. C’è poco da fare!»

    «Che piazza deliziosa, lo sai che mi attrae, sento una sorta di richiamo: Mariaaaa, Albertoooo, venite, venite, vi aspetto, hai sentito anche tu? Se non hai sentito non sei sordo, sei insensibile», fu la considerazione di Maria.

    «Sai che è pericoloso fermarsi, ci sediamo, poi...», sconsigliò Alberto.

    «Poi arriva il lupo e ci mangia tutti. Che bocca grande che hai! Dai, Alberto, parcheggia, i bagagli li scaricheremo dopo».

    L’ultima frase di Maria ebbe l’effetto di un ordine.

    CAPITOLO II

    Alberto guardava la stanza e non riusciva a capire dov’era in quel momento. L’unica cosa certa era Maria accanto a sé.

    Alzò il lenzuolo, guardò con ammirazione le curve dal fianco al gluteo e in pochi attimi realizzò. Era lì, nella casa dei nonni di lei, in piazza del Grande Mercato a Pian di Luce, perché doveva sposarsi. Con Maria, naturalmente. Posò lo sguardo sui suoi seni prorompenti e non ricordava di averli mai visti così.

    Oh, luogo onirico, dove tutto appare di più, quasi aumentato, oppure lo è davvero e siamo solo noi a non rendercene conto, con le nostre quotidiane ristrettezze e le nostre paure mentali. Accecati, sì, solo accecati, come lo si è altrove, da una comunità che disconosce se stessa e passa inevitabilmente dalla competizione allo scontro e poi al conflitto.

    Quel pensiero controverso e spiacevole lo attraversò per qualche istante. Poi si mise seduto sul letto e avvertì un leggero

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