I ragazzi del 1899: Piccolo Diario di vita vissuta
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Anteprima del libro
I ragazzi del 1899 - Giuseppe Giunta
PRIMA DELL’AMERICA E DELLA GUERRA
Compivo i quattordici anni nel ferragosto del 1913 e il mio genitore, dopo numerose peripezie nella vita commerciale, costretto dalla mera sfortuna, il tredici aprile di detto anno, volendo reagire al destino avverso che fino ad allora non gli aveva procurato altro che amarezze e delusioni, emigrò per il Nord
America, in cerca di miglior fortuna.
Ricordo bene, era di giovedì, alle ore cinque circa, era da poco cominciato il chiarore dell’alba, quando il mio genitore, dopo aver baciato per l’ultima volta la mia Mamma, gli altri due miei fratelli, l’unica sorellina e, dopo aver dato un ultimo sguardo alla casa come per dirle Addio per sempre
, col cuore affranto dal dolore, si dipartiva, avviandosi con passo lento, verso la Stazione ferroviaria, meditando per strada chi sa quali propositi che in certi momenti gli facevano brillare gli occhi di speranza, mentre a tale speranza si succedevano amare lagrime che gli rigavano il volto. Lo accompagnavo e notavo in lui i vari cambiamenti psicologici.
Alle ore sei circa, nel mettere piede sul predellino del vagone del treno che lo portava molto lontano separandolo per sempre dalla famiglia, il mio genitore, malgrado la mia imberbe giovinezza, con le lagrime agli occhi mi raccomandava la maggiore ubbidienza alla Mamma, l’amorevolezza e la guida ai miei fratelli e alla mia sorellina.
Ero il primogenito ed in tale qualità dovevo, relativamente alla mia età, sin da quel momento, assumere le varie responsabilità che incombevano al Capo famiglia. Era un compito di grave e grande responsabilità che la mia giovinezza non mi consentiva affatto di esplicare.
Il treno, dopo il rituale segnale di partenza, sbuffando si mise in moto e prestissimo scomparve in una galleria, sita a qualche centinaio di metri dalla stazione.
Rimasi sul marciapiedi come un ebete, inchiodato nel posto ove per l’ultima volta quel giorno ebbi l’ultimo bacio dal mio genitore.
Piangevo la dipartita di mio padre per il lontano continente, ma non comprendevo l’importanza di quello che andava svolgendosi. D’altro canto, tutto ciò trovava l’attenuante nella mia giovinezza che non mi poteva consentire la comprensione profonda dell’avvenimento.
Ripeto, rimasi come un ebete, inchiodato nel posto ove mi aveva lasciato il mio genitore e guardavo la galleria in cui si era inoltrato ed era scomparso il treno, nella speranza di potervi ancora scorgere mio Padre, nell’atto in cui mi faceva il segnale d’addio ed io sventolavo il fazzoletto che tenevo ancora spiegato, malgrado il treno fosse da un pezzo scomparso. Non sapevo quanto tempo fosse trascorso in simile stato, ricordo solo che un sorvegliante della Stazione mi invitò ad uscire fuori da quel recinto, dovendo chiudere il cancello d’accesso.
Nelle piccole stazioni di provincia, specie quando queste si trovavano su linee di secondaria importanza, erano ben pochi i treni che transitavano nel corso della giornata. Fra una corsa e l’altra, talvolta, vi era l’intermezzo di due o tre ore, periodo di tempo che consentiva ai vari impiegati addetti di accudire comodamente e senza disturbo alle molteplici faccende private. Vi era anche il fatto che la esiguità dei viaggiatori non dava pensiero ad alcuno del predetto personale, in quanto nella Stazione era rimasto un solo impiegato che esplicava le funzioni di bigliettaio, scambio posti di blocco e, qualche volta, fungeva anche da capostazione.
Uscito fuori dalla Stazione, mi avviai verso casa ove sapevo di trovare la mia madre, in preda al più grande sconforto. Camminavo come un automa e, lungo il tragitto, mi ripromettevo di cambiare totalmente tenore di vita. Alla discoleria che, fino ad allora, era stata la mia caratteristica, mi proponevo di sostituire una maggiore ubbidienza alla mia mamma cercando, in tal modo, di lenire lo sconforto ed il vuoto lasciato per la dipartita del capofamiglia.
Sebbene avessi il cuore in tumulto, traboccante di dolore, una miriade di pensieri e di proponimenti si succedevano nel mio cervello e non era indubbio che fantasticavo. Fra le tante cose che mi proponevo vi era la principale e cioè di rendermi degno figlio del mio genitore, di tenere inintaccato l’onore e la reputazione della famiglia. Se il destino aveva voluto che questa piombasse nella più nera miseria, non erano certamente questi i natali che aveva avuto e, fino a poco tempo prima, vissuto, né si poteva rimproverare al capofamiglia di avere sperperato per capriccio tutto ciò che costituiva il primitivo patrimonio.
Il mio genitore, fibra di lavoratore assiduo ed instancabile, si prodigava in mille modi per accrescere l’avvenire della famiglia. Dopo la catastrofe commerciale subita, che per puntiglio di onestà portò nella miseria completa la famiglia, però orgoglioso per avere fatto fronte con onorabilità a tutti gli impegni, il mio Padre, colpito da dolore, si era messo al lavoro con maggior lena per procurare a tutti noi ciò che necessitavamo per il nostro benessere. Quando riusciva a ciò, egli era molto contento e con la sua voce tenorile non mancava di fare echeggiare le note di qualche romanza di opere canore.
Egli aveva un grande trasporto per la lirica. Dotato di voce non comune ai suoi tempi, aveva cercato di studiare il canto e di darsi all’arte, ma si diceva che gli artisti, allora, soffrissero la fame; così i suoi familiari si opposero a ch’egli studiasse, perciò egli canticchiava la Traviata, la Forza del Destino, la Cavalleria Rusticana, il Trovatore, il Rigoletto, l’Aida, la Lucia di Lammermoor e via dicendo, cercando, in tal modo, di allietare lo stato morale della famiglia.
Trascorsi i primi due mesi dalla partenza, giunse la prima lettera del mio genitore, con la notizia di essere arrivato a destinazione, di avere ricevuto l’accoglienza di qualche parente e di avere trovato lavoro, inviandoci, nel contempo, le prime duecento lire. Successivamente le lettere giungevano regolarmente ogni quindicina e, con esse, la necessaria moneta per poter vivere.
I proponimenti che avevo fatto non durarono a lungo. Dopo avere svolto, come si suol dire, tutti i mestieri di Marcantonio, non trovavo sistemazione alcuna. Avevo trasporto per la meccanica ma, purtroppo, nel mio paese tale attività era completamente sconosciuta, non essendovi officine, né stabilimenti di grande importanza.
Sarebbe stato il mio sogno essere vicino ai macchinari e vedere questi col loro ritmico movimento.
Cartina geografica antica dell’Albania. Disegno eseguito a inchiostro di china da Lina Landi.
ALBANIA - APRILE 1918
Eravamo quasi a metà della strada che separa Alessio da Koros, località di confine fra l’Albania e la Serbia, meta del trasferimento strategico del 50° Gruppo Artiglieria da Montagna (2° Regg.to) al quale appartenevo.
Avevamo trascorso la notte su un altopiano, luogo in cui ci saremmo dovuti soffermare due giorni per fare riposare i muli¹, stanchi per il trasporto delle someggiate, dopo vari giorni di faticosa marcia fra mulattiere impervie e pericolose, tracciate nell’argilla fangosa. Anche l’altopiano predetto era costituito da argilla però questa era un po’ solida, forse perché prosciugata dai raggi solari.
Eseguivo il mio turno giornaliero di guardia dalle ore sei alle ore dodici. Il servizio di guardia, durante i trasferimenti, era stato disposto in sei turni nelle ventiquattro ore e cioè: due turni di sei ore ciascuno, dalle ore sei alle diciotto e quattro turni di tre ore ciascuno durante la notte. Di notte i turni erano di tre ore poiché il clima rigido e gelido non consentiva di resistere più a lungo nello svolgimento del servizio di guardia.
Erano circa le ore nove. Nell’accampamento fervevano i servizi di governo degli animali quando, a distanza di circa mille metri, si vide spuntare un individuo che, a cavallo lanciato a galoppo sfrenato, attraversava la pianura cercando scampo in un burrone, per sfuggire alle fucilate di un gruppo di uomini che, anch’essi a cavallo, lo inseguivano.
Disegno ad acquerello tratto liberamente da una foto della Prima guerra mondiale, eseguito da Lina Landi.
Poco dopo tale individuo, avvolto nel suo tradizionale manto bianco, il cosiddetto baracano², proseguendo nella fuga, comparve su una vicina pianura dove trovava tragica fine, assieme a quel povero cavallo che montava.
Alla vista di ciò, gli inseguitori si fermarono all’altezza del burrone e, cessando di sparare, guardarono inorriditi quell’individuo che, continuando nella fuga a galoppo sfrenato, forse ignaro che quella località fosse un acquitrino di fanghiglia argillosa in continuo ribollimento, aveva oltrepassato un piccolo recinto di fragili canne che stava a indicare la zona di pericolo e s’era inoltrato verso il centro.
Per circa ottanta metri o poco più, seppure faticosamente, il cavallo aveva proseguito nella corsa ma sopraffatto dalla fanghiglia, nitrendo lamentosamente, s’era fermato e, nei movimenti che faceva per cercare di liberarsi dalla stretta che lo avvolgeva, affondava sempre più. L’individuo che lo cavalcava, compreso l’immane pericolo e il tremendo destino che lo attendeva, gridava cercando aiuto, ma nessuno degli inseguitori si mosse.
Sabbie mobili
Così l’individuo e il cavallo scomparvero lentamente inghiottiti dalla fanghiglia.
Dipinto ad acquerello eseguito