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Il contagio di Meung
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E-book109 pagine1 ora

Il contagio di Meung

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Fantasy - romanzo breve (85 pagine) - La leggendaria epopea dei Moschettieri di Dumas reinventata in chiave Sword & Sorcery!


Nell’Anno del Signore 1625 un giovane cadetto di Guascogna a nome D’Artagnan è sulla via per Parigi, ansioso di entrare nel corpo dei Moschettieri del Re. Quando si ferma alla locanda del Franc Meunier, presso la cittadina di Meung si vede canzonato da un misterioso gentiluomo e, da bravo guascone sanguigno, non la prende bene… finirà però per perdere i sensi a forza di bastonate per opera del taverniere e alcuni servi. Fino a qui tutti conoscono la storia, ma nellanostra storia le cose andranno in modo molto diverso: al suo risveglio D’Artagnan si troverà in uno scenario da incubo, con il Franc Meunier infestato da morti viventi affamati di carne umana. E le cose non vanno meglio nella cittadina, dove alcuni eroici sopravvissuti lottano per la loro vita. Una sinistra cospirazione incombe sul Regno di Francia, e sta muovendo le sue pedine, con intenti oscuri, incurante della sorte degli abitanti di Meung-sur-Loire. Ma prima di potersi chiedere quale sia la minaccia all’origine dell’infestazione, D’Artagnan dovrà cercare di uscire vivo dall’inferno di Meung!


Dal 1992 Marco Rubboli si dedica alle arti marziali storiche europee: scherma storica medievale e rinascimentale, pugilato, pancrazio, gladiatura. Istruttore al massimo livello con parecchi titoli agonistici, fra cui diverse medaglie d'oro nazionali, ha fondato la più grande associazione europea di scherma storica, Sala d'Arme A. Marozzo, diffusa nella maggior parte d'Italia.

Ha al suo attivo numerose pubblicazioni in materia: sulla scherma medievale L'arte cavalleresca del combattimento di Filippo Vadi, Flos Duellatorum di Fiore dei Liberi, sulla scherma del Rinascimento L'arte della spada di Anonimo Bolognese, Opera Nova di Antonio Manciolino, Monomachia di Francesco Altoni, La lancia, la spada, la daga, L'arte perduta di combattere con lo scudo secondo la scuola italiana, tutti per Il Cerchio Editore, sulla scherma di coltello in Spagna Manuale del baratero (Planetario Libri),oltre a diversi articoli in raccolte e atti di convegni sulla scherma storica.

In ambito letterario ha pubblicato per  Watson Edizioni il romanzo fantasy Per la Corona d'Acciaio di cui nel 2020 è in programma il seguito. Ha pubblicato racconti per Sensoinverso: due per le antologie del concorso Lucenera (Luce di tenebra in I mostri non mangiano seitan, La cassa, nell'antologia omonima) e due per il concorso Oceano di carta (La via degli anni oscuri in Come Marylin Monroe, Oltre le nuvole in Precipitare in libertà) e su Book Magazine il racconto Il pagliaccio. Altri racconti sono in uscita su antologie per Sensoinverso e Mezzelane.

LinguaItaliano
Data di uscita8 dic 2020
ISBN9788825414059
Il contagio di Meung

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    Il contagio di Meung - Marco Rubboli

    9788825411454

    Capitolo primo

    Spiacevoli incontri al Franc Meunier

    Meung, Regno di Francia, AD 1625

    Come potevo immaginare allora ciò che stava per succedere a me, alla povera città di Meung e al nostro Regno, come potevo prevedere il rischio che avrebbe corso a breve la Cristianità e forse il mondo intero? Quel giorno ero sulla via di Parigi e di quella che pensavo sarebbe stata l’avventura della mia vita. Avevo diciotto anni, una spada al fianco, un cavallo tra le gambe – giallo, d’accordo, e vecchio, ma pur sempre un cavallo – e un cappello piumato in testa, anche se sgualcito. E, soprattutto, in tasca conservavo gelosamente una lettera di mio padre per il suo vecchio compagno d’armi, Monsieur de Treville. Sì, proprio lui, il comandante dei Moschettieri del Re, l’uomo che, a detta di mio padre, si era fatto strada fino ai vertici delle armate francesi a forza di vincere duelli e, quindi, di disobbedire alle leggi. Ma nessuno fa caso alle leggi contro il duello, è ovvio, con il Re stesso a dare il buon esempio. Prima viene l’onore, poi la legge, la religione e tutto il resto, recita il credo del gentiluomo. Quindi mio padre al congedarmi si era premurato di raccomandarmi più volte di trasgredire pure tranquillamente alla legge, e di battermi ogniqualvolta ne avessi avuto l’occasione. Il mio sangue guascone era caldo, allora, e avevo tutta l’intenzione di dimostrarmi all’altezza delle aspettative paterne. D’accordo, non potevo essere sicuro che M. de Treville mi avrebbe accolto fra le schiere dei suoi moschettieri, ma non dubitavo che mostrando abbastanza valore e baldanza avrei vinto ogni sua resistenza.

    Ma sto divagando. Torniamo dunque a quel giorno assolato d’inizio aprile in cui il passo strascicato e stanco del mio ronzino mi portava a nord sulla via maestra, non lontano dal corso argenteo della Loira. Lungo la strada, per parecchi giorni il cipiglio marziale che avevo cercato di assumere aveva scoraggiato gli sfottò di villici e gentiluomini che avrebbero potuto ridere del mio farsetto stinto e della mia sventurata cavalcatura col suo assurdo colore. In realtà devo ammettere che non aspettavo altro: che qualcuno si azzardasse pure a profferire una parola caustica o scortese! La lunga spada guascona che portavo al fianco non aspettava che di essere estratta. Né sarebbe stata riposta nel suo fodero senza onore, come intimava il motto inciso sulla lama. Eppure nessuno aveva osato dirmi nulla. Almeno non di fronte a me, e con mia somma delusione. Del resto, ancora non avevo provato nelle carni il morso gelido dell’acciaio, e non sapevo a cosa rischiassi di andare incontro. Insomma, ero del tutto incosciente, proprio come deve essere un gentiluomo diciottenne. Ma ciò che sarebbe accaduto a breve in quella disgraziata città di Meung andava al di là di ogni possibile previsione, per quanto pessimistica potesse essere.

    Mi fermai. C’era una locanda sulla via, il Franc Meunier. Non so se fu la stanchezza a farmi decidere di fare una pausa, oppure la curiosità di dare un’occhiata alla città natale di Jean de Meung, autore del Roman de la Rose. Ah, sì, scordavo di dirvi che avevo letto molti, forse troppi romanzi cavallereschi, da quando il precettore mi aveva insegnato a leggere fino al giorno stesso in cui avevo lasciato la dimora avita con la sua piccola biblioteca. Forse non ne avevo letti tanti quanto il Don Chisciotte su cui ha scritto quello spagnolo, Cervantes… ma quasi, almeno credo.

    Quando scesi non venne nessuno a prendermi il cavallo, e già questo fatto mi irritò abbastanza. Ma ciò che mi fece uscire dai gangheri fu la vista di quello che mi parve un gentiluomo, che dall’interno della locanda prendeva per i fondelli me e il mio povero corsiero senza alcun ritegno. Costui non smetteva di fare battute salaci, facendo ridere a crepapelle due villani che lo stavano ad ascoltare. Era un uomo di oltre quarant’anni, di bell’aspetto, pallido e con grandi baffi neri, con indosso vestiti eleganti di color violetto.

    Lo apostrofai con non troppa grazia. Quello rispose solo: – Non parlo a voi, signore. – con tono davvero arrogante. La mia riposta fu tale da farlo uscire dalla porta della locanda, lento e improvvisamente cauto. Trassi un palmo di spada dal fodero e discutemmo senza troppa cortesia dei pregi e dei difetti del mio cavallo. Non ricordo cosa dicemmo di preciso – sono passati troppi anni – fatto sta che nessuno dei due fu molto conciliante, né amichevole. A un certo punto lui con disprezzo mi girò le spalle per andarsene, e io estrassi del tutto la spada. È arrivato il mio momento, finalmente, il momento di dimostrare il mio valore davanti al pericolo, il momento di scoprire a cosa sono servite tutte quelle lezioni di scherma! – pensavo. Gli intimai di girarsi, o lo avrei colpito alle spalle. Quel che ricordo alla perfezione fu che si voltò verso di me e mormorò:

    – Peccato, quale scoperta per Sua Maestà, che cerca dovunque della gente di fegato per reclutare i suoi moschettieri! – Quella frase fece scattare qualcosa in me. Lo sconosciuto sembrava quasi essere stato ispirato a nominare lo scopo del mio viaggio… che dico del mio viaggio, della mia vita! Nella mia testa accaldata si era trasformato come per magia nell’ostacolo da abbattere per entrare nel corpo dei moschettieri. Gli tirai una stoccata furiosa, allungando l’affondo fino al limite delle possibilità delle mie gambe. Quello saltò indietro, sfoderò la sua arma e si mise in guardia. Ora si era fatto davvero serio, pensai con soddisfazione. Ma la mia soddisfazione durò ben poco: i due che prima lo stavano ad ascoltare mi saltarono addosso prendendomi sul fianco, accompagnati dall’oste. Tutti e tre brandivano pesanti bastoni, coi quali mi colpirono a tradimento prima che riuscissi a reagire. Parbleu se faceva male! Mi girai a fronteggiarli ma i colpi mi piovevano addosso da ogni parte, e i loro bastoni erano ben più lunghi e pesanti della mia rapiére guascona. Soprattutto, erano in tre a starmi addosso!

    Il gentiluomo rinfoderò il brando e ordinò ai suoi sgherri improvvisati di rimettermi sul mio cavallo arancione e di mandarmi via. Fra una parata e una bastonata, senza distogliere gli occhi dai tre gaglioffi, gli urlai dietro: – Non prima di averti ammazzato, vigliacco!

    Sopportai stoicamente tutte le botte che mi arrivavano al fianco e al braccio destro, che faceva quel che poteva, poveretto, ma ne parava una e ne prendeva due. Quando un colpo fortunato dei miei avversari spezzò la spada di mio padre esitai, fui colpito in testa e caddi a terra. Allora sì che me ne arrivarono, di botte! Da orbi, amici miei. Finii mezzo svenuto e sanguinante, lì nella polvere. Quelli mi tirarono calci in faccia e ancora colpi di bastone sulle gambe e sulla schiena. Devo essere svenuto perché non ricordo altro, a parte la vaga sensazione di essere preso su da ruvide mani e portato via. Credo anche di aver gridato qualcosa, forse un’ultima sfida a quel bellimbusto. Più tardi devo aver parlato ancora, fra la veglia e il delirio, ma non saprei proprio dire che cosa io possa aver detto, nel delirio, in quel frangente.

    Mi risvegliai tempo dopo al piano di sopra. Ero stato accudito dalla moglie del locandiere, una signora di mezza età grassottella e rubiconda. La donna aveva un’aria preoccupata e trasse un sospiro di sollievo quando mi vide aprire gli occhi. Mi faceva male dappertutto tranne, forse, il gomito sinistro. Avevo la testa tutta fasciata da bende insanguinate. Non credo che fosse passato molto tempo da quando le avevo prese, anche perché quel cialtrone del locandiere irruppe nella stanza e subito iniziò a insistere perché mi togliessi di torno. Mi minacciò: i gendarmi avrebbero potuto arrestarmi per aver attaccato briga con un gran signore, quale lo sconosciuto doveva per forza essere. Se avesse pensato di spaventarmi con quelle ciance si sarebbe sbagliato di grosso. Ad ogni modo mi diede qualche minuto per riprendermi e prepararmi, e uscì seguito dalla sua dispiaciuta signora. Qualcuno aveva depositato accanto al letto dove mi avevano adagiato i due tronconi della mia spada. La fissai con smarrimento e malinconia. Non ero ancora arrivato a Parigi ed ecco,

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