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Il volto di Ayanami. Simulacri e macchine pensanti tra Oriente e Occidente
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E-book242 pagine3 ore

Il volto di Ayanami. Simulacri e macchine pensanti tra Oriente e Occidente

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Saggi - saggio (225 pagine) - Donne artificiali e androidi, macchine pensanti e cyborg tra Occidente e Sol Levante


In una singolare dimensione dell'immaginario, nella quale la ricerca sull'Intelligenza Artificiale si incontra con la sci-fi, fanno capolino sia i simulacri, quali i replicanti di Blade Runner e la Rei Ayanami di Evangelion, sia i computer senzienti alla Hal 9000. Si tratta sempre di proiezioni della nostra psiche, espressioni di quei sogni e di quei timori che ci caratterizzano come Homo sapiens.


Claudio Cordella è nato a Milano il 13 luglio del 1974, è laureato in Filosofia e in Storia ed ha conseguito un master in Conservazione, gestione e valorizzazione del patrimonio industriale. Ha partecipato a diverse antologie ed è stato il vice direttore del web magazine Fantasy Planet (La Corte Editore). Il suo saggio Immaginare il futuro. Tempo, storia e sci-fi è stato finalista nella sua categoria per il Premio Italia 2016. Attualmente collabora con Delos Digital, per la quale sono usciti di recente Il sogno di Lalah: animanga e utopismi e Mulini a vento e robot giganti. Il significato degli oggetti negli anime e nei manga.

LinguaItaliano
Data di uscita5 mag 2020
ISBN9788825412178
Il volto di Ayanami. Simulacri e macchine pensanti tra Oriente e Occidente

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    Il volto di Ayanami. Simulacri e macchine pensanti tra Oriente e Occidente - Claudio Cordella

    9788825407679

    […] i robot (macchine ipotetiche che simulano il comportamento umano, spesso con sembianze almeno approssimativamente umane) possono essere buoni o tremendi, amici fedeli dell'uomo o suoi acerrimi nemici. I robot buoni possono essere esemplari o pateticamente buffi: incuterci sbigottita ammirazione coi loro poteri sovrumani (e con le loro sovrumane virtù, almeno nei racconti di certi autori), oppure divertirci con il loro comportamento ingenuo e sempliciotto.

    Hilary Putnam, Mind, Language and Reality. Philosophical Papers, vol. 2, 1975; tr. it. Mente, linguaggio e realtà, Milano 1993, p. 416.

    Un tema ricorrente nella fantascienza è la fusione degli esseri umani con le macchine, o trasformando tecnologicamente corpi biologici in cyborg (contrazione di cybernetics organism, organismi cibernetici) o caricando le nostre menti nelle macchine (mind uploading).

    Mark Tegmark, Being Human in the Age of Artificial Intelligence, 2017; tr. it. Vita 3.0. Essere umani nell'era dell'intelligenza artificiale, Milano 2018, p. 204.

    01. Introduzione

    Se penso a quali sono stati i miei primi contatti con l'immaginario fantascientifico, frugando tra i miei ricordi non mi imbatto né in celebri riviste, come l'intramontabile Urania, diretta per così tanti anni da Giuseppe Lippi (1953-2018), né tanto meno in pellicole cinematografiche consacrate tra i classici del genere. No, piuttosto la memoria corre in modo particolare ad alcune produzioni made in Japan degli anni '70-'80 in cui robot giganti, invasori alieni e battaglie tra flotte di astronavi facevano la parte del leone. Solo in seguito, dopo aver già visto le avventure robotiche di Muteki kōjin Daitān 3 (Daitarn III) e di Kidō Senshi Gandamu (Mobile Suit Gundam), le incursioni nelle più lontane profondità dello spazio del filosofico Ginga Tetsudō 999 (Galaxy Express 999) e del piratesco Uchũū kaizoku kyaputen Hārokku (Capitan Harlock), andai alla ricerca di quei racconti e di quei romanzi che mi sembrava trattassero quei medesimi argomenti. A tal proposito non posso fare a meno di rammentare la prima raccolta di novelle che ebbi modo di leggere, presa in prestito da una piccola biblioteca di provincia, la storica Le meraviglie del possibile. Antologia della fantascienza, curata da Sergio Solmi e da Carlo Fruttero. Era stato davvero un miglioramento? Avevo davvero compiuto una sorta di salto quantistico in ambito cognitivo verso nuovi orizzonti? Senza alcun dubbio a giudizio di una certa cerchia accademica, tenacemente arroccata sulle proprie posizioni e imbevuta di pregiudizi sino al midollo, sia la visione di Capitan Harlock tanto quanto la lettura delle Meraviglie del possibile erano caldamente sconsigliate, a loro avviso si trattava sempre e comunque di spazzatura. D'altro canto quando più di quarant'anni fa UFO Robo Grendizer (UFO Robot Goldrake, Atlas Ufo Robot), il 4 aprile 1978, sbarcò sugli schermi televisivi nostrani si trattò di qualcosa di inedito per la nostra penisola, un cartone animato prodotto per la TV che non era imperniato né su personaggi fiabeschi né su buffe creature zoomorfe, quanto piuttosto su robot giganteschi impegnati in una guerra dei mondi combattuta senza esclusioni di colpi. A sconvolgere la mentalità chiusa di certuni commentatori di allora, degli haters come li chiameremmo oggi, c'era una forte avversione nei riguardi della maniera disinvolta con cui veniva impiegato un mezzo espressivo come quello dell'animazione. Quest'ultimo veniva ritenuto adatto unicamente ad intrattenere un pubblico infantile per mezzo di fiabe, magari condite con allegre canzoncine ed imbevute di una comicità slapstick di immediata comprensione. All'interno di un simile quadro concettuale, già di per sé asfittico, i cartoon se non erano quelli dello scomparso Walt Disney (1901-1966), oppure dei suoi diretti eredi, non erano nemmeno da prendersi in considerazione. La scuola disneyiana veniva considerata sempre e comunque lo state of art dell'animazione, si riteneva che avesse definito una volta per tutte le linee guida standard dal punto di vista iconografico e narrativo dalle quali era inammissibile pensare di poter sgarrare. Volendo si potrebbe dire che l'atteggiamento degli avversari degli anime, snobistico quanto miope, era la prosecuzione di quello che in precedenza già tanti altri intellettuali avevano dimostrato di avere nei confronti della cultura popolare tout court.¹ Si trattava di una palese ostilità, priva di aperture di qualsiasi tipo, la quale aveva saputo mantenersi inalterata nel tempo sino a tutta la prima metà del Novecento. Ad esempio, una barriera invalicabile veniva posta tra la letteratura autoriale e ogni altro genere di produzione scritta, in particolar modo se destinata ad avere un largo consumo; come la para-letteratura e gli odiatissimi fumetti.² Simili lamentele, venate da un arcigno moralismo puritano, rivolte nei confronti del consumismo in generale e della cultura popolare in particolare, sotto diversi aspetti risultano essere analoghe a quelle che poi ritroviamo ripetute dagli implacabili accusatori del rock e della televisione, così come da parte dei successivi haters degli anime. Ecco allora che i cartoni animati made in Japan vengono immancabilmente descritti dai loro avversari come qualcosa di nocivo, colpevoli di essere non solo esteticamente ripugnanti ai loro occhi ma anche diseducativi. Quest'implacabile ostilità nei confronti delle infinite varietà del pop, imperniato sul desiderio di conservare intatta un'idealizzata cittadella della buona cultura, ad un certo punto incominciò però a venir contestata. Basti pensare alla pubblicazione del seminale studio di Umberto Eco Apocalittici e integrati, edito per la prima volta nel nostro paese nel lontano 1964. Un evento editoriale che causò la disperazione di eruditi come Pietro Citati, il quale inorridì nello scoprire che qualcuno aveva osato menzionare nel medesimo saggio Elvis Prisley, Superman ed Immanuel Kant. Si trattava dal suo punto di vista di un grave errore, tale da mettere a rischio quella netta separazione tra sapere popolare e cultura accademica che doveva essere rigorosamente mantenuta. A tal proposito, in una sua recensione apparsa su Il giorno in data 14/10/64, intitolata La Pavone e Superman a braccetto di Kant, il nostro dava libero sfogo a tutti i suoi timori: «Se il titolo è sbarazzino, il contenuto dell’articolo è preoccupato: il libro è detto spiritoso e intelligente, ma si lamenta […] il fatto è che l’autore dell’articolo vede con molto sospetto questo uso degli strumenti della cultura Alta per spiegare e analizzare la cultura Bassa. […] a Citati non piaceva, perché questo gli appariva come il coronamento degli ideali segreti della cultura di massa […]». Apocalittici e integrati. Comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa, Milano 2008, pp. 9-10.

    Dati simili presupposti di carattere apocalittico, quando verso la fine del successivo decennio gli anime sbarcarono nella nostra penisola i loro nemici poterono contare su di una lunga tradizione costituita da autorevoli antagonisti di idee, produzioni e mode di carattere popolare, da sempre giudicate con sospetto e diffidenza. Schiere di severi censori già da tempo avevano identificato i nemici della civiltà nei film, nella radio e nella televisione, nella musica rock, nei fumetti e nei romanzi di genere, arroccandosi in cima ad una torre d'avorio dal quale osservare dall'alto in basso quell'orrenda corruzione dei buoni costumi e della vera cultura che ritenevano essere in atto. Per intenderci, seguendo questo punto di vista un redivivo Hieronymus Bosch, una volta informato dei continui omaggi alla sua arte contenuti nelle tavole del mangaka (fumettista) giapponese Kentaro Miura, ne dovrebbe per forza di cose esserne disgustato. Analogamente un risorto William Shakespeare non potrebbe che provare ripugnanza riguardo a tutti i film ispirati dalla sua produzione teatrale, questo indipendentemente dalla bravura dei registi e degli interpreti coinvolti, infatti sarebbe il cinema in sé e per sé ad essere una povera cosa indegna della sua arte. Dato un simile andazzo ogni contaminazione non poteva che esser vista come spregevole, la linea da seguire era una sorta di apartheid che separasse il fior, fiore dell'intelletto umano da quella immonda spazzatura buona solo per gli ignoranti vittime del consumismo, del tutto inadeguata invece per quelle menti superiori che rappresentavano l'oligarchia della conoscenza. L'immagine che i più rigorosi tra questi heaters volevano lasciare di sé era quella di persone affatto frivole e superficiali, di raffinati intenditori che ascoltavano Bach e non il rock, che non andavano mai (o quasi mai) al cinema e che non possedevano una televisione (oppure se ce l'avevano si vantavano di lasciarla inutilizzata in salotto a prendere la polvere). Ora la legione demoniaca temuta da costoro, tra le cui file erano già entrati a far parte rocker e fumettisti, si arricchiva di altri cattivi soggetti da additare al pubblico ludibrio. Natalia Gizburg racconta di come il padre, docente universitario e stimato scienziato, fosse diventato un appassionato lettore di romanzi polizieschi. Vergognandosi di questo passatempo, il nostro riteneva di dover dare delle giustificazioni a riguardo, ad esempio affermando di leggere Georges Simenon per la sua bravura nelle descrizioni della provincia francese oppure per esercitarsi con le lingue straniere: «Quando tornava da qualche viaggio, aveva sempre con sé romanzi polizieschi, che comprava sulle bancarelle delle stazioni; e finiva di leggerli lì nel suo studio, la sera. Erano, di solito, in inglese o in tedesco: sembrandogli forse meno frivolo leggere quei romanzi in una lingua straniera. – Un sempiezzo, – diceva alzando le spalle; e leggeva tuttavia fino all'ultima riga. Più tardi, quando cominciarono a uscire i romanzi di Simenon, mio padre ne divenne un lettore assiduo». Lessico famigliare, Torino 1986, p. 57.

    È chiaro che dal punto di vista del buon professore la lettura questi gialli rappresentava la rottura di una qualche barriera, da qui i suoi sensi di colpa. Quella medesima linea di separazione che decenni dopo Citati avrebbe visto in pericolo e che altri, con feroce ostinazione, avrebbero ostinatamente continuato a difendere, lanciando i loro strali verso tutti gli innumerevoli pericoli che vedevano profilarsi all'orizzonte. È proprio seguendo tali analoghi assunti apocalittici che nel secolo scorso taluni benpensanti condannarono in massa i cartoni animati made in Japan, eleggendoli seduta stante al rango di novelli corruttori della gioventù italica, per altro senza nemmeno tentare di imbastire al riguardo delle argomentazioni razionalmente fondate degne di questo nome. Al contrario, costoro preferirono piuttosto dare libero sfogo al pregiudizio e alla xenofobia, diffondendo in lungo e in largo delle leggende metropolitane anti-giapponesi una più demenziale dell'altra. Queste ultime nel corso degli anni '90 attirarono l'attenzione della rivista specializzata in animanga Kappa Magazine, edita tra il 1992 e il 2006 dalla casa editrice Star Comics, le cui pagine ospitarono per qualche tempo degli interventi a firma di Andrea Baricordi, tutti quanti dedicati alla demolizione di queste fake news all'interno di un'apposita rubrica: «C'è bisogno di chiarezza: se ne sono sentite di tutti i colori riguardo il Giappone e i suoi abitanti, studiati e sezionati come cavie da laboratorio dai più disparati 'esperti' e da ormai quasi tutti i media». Leggendo leggende, in Kappa Magazine, n. 2, agosto 1992, p. 32.

    Tra le tante, qui è forse utile ricordare quella che voleva che gli anime fossero sfornati in serie all'interno di asettiche catene di montaggio controllate da misteriosi supercomputer, marcando una supposta differenza tra l'artigianalità dei cartoon occidentali, nei quali sarebbe sempre stato possibile intravedere la mano dell'artista, contrapposti all'asettica freddezza tecnologica che avrebbe invece caratterizzato quelli nipponici. Naturalmente l'idea che dalle parti di Tokyo dovesse esserci una specie di supercomputer, stile Hal 9000 di 2001: A Space Odissey (2001: Odissea nello spazio) per intenderci, impegnato a disegnare giorno e notte, rimane tutt'ora qualcosa di surreale. Non si tratta di nient'altro che di una folle urban legend che ci dice molte più cose riguardo all'incompetenza e al gretto provincialismo di un certo giornalismo nostrano, piuttosto che sui manga (fumetti) e sugli anime (cartoni animati) del Sol Levante.³ Tra l'altro questa favola, quantomeno nelle sue versioni più estreme, sottintendeva il conseguimento di uno sviluppo tecnologico che nemmeno adesso abbiamo raggiunto. L'odierna animazione digitale viene realizzata da tecnici, non è di certo affidata ad Intelligenze Artificiali (IA) che concepiscono in completa autonomia storie, personaggi e disegni: «Chi non ha mai sentito la diceria secondo cui gli anime sarebbero da sempre realizzati con il computer o, nella peggiore delle ipotesi, addirittura dal computer? La varietà, la fantasia e, va detto, l'idiozia di queste accuse deliranti vanno opportunamente catalogate per un successivo cahier de doléances. Ecco, in sintesi, le critiche regalatici, fin dagli Settanta, dai superinformati, superseri, superprofessionali giornalisti italiani: 1 – i fumetti e i disegni animati giapponesi sono fatti con dei supercomputer, giapponesi pure quelli; 2 – le sceneggiature vengono tirate fuori dai computer, secondo degli schemi di base piatti e ripetitivi; 3 – i disegni e i colori, la stessa regia vengono realizzati da computer pre-programmati; 4 – gli studi di produzione giapponese sono sempre semideserti perché tanto fanno tutto i computer; 5 – i giapponesi non sono per niente creativi e imitano dalle altre culture, specie quella americana; 6 – i giapponesi hanno imparato quel poco che sanno dalla Disney, che non ha mai usato né mai userà il computer». Marco Pellitteri, Mazinga Nostalgia. Storia, valori e linguaggi della Goldrake-generation, Roma 1999, p. 131.

    Una simile ostilità non era tanto l'espressione di sentimenti anti-tecnologici, quanto piuttosto era il risultato di una sfacciata ipocrisia. Non appena si iniziò a parlare della concreta applicazione dell'animazione digitale ai lungometraggi della Disney, non solo si abbandonò l'idea sopracitata che ipotizzava una messa al bando dei computer negli studi disneyiani, persino i metri di giudizio mutarono radicalmente. Se gli anime venivano ritenuti malfatti perché si pensava che fossero fatti a macchina, adesso al contrario l'ausilio del computer veniva magnificato quale grandioso trionfo dell'ingegno americano. Quel che prima veniva additato come un segnale di meccanizzazione disumanizzante, ora magicamente diventava un luminoso simbolo di progresso tecnologico, creatività e innovazione.⁴ Un'evidente caso di due pesi, due misure che procedeva di pari passo con l'idea di taluni professionisti ed esperti, nel campo del giornalismo, della psicologia e della pedagogia, che fosse più utile demonizzare che comprendere i nuovi venuti dal Giappone. Del resto l'elaborazione di una simile mitologia serviva solo ad uno scopo, il quale non era certo quello di informare il grande pubblico, quanto piuttosto quello di mantenere alto il livello d'allerta, presso genitori ed educatori, riguardo agli orrori provenienti dall'Estremo Oriente.⁵ Questo ferreo dogmatismo acritico puntava in una direzione ben precisa, se Goldrake presentava situazioni inadatte ai bambini, così come del resto altri anime, ebbene la conclusione logica doveva per forza di cose esser solo una; i giapponesi, crudeli e diversi, erano dei cinici corruttori di anime innocenti. Nella mente di questi novelli inquisitori non vi era nemmeno il barlume dell'idea che taluni programmi, sin dall'inizio, non fossero stati concepiti per i più piccoli, quanto semmai che fossero stati ideati per gli adolescenti, se non addirittura per gli adulti.⁶ In definitiva, seppur alcune menti illuminate erano arrivate a riconoscere che alcuni fumetti potessero essere congeniali a dei lettori maturi, al contrario nel momento in cui si parlava di disegni animati si pretendeva che questi ultimi limitassero alquanto la natura delle tematiche affrontate e delle situazioni rappresentate. Siamo difronte a vetusti pregiudizi duri a morire, seppur da tempo apertamente contestati, i quali condannavano il mondo dell'animazione a un'eterna minorità e a un'avvilente censura. Fortunatamente a partire dagli anni '90 del secolo scorso, quando i primi fan occidentali degli anime diventarono adulti e iniziarono a far sentire la loro voce, qualcosa iniziò a cambiare. Ad esempio, ricordo ancora lo stupore di un gruppo di opinionisti da salotto televisivo, con il loro solito amalgama di finta cordialità, senso di superiorità malcelato e di faciloneria supponente, costretti dalle proteste dei fan a rimangiarsi le becere falsità dette in trasmissione a proposito dei manga (fatti passare tutti quanti indistintamente per della pornografia spicciola). Era chiaro che il fronte degli haters stava iniziando a trovare pane per i suoi denti, adesso sempre più spesso venivano contrastati punto contro punto dal campo avverso dagli appassionati, finalmente c'era qualcuno dall'altra parte che si alzava in piedi per sbugiardare le loro farneticazioni. Tra l'altro i fan avevano dalla loro non solo la forza del numero, questi ultimi beneficiavano dell'indiscutibile vantaggio di conoscere a menadito le opere che difendevano a spada tratta. Al contrario, come si è già accennato, gli haters non ritenevano che valesse nemmeno la pena guardare con la dovuta attenzione quel che poi disprezzavano: «Il 'diverso' per loro è stato il cartone animato giapponese, che combattevano violentemente (senza analizzarlo, vederlo, viverlo come i ragazzi stavano facendo) chiedendo la sua eliminazione. […] Ritengo che molta della passione che questi cartoni hanno attirato su di sé deriva anche da una rivolta, da una ribellione a tanta disattenzione». Luca Raffaelli, De press, in Kappa Magazine, n. 73, luglio 1998, p. 30.

    Al tempo stesso i network italiani infine scoprirono, seppur con molto ritardo, come gli anime non fossero tutti uguali fra loro. Rendendosi conto, ad esempio, come due classici quali Mirai shōnen Konan (Conan il ragazzo del futuro) e Ken il guerriero, pur essendo entrambi dei cartoni animati made in Japan d'ambientazione post-apocalittica, non avessero il medesimo target di riferimento. Dunque, incredibile a dirsi, non era vero che tutti i cartoni animati dovessero essere per forza di cosa dei prodotti pensati per i bambini. A ogni buon conto, questa scoperta dell'acqua calda permise di collocare strategicamente gli anime in momenti diversi del palinsesto, non solo nelle fasce orarie pomeridiane e pre-serali.⁷ Tra l'altro una simile dislocazione temporale non rendeva più necessario mettere in atto brutali censure e adattamenti demenziali, concepiti per trasformare dei cartoni animati contenenti delle esplicite scene di sesso e violenza in programmi per tutta la famiglia. Operando per di più delle sciagurate modifiche, con la ridicola scusa di voler adattare gli anime ad un pubblico infantile: «Questo concetto […] si è spesso impropriamente esteso ai nomi dei personaggi, al montaggio delle sequenze, alla modifica dei sottofondi musicali, alla soppressione di alcune puntate, a un errato ordine di trasmissione degli episodi, alla censura di alcune scene e di alcuni dialoghi, al cambiamento del lessico e dei contenuti originari. Il più delle volte questi sono stati e sono degli abusi ai danni di un'opera […] Questo modus operandi interessa gli anime fin dai tempi di Atlas Ufo Robot». Pellitteri, Mazinga nostalgia, p. 266.

    Bisogna riconoscere però che dopo l'arrivo di Goldrake/Atlas Ufo Robot, che subì la sua parte di rimaneggiamenti (in particolar modo riguardo ai nomi dei protagonisti), i successivi sviluppi della censura italica nei confronti delle produzioni del Sol Levante erano diventati progressivamente sempre più invasivi e distruttivi. Stiamo parlando di brutali stravolgimenti narrativi, i quali iniziarono ad essere sempre più comuni verso la metà degli anni '80, laddove certe scene venivano tagliate e rimontate diventando così incomprensibili, oppure di quei dialoghi che venivano arbitrariamente cambiati snaturandone il senso. Tralasciando i casi in cui i puritani nostrani decidevano di proteggere i piccoli telespettatori dall'amalgama di sesso e violenza made in Japan, lasciandoli per altro liberi di fruire di quello made in USA, talvolta costoro si accanivano con ferocia su qualsivoglia riferimento culturale di carattere nipponico.⁸ Insomma, simili adattamenti impropri, più o meno marcati, tendevano in un modo o nell'altro a lasciare il segno. Quando ci si accorse che tutto questo non aveva più ragione di essere, nel corso

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