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Robot 98
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E-book327 pagine4 ore

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Fantascienza - rivista (234 pagine) - Versione digitale di Robot 98 con racconti di Robert A. Heinlein - P. Djèlí Clark - Nicola Catellani - Fabio Aloisio - Vallotto & De Simone - Lorenzo Peca - Paradossi temporali - Ballard - Hughes - Musk - Last of Us "Robot 98" a cura di Silvio Sosio


C’è un filo conduttore haitiano nei due racconti principali di questo numero. Haitiana è la protagonista di Se i marziani avessero la magia

di P. Djèlí Clark, racconto finalista a Locus, Sturgeon e World Fantasy, e haitiana è la parola zombi nel titolo di un superclassico di Robert Heinlein, Tutti voi zombi, sul quale c’è molto più da dire di quanto sembri. E se la trama del racconto di Heinlein si torce su sé stessa come un nastro di Moebius, Nicola Catellani vince il Premio Robot con un racconto dove il nastro di Moebius è proprio la forma di un intero mondo. E scoprirete che un certo grado di torsione su se stesso ce l’ha anche il racconto finalista di Fabio Aloisio, Exogenesis. Il tema qui è anche quello della speranza, anche di fronte a prospettive nerissime, e a volte basta volerci credere, come accade ai protagonisti di Luce virtuale di Axa Lydia Vallotto e Veronica De Simone e a quelli di La voce di Lorenzo Peca.


Fondata da Vittorio Curtoni, Robot è una delle riviste di fantascienza italiane più prestigiose, vincitrice di un premio Europa e numerosi premi Italia. Dal 2011 è curata da Silvio Sosio.

LinguaItaliano
Data di uscita13 giu 2023
ISBN9788825425130
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    Anteprima del libro

    Robot 98 - Silvio Sosio

    EDITORIALE

    Noi e voi zombi

    Silvio Sosio

    In questo editoriale a volte mi occupo di grandi temi, di questioni di costume o sociali che spesso riguardano la fantascienza solo tangenzialmente, magari solo nell’angolazione con cui si osserva il mondo. Questa volta invece ho deciso di spendere queste quattro parole proprio su un racconto di fantascienza, ma ancora più specificamente su una singola frase di un singolo racconto di fantascienza. La singola frase, tra l’altro, è proprio quella che dà il titolo al racconto, e il racconto è Tutti voi zombi.

    L’autore è uno di quelli sui quali siamo abituati a discutere da quasi un secolo: Robert A. Heinlein, storicamente considerato uno dei grandi della fantascienza alla pari con Isaac Asimov, ma in effetti di gran lunga superiore ad Asimov più o meno da tutti i punti di vista. La sua opera più famosa e la sua condanna è Fanteria dello spazio, che gli è valsa l’accusa di essere un autore di destra e militarista, lasciandolo molto al margini delle spinte che hanno rinnovato il genere dagli anni Sessanta in poi. La mia opinione su Heinlein è che qualunque definizione gli si appioppi si commetta un abuso: è un autore, un pensatore, troppo sofisticato e troppo complesso per dargli etichette. Per esempio, in Fanteria dello spazio non vedo un’esaltazione della guerra o della struttura militare; c’è, se mai, un’affermazione di rispetto per chi sacrifica se stesso per difendere la propria comunità (in questo caso la Terra stessa), e la differenza mi sembra sostanziale. Ma se c’è una cosa che si impara ben presto nel frequentare il mondo della fantascienza è che i dibattiti su Fanteria dello spazio non finiscono mai. Heinlein era una persona di opinioni nette e forti e spesso innovative, contro corrente qualsiasi fosse la corrente.

    In questo racconto, per dire, affronta il tema della transessualità e dell’intersessualità (Jane ha caratteristiche sessuali maschili e femminili contemporaneamente, anche se lo scopre solo dopo che quelle femminili sono state ormai rimosse) e lo fa in tutta tranquillità, come se fosse una cosa perfettamente normale, senza nessun giudizio morale. E lo fa nel 1958, ben prima della rivoluzione sessuale degli anni Sessanta e Settanta, negli anni in cui a Elvis Presley veniva vietato di fare movimenti troppo bruschi col bacino.

    Il racconto è un superclassico della fantascienza: se non l’avete letto forse è preferibile che lo leggiate prima di questo editoriale, visto che farò abbastanza spoiler. Se non sapete dove reperirlo, ve l’abbiamo fatta facile: girate il foglio e arrivate a pagina 6, ed eccolo lì. È un racconto che è stato pubblicato in varie edizioni e in varie traduzioni, ed è possibile che lo conosciate già, ma ci sembrava interessante riproporlo perché è uno di quei racconti che dovrebbero restare sempre disponibili, un vero pilastro della fantascienza, se mi concedete per una volta parole un po’ grosse.

    Nonostante sia un classico, è un racconto, secondo me, sottovalutato. Lo frena l’idea su cui è costruito, troppo geniale e sviluppata magistralmente: un uomo che è madre e padre di sé stesso. Questa frase fa esplodere la testa, come direbbero gli anglofoni, e spesso ci si ferma lì. Se si riesce ad andare oltre ci si rende conto che lì non finisce affatto: il protagonista non solo genera se stesso, ma è artefice della sua vita in tutti i momenti determinanti, buoni e cattivi. Rapisce se stessa dall’ospedale quando è ancora bambina, seduce e abbandona se stessa quando muove i primi passi da adulta, fino ad arruolare se stesso nel corpo degli agenti temporali. Gli interventi esterni nella sua vita sono pochissimi: la famiglia che la adotta, il chirurgo che le fa fare la transizione di sesso – senza averglielo neppure chiesto, e poco altro. Nella vita del protagonista gli altri sono ciò che un gamer odierno chiamerebbe NPC, non playing character: personaggi di contorno, non mossi da volontà propria. Tutto nella sua vita nasce ed è originato da se stesso. Perciò sul finale lui, nel suo delirio solipsista per cui vive nella convinzione che tutto l’universo alla fine giri intorno alla sua esistenza, rivolge questo pensiero agli altri, a noi che stiamo leggendo il racconto, e ci chiede: io sono chi sono io, ma voi, voi zombi, da dove venite?

    Questa almeno è la mia interpretazione, ma altri hanno un’idea diversa.

    Il racconto è stato pubblicato nel 1959, e scritto l’anno prima. Il titolo originale, che a volte viene riportato poco correttamente come …All You Zombies…, è in realtà —All You Zombies—, virgolette incluse (i trattini lunghi in inglese hanno una funzione analoga ai nostri puntini di sospensione). Va fatta anche una nota sul termine zombi (che sì, in italiano si scrive senza la e in fondo, anche se spesso viene usata la parola inglese zombie), che nel 1958 non aveva ancora il significato di morti viventi che gli diamo oggi, e che origina dal film di George Romero La notte dei morti viventi. Storicamente la parola ha origine vudù e viene da Haiti, e indica persone private della volontà che diventano burattini agli ordini del sacerdote che ha eseguito il maleficio. La cosa ha a che fare coi morti viventi perché l’incantesimo produce una letargia simile alla morte, e il malcapitato può essere resuscitato anche dopo la sepoltura per eseguire i comandi che gli vengono assegnati.

    Nel 1956 uno scrittore aveva usato per la prima volta il termine zombi nella fantascienza per indicare una droga in grado di asservire una persona agli ordini dei suoi nemici. Chi? Guarda caso, un certo Robert A. Heinlein, nel romanzo La porta sull’estate. Lo stesso Heinlein che due anni dopo avrebbe scritto Tutti voi zombi.

    Abbiamo chiarito quindi cosa intende Heinlein con zombi: non un cadavere che cammina, ma una persona priva di volontà, un burattino. Quello che un gamer odierno chiamerebbe NPC, appunto. Lo stesso uso di zombi lo si trova anche nella canzone Zombie dei Cranberries, scritta da Dolores O’Riordan, che chiama zombi chi segue ciecamente la dottrina della violenza.

    Dopo il racconto di Heinlein pubblichiamo un articolo di Antonino Fazio sui paradossi temporali in cui si parla anche di questo racconto. La sua interpretazione è diversa da quella che ho dato io: secondo lui la domanda del protagonista non riguarda gli altri, ma se stesso. Lui sa da dove viene lui, ma gli sfugge il significato del loop temporale nel suo insieme: quindi gli zombi a cui si rivolge sono le altre versioni di se stesso con cui ha avuto a che fare nelle diverse epoche. La stessa idea sembra averla avuta anche Ugo Malaguti, che per primo tradusse il racconto intitolandolo Tutti i miei fantasmi. Miei, appunto: quindi il protagonista si sta rivolgendo a se stesso. Questa interpretazione potrebbe essere confermata da due frasi seguenti: quando dice che prendendo un analgesico siete spariti tutti e quando dice mi mancate terribilmente. Ma naturalmente le due frasi possono essere interpretate anche a sostegno dell’altra tesi, pur rimanendo in parte oscure. Ho chiesto un po’ in giro, e mi pare che le due interpretazioni abbiano più o meno lo stesso numero di sostenitori.

    È incredibile, se ci pensate, e forse è un’altra dimostrazione della grandezza di questo autore. In quattordici pagine riesce a spiegare in modo perfettamente comprensibile uno dei più intricati loop temporali della storia della fantascienza, conducendo il lettore fino all’ultima pagina accompagnato dalla soddisfazione di aver capito bene tutto. E poi nelle ultime righe ti piazza una serie di frasi che lasciano interdetti. A chi sta parlando? Perché sono spariti tutti? Perché dice che noi non ci siamo affatto, e perché gli manchiamo, chiunque siano questi noi a cui si rivolge?

    Per fortuna, l’interpretazione di queste righe non richiede scelte nella traduzione. Se Malaguti aveva forzato la sua cambiando i pronomi del titolo, stando sul letterale la scelta resta nelle mani del lettore. Che viene lasciato con il fastidio di non aver capito bene, la sensazione che forse gli è sfuggito qualcosa che potrebbe cambiare il senso di tutto quello che ha letto fin lì, come in Inception di Christopher Nolan.

    Se avete seguito il nostro consiglio di leggere il racconto prima di questo editoriale forse ora vi sarà venuta voglia di leggerlo di nuovo. È del tutto normale. E se dopo averlo fatto voleste leggere ancora questo editoriale, sarà segno che il loop avrà catturato anche voi. R

    Illustrazione

    Illustrazione di Luca Vergerio

    NARRATIVA

    Tutti voi zombi

    Robert A. Heinlein

    Traduzione di Laura Abisso

    2217 Fuso orario UTC-5 (EST) - 7 novembre 1970 - New York - Bar del Vecchio

    Illustrazione Come ribadito nella presentazione a Requiem (Robot 94), Robert A. Heinlein potrà essere stato per alcuni aspetti un uomo discutibile, ma è l’unico scrittore che conosciamo capace di scrivere non uno, ma ben due racconti appassionanti, pieni di azione, colpi di scena e dall’intreccio impeccabile… con un solo personaggio! Il primo è By His Bootstraps (1941, noto da noi come Un gran bel futuro ovvero Per qualche millennio in più); il secondo è questo —All You Zombies— (1959) dal quale è stato tratto il notevole film Predestination (2014) di Michael e Peter Spierig con Ethan Hawke. (FL)

    Stavo lucidando un bicchierino da brandy quando entrò la Madre Nubile. Notai l’ora: le 22:17 del fuso orario meno cinque, o ora orientale, del 7 novembre 1970. Gli agenti temporali notano sempre l’ora e la data; siamo tenuti a farlo.

    La Madre Nubile era un uomo di venticinque anni, non più alto di me, dai tratti infantili e dal carattere permaloso. Non mi piaceva il suo aspetto (non mi è mai piaciuto) ma era il ragazzo che ero venuto a reclutare, era il mio ragazzo. Gli feci il mio miglior sorriso da barista.

    Ma forse sono troppo critico. Non era un tipo sgarbato; il suo soprannome derivava da ciò che diceva sempre quando qualche ficcanaso gli chiedeva cosa facesse: – Sono una madre nubile. – Se si sentiva meno che micidiale, aggiungeva: – a quattro centesimi a parola. Scrivo storie di confessioni.

    Se era in vena di essere sgradevole, aspettava che qualcuno rispondesse qualcosa. Nel battibecco aveva uno stile letale, come un poliziotto donna, ed era uno dei motivi per cui lo volevo. Non l’unico.

    Quella sera era bello carico e la sua faccia mostrava più disprezzo per le persone del solito. Senza dire una parola gli versai una doppia razione di Vecchia Mutanda e lasciai la bottiglia. Lui la scolò e se ne versò un’altra.

    Pulii il piano del bar. – Com’è la storia della Madre non sposata?

    Le sue dita si strinsero sul bicchiere e sembrava che stesse per lanciarmelo addosso; cercai il manganello sotto il bancone. Nella manipolazione temporale si cerca di capire tutto, ma ci sono così tanti fattori che non si corrono mai rischi inutili.

    Lo vidi rilassarsi quel minimo che ti insegnano a tenere d’occhio nella scuola di formazione dell’Ufficio. – Scusa – ho detto. – Stavo solo chiedendo: Come vanno gli affari?. Facciamo Com’è il tempo?

    Sembrava inacidito. – Gli affari vanno bene. Io scrivo, loro stampano e io mangio.

    Me ne versai uno e mi chinai verso di lui. – In effetti – dissi – scrivi bella roba... ho letto qualcosa. Hai un tocco incredibilmente sicuro con il punto di vista femminile.

    Era un errore che dovevo rischiare; non ammetteva mai quali pseudonimi usasse. Ma era abbastanza bollito da cogliere solo l’ultima frase: – Punto di vista femminile! – ripeté con uno sbuffo. – Sì, conosco il punto di vista delle donne. Dovrei.

    – Quindi? – dissi dubbioso. – Sorelle?

    – No. Non mi crederesti se te lo dicessi.

    – Be’, adesso – risposi con dolcezza, – i baristi e gli psichiatri imparano che nulla è più strano della verità. Figliolo, se tu sentissi le storie che racconto io... be’, diventeresti ricco. Incredibile.

    – Non sai cosa significa incredibile!

    – E allora? Niente mi stupisce. Ho sempre sentito di peggio.

    Sbuffò di nuovo. – Vuoi scommettere il resto della bottiglia?

    – Scommetto una bottiglia intera. – Ne misi una sul bancone.

    – Bene...

    Feci segno all’altro barista di prendere il mio posto. Eravamo in fondo al locale, uno spazio con un solo sgabello che tenevo riservato caricando il piano del bar con barattoli di uova in salamoia e altri oggetti. Alcuni clienti erano all’altro lato del bancone a guardare i combattimenti in tv e qualcuno faceva suonare il jukebox... dove eravamo noi era privato come un letto.

    – Ok – esordì – per cominciare, sono un bastardo.

    – Non c’è problema da queste parti – dissi.

    – Dico sul serio – scattò. – I miei genitori non erano sposati.

    – Non c’è comunque problema – insistetti. – Nemmeno i miei lo erano.

    – Quando... – Si fermò e mi rivolse il primo sguardo caloroso che abbia mai visto su di lui. – Dici davvero?

    – Certo. Sono un bastardo al cento per cento. Infatti – aggiunsi – nessuno della mia famiglia è mai sposato. Tutti bastardi.

    – Non raccontare balle… sei sposato! – disse indicando il mio anello.

    – Oh, questo. – Glielo mostrai. – Ha solo l’aspetto di una fede nuziale; lo indosso per tenere lontane le donne. – Quell’anello era un pezzo d’antiquariato che avevo comprato nel 1985 da un collega operativo, che l’aveva recuperato nella Creta pre-cristiana. – Il verme Uroboro... il serpente del mondo che si mangia la coda, senza fine. Un simbolo del Grande Paradosso.

    Lo guardò appena. – Se sei davvero un bastardo, sai come ci si sente. Quando ero una bambina...

    – Ehi! – dissi. – Ho sentito bene?

    – Chi sta raccontando questa storia? Quando ero una ragazzina... Senti, hai mai sentito parlare di Christine Jorgenson? O di Roberta Cowell?

    – Casi di cambio di sesso? Stai cercando di dirmi...

    – Non interrompermi e non farmi arrabbiare, o smetto di parlare. Sono stata una trovatella, abbandonata in un orfanotrofio di Cleveland nel 1945 quando avevo un mese. Da bambina invidiavo i bambini con i genitori. Poi, quando ho imparato a conoscere il sesso… e, credimi, vecchio, si impara in fretta in un orfanotrofio…

    – Lo so.

    – Ho fatto voto solenne che ogni mio figlio avrebbe avuto sia un papà che una mamma. Mi ha mantenuto ‘puro’, un’impresa non da poco in quell’ambiente... ho dovuto imparare a lottare per riuscirci. Poi sono diventato più grande e ho capito che avevo pochissime possibilità di sposarmi, per lo stesso motivo per cui non ero stato adottato. – Si accigliò. – Avevo la faccia da cavallo e i denti da cerbiatto, il petto piatto e i capelli lisci.

    – Non hai un aspetto peggiore del mio.

    – Chi se ne frega dell’aspetto di un barista? O di uno scrittore? Ma le persone che vogliono adottare scelgono piccoli idioti dagli occhi azzurri e dai capelli dorati. In seguito, i ragazzi vogliono seni sporgenti, un viso carino e un modo di fare da Oh, che bel ragazzo! – Scrollò le spalle. – Non potevo competere. Così ho deciso di unirmi al G.I.R.L.S.

    – Eh?

    – Gruppo Infermieristico e Ricreativo Legione Spaziale, quello che ora chiamano ‘Angeli dello Spazio’ – Ausiliarie Nazionali Gruppo Extraterrestre, Legione Infermiere.

    Conoscevo entrambi i termini, una volta che li avevo cronicizzati. Usiamo ancora un terzo nome, si tratta di un corpo militare d’élite: Truppe di Ricreazione, Ospitalità e Incoraggiamento Extramondo. Il cambio di vocabolario è il peggior ostacolo nei salti temporali: sapevi che una stazione di servizio una volta serviva dosi di benzina? Una volta, durante un incarico nell’era Churchill, una donna mi disse: Incontriamoci alla stazione di servizio qui accanto… il che non è come sembra; una stazione di servizio (allora) non avrebbe avuto un letto.

    Continuò: – È stato quando hanno ammesso per la prima volta che non si possono mandare uomini nello spazio per mesi e anni senza permettere loro di scaricare la tensione. Ricordi come urlavano i bigotti? Questo migliorò le mie possibilità, dato che le volontarie scarseggiavano. Le ragazze dovevano essere rispettabili, preferibilmente vergini (a loro piaceva addestrarle da zero), mentalmente superiori alla media ed emotivamente stabili. Ma la maggior parte delle volontarie erano prostitute vecchie o nevrotiche che sarebbero crollate dopo dieci giorni fuori dalla Terra. Quindi non avevo bisogno dell’aspetto fisico; se mi avessero accettata, mi avrebbero sistemato i denti da latte, ondulato i capelli, insegnato a camminare e a ballare e ad ascoltare un uomo con grazia e tutto il resto, oltre all’addestramento per le mansioni principali. Avrebbero anche usato la chirurgia plastica se fosse stata utile... niente di troppo bello per i nostri Ragazzi.

    «La cosa migliore è che si assicuravano che non rimanessi incinta durante l’arruolamento… ed eri quasi certa di sposarti alla fine della ferma. Allora come oggi gli A.N.G.E.L.I. sposano gli spaziali: parlano la stessa lingua.

    «A diciotto anni fui assunto per dare una mano a una giovane madre. Questa famiglia voleva semplicemente una serva a basso costo, ma non mi importava perché non potevo arruolarmi prima dei ventuno anni. Facevo i lavori di casa e andavo a scuola serale: pensavo di continuare a fare la dattilografa e la stenografa alle superiori, ma invece andavo a un corso di seduzione, per migliorare le mie possibilità di arruolamento.

    «Poi incontrai questo imbroglione di città con le sue banconote da cento dollari. – Si accigliò. – Il poco di buono aveva davvero una mazzetta di banconote da cento dollari. Una sera me li ha mostrati e mi ha detto di servirmi.

    «Ma non lo feci. Mi piaceva. È stato il primo uomo che ho incontrato che è stato gentile con me senza cercare di prendermi in giro. Lasciai la scuola serale per vederlo più spesso. Fu il periodo più felice della mia vita.

    «E poi una sera nel parco mi tolse le mutandine.

    Si fermò. Gli chiesi: – E poi?

    – E poi niente! Non lo vidi mai più. Mi accompagnò a casa, mi disse che mi amava e mi diede il bacio della buonanotte. E non tornò mai più. – Aveva un’aria cupa. – Se riuscissi a trovarlo, lo ucciderei!

    – Be’ – dissi solidale – so come ti senti. Ma ucciderlo... solo per aver fatto una cosa che viene naturale... Ti sei opposta?

    – Eh? E questo cosa c’entra?

    – Un bel po’. Forse si merita un paio di braccia rotte per averti abbandonato, ma...

    – Si merita di peggio! Aspetta di sentire. In qualche modo sono riuscito a fare in modo che nessuno sospettasse di nulla e ho deciso che era meglio così. Non lo amavo davvero e probabilmente non avrei mai amato nessuno... ed ero più che mai desiderosa di unirmi alle G.I.R.L.S. Non ero stata squalificata, non insistevano più di tanto sulla verginità. Mi rincuorai.

    «Non me ne accorsi fin quando le mie gonne non diventarono strette.

    – Incinta?

    – Quel bastardo mi ha distrutto la vita! Quei delinquenti con cui vivevo hanno fatto finta di niente finché ho potuto lavorare, poi mi hanno cacciata e l’orfanotrofio non mi ha più ripresa. Sono finita in un reparto di carità, circondata da altri pancioni e da padelle che trotterellavano fino a quando non è arrivato il mio momento.

    «Una notte mi ritrovai su un tavolo operatorio, con un’infermiera che mi disse: Rilassati. Ora respira profondamente.

    «Mi sono svegliata a letto, intorpidita dal petto in giù. Alla fine arrivò il mio chirurgo. Come si sente? mi disse allegramente.

    «Come una mummia.

    «Naturalmente. È fasciata come una mummia e imbottita di farmaci per mantenere l’intorpidimento. Si riprenderà, ma un cesareo è un po’ più serio di un’unghia incarnita.

    «Cesareo dissi. Dottore... ho perso il bambino?

    «Oh, no. Il suo bambino sta bene.

    «Oh. Maschio o femmina?

    «Una bambina sana. Un chilo e mezzo e mezzo di peso.

    «Mi rilassai. Era già qualcosa aver fatto un bambino. Mi dissi che sarei andata da qualche parte e avrei apposto il titolo signora sul mio nome e avrei lasciato che la bambina pensasse che il suo papà era morto... nessun orfanotrofio per la mia bambina!

    «Ma il chirurgo stava parlando. Mi dica, uh… Evitò il mio nome. Ha mai pensato che la sua configurazione ghiandolare fosse strana?

    «Io risposi: Eh? Certo che no. Dove vuole arrivare?

    «Esitò. Le darò questo in una sola dose, poi un’ipo per farle smaltire l’agitazione. Le verrà, l’agitazione.

    «Perché? chiesi.

    «Hai mai sentito parlare di quel medico scozzese che era donna fino a trentacinque anni? Poi si è operata ed è diventata legalmente e medicalmente un uomo? Si è sposato. Tutto bene.

    «E io che c’entro?

    «È quello che sto dicendo. Lei è un uomo.

    «Cercai di sedermi. Cosa?

    «"Stia calma. Quando L’ho aperta, ho trovato un disastro. Ho mandato a chiamare il primario

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