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Quando il sole bruciava
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E-book223 pagine3 ore

Quando il sole bruciava

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Fantascienza - racconti (174 pagine) - La nascita della letteratura distopica in Italia e le sue contaminazioni. L'evoluzione della distopia nei migliori autori del fantastico italiani.


Se l'utopia è la narrazione di un mondo ideale, la distopia è quasi il suo contrario: da 1984 a Hunger Games, questo genere guarda al mondo di oggi e racconta come andrà male domani. Dittature, carestie, disastri ecologici daranno vita a società opprimenti e spietate. Un genere che negli ultimi anni è cresciuto nell'interesse del pubblico ma che già da tempo è frequentato dai migliori autori italiani della fantascienza.

Questa antologia racconta la nascita della letteratura distopica in Italia, o perlomeno i suoi albori, e le contaminazioni l’hanno influenzata in anni in cui la parola “distopia” era un tentativo di definire l’argomento e non un genere letterario, o un sottogenere. Dal cyberpunk al weird, dall’ucronico al post apocalittico, molti testi hanno raccontato mondi o realtà in cui nessuno vorrebbe vivere, società avvelenate perse nella memoria collettiva.

Nove penne, autori e autrici che hanno osato camminare su strade che ancora non erano state battute. Storie nuove e al contempo vecchie che mostrano il cammino compiuto per arrivare fino a oggi.


Franco Ricciardiello, nato a Vercelli nel 1961, scrive e pubblica fantascienza dal 1981. Ha pubblicato due romanzi su UraniaAi margini del caos, vincitore del premio Urania nel 1998 uscito anche in Francia da Flammarion, e Radio aliena Hasselblad, nel 2002. Suoi racconti sono stati inclusi nelle antologie bestseller Millelire di Stampa Alternativa. Negli anni ottanta ha collaborato e diretto la fanzine The Dark Side. Più recentemente ha scritto anche gialli, vincendo nel 2002 il premio di narrativa poliziesca Orme Gialle e nel 2005 il premio Gran Giallo Città di Cattolica. Nel 2007 col romanzo Autunno Antimonio ha vinto il premio Delitto d'Autore. Per Delos Digital ha curato la prima antologia solarpunk italiana, Assalto al sole, e dirige la collana Atlantis.

Delos Veronesi è nato a Bergamo nel 1977. Ha vissuto per tre anni in Cina. Ha scritto vari racconti, presenti in diverse antologie, e due romanzi: Winter, edito da Watson, e Il destino della tigre, su Amazon. In fase di pubblicazione, nel 2019, un nuovo romanzo cyberpunk, per Watson, e un manga action ispirato agli anni 80. Per Delos Digital ha pubblicato gli ebook Kowloon MoonByakkotai e Anime in Hannover, e dirige la collana Dystopica..

LinguaItaliano
Data di uscita7 dic 2021
ISBN9788825418484
Quando il sole bruciava

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    Anteprima del libro

    Quando il sole bruciava - Franco Ricciardiello

    Prefazione

    Come tutte le cose più belle, questa antologia è nata spontaneamente senza bisogno di manifesti e di grandi piani studiati a tavolino. Sono bastati pochi minuti per trovarsi in sintonia e per mettere in moto un progetto che speriamo possa piacervi.

    Quando il sole bruciava è una raccolta di testi che hanno attraversato gli anni, opere che sono nate senza un’etichetta precisa e che ben rappresentano il grande calderone creativo che ribolle in Italia. Storie nate senza pensare a cosa sia la distopia o quali caratteristiche deve avere un cyberpunk, sono testi creati liberamente, che racchiudono tutte le sfumature emozionali che oggi vengono etichettate come generi.

    I racconti sono in ordine di pubblicazione e, come i più attenti di voi noteranno, non sono stati rimaneggiati per avvicinarli alle richieste narrative moderne. Vogliamo proporveli nella loro forma originale, per creare un ponte temporale che mostri come la scrittura sia mutata nella forma ma non nella sostanza.

    L’elemento distopico non è sempre predominante, spesso è una sfumatura dell’ambientazione o solamente un senso di disagio immedesimativo creato dall’autore, eppure ognuna di queste storie racconta uno scenario in cui nessuno di noi vorrebbe vivere.

    Assieme a Franco Ricciardiello, che è colui che si è fatto carico di scovare tra i decenni i testi che state per leggere, volevamo offrirvi la possibilità di recuperare alcune delle grandi storie dimenticate nel tempo. Per capire il presente bisogna studiare il passato, bisogna lasciarlo scorrere sotto ai propri occhi per poter imparare da chi ci ha preceduti.

    Dieci penne, autori e autrici che hanno osato camminare su strade che ancora non erano state battute. Storie nuove e al contempo vecchie che spero possano mostrarvi il cammino compiuto per arrivare fino a qui.

    Delos Veronesi

    Abbiamo pensato questa antologia con l’idea di narrare la nascita della letteratura distopica in Italia, o perlomeno i suoi albori, e le contaminazioni che negli anni l’hanno influenzata: tempi in cui la parola distopia era un tentativo di definire l’argomento e non un genere letterario, o un sottogenere. Dal cyberpunk al weird, dall’ucronico al post apocalittico, molti testi hanno raccontato mondi o realtà in cui nessuno vorrebbe vivere, società avvelenate perse nella memoria collettiva.

    Il pubblico oggi probabilmente associa l’idea di distopia a una manciata di titoli, ignorando completamente ciò che c’è stato prima, come racconti di autori italiani che sono state tappe fondamentali per la definizione del genere.

    Quando il Sole bruciava vorrebbe portare i lettori indietro di anni, contribuire a una mappa ideale che mostri come molti tra i nomi oggi più affermati in Italia nella letteratura di fantascienza abbiano percorso alcune tra le innumerevoli strade che portano al distopico, inseguendo visioni del futuro che nascevano dalla speculazione sui problemi del presente.

    La collezione di nomi e titoli non ha ambizioni di completezza: troppo vasto è il mare nel quale abbiamo pescato; ci ripromettiamo però di continuare a compilare altre raccolte, nel caso la nostra iniziativa abbia successo, per impedire che testi ancora validi cadano per sempre nell’oblio.

    Franco Ricciardiello

    Gli spazi di Hilbert

    (1981)

    Domenico Gallo

    Nico Gallo si occupa di fantascienza fino dagli anni Settanta, quando militava in Un’ambigua utopia, collettivo marxiano di studi sull’immaginario. La sua produzione è più incline alla saggistica che alla narrativa, con un’ampia serie di pubblicazioni in diversi argomenti. Dopo essere stato redattore di Intercom, la fanzine più longeva del fandom italiano, è oggi direttore di Pulp Libri. Gli spazi di Hilbert è apparso nel 1998 sul n. 22 di Futuro Europa, ma la stesura risale al 1981, quando l’autore era studente universitario di Fisica. Leggiamo in una postfazione del racconto: «In quegli anni Alberto Asor Rosa, insigne storico della letteratura italiana, pubblicava per Einaudi il volumetto Le due società. Ebbene gli spazi di Hilbert sono quelle due società inconciliabili. Una si è scontrata contro l’altra senza speranza, perdendo tutto senza ottenere niente, praticando un rifiuto disperato e tragico. Credo che le pagine che ho scritto abbiano raccontato inconsapevolmente questa realtà, qualcosa che può accadere solo scrivendo fantascienza…»

    Gli spazi di Hilbert è un testo forte, che trascina il lettore in una realtà angosciante e ipnotica. Un viaggio che scava nel sottile terreno della consapevolezza attraverso una storia che prende forma con il passare delle pagine. Un racconto che pone il confronto tra società al centro delle disavventure del protagonista, che solleva domande attraverso una sofferenza spirituale che si ripercuote sulla materia.

    Ma sparano…

    "Sì, ma anche loro sparano sul muro, insomma è tranquilla… è una sparatoria tranquilla".

    Il sole filtrava pigro attraverso le tapparelle semi abbassate, disegnando sul pavimento linee di chiaro e scuro dalle proporzioni falsate; affascinanti trapezi costituivano lo sfondo di sciami di polvere che giocavano ad apparire e sparire nella magia del controluce. Hilbert era seduto dietro a una larga scrivania in disordine, con un gomito appoggiato sopra un elegante volume rilegato in tela verde. Scrutava una lavagna di plastica bianca coperta di simboli matematici blu e rossi. Le equazioni ribelli lo rendevano nervoso, come se qualcosa fosse sfuggito all’apparente rigore formale della dimostrazione.

    Un uomo entrò nella stanza aprendo la porta in malo modo, senza curarsi di bussare. Una testa insolitamente grossa era come addolcita da paio di spessi occhiali in precario equilibrio sulla punta del naso. La voce, esageratamente forte e sibilante, distrusse l’atmosfera sonnolenta del piccolo studio, e la fragile concentrazione di Hilbert si infranse come se la porta sbattuta avesse urtato un oggetto di cristallo.

    – Hai visto Seb? Sarà mezz'ora che giro per l'istituto come un imbecille senza trovarlo.

    Hilbert non rispose subito e lo squadrò da capo a piedi, quasi fingesse di essere stato disturbato. L’invadenza del collega era diventata una caratteristica proverbiale e tollerata tra i fisici dell’Institute for Advanced Studies, il che aveva favorito, se non stimolato, il progressivo imbarbarimento di Andrea. Hilbert si tolse gli occhiali con meditata lentezza, e prese a pulirli con cura utilizzando il bordo della camicia.

    – No – rispose Hilbert con calma. – Siamo arrivati in istituto assieme, ma non so dove possa essersi infilato.

    Andrea De Witt non se ne andò, prese a gironzolare per la stanza con piccoli passi, sbirciando i titoli dei libri impilati sugli scaffali, leggendo alla rovescia i fogli di carta che ingombravano il piano della scrivania.

    Hilbert si alzò, scostò delicatamente la tenda, e guardò fuori. Nel piazzale, immerso in una luce bianca e innaturale, stavano spostando alcuni container.

    – Andrea, avete risolto il problema di ieri? – chiese Hilbert continuando a osservare la gru al lavoro.

    – Cosa? – Gli occhi di Andrea guizzarono imitando lo sguardo di un predatore, la mano destra s’infilò tra i capelli neri e ispidi, spettinandoli. – Ah, quel tensore… Sì, era simmetrico… avevamo troppi indici, ma scambiando j con k… sì, ho fatto il conto con Seb. Era banale…

    Andrea iniziò a scrivere sulla lavagna con calligrafia sgangherata, un po' cancellò con le mani e si fece spazio, per il resto sovrappose la propria scrittura alle equazioni precedenti.

    – Piuttosto, a voi come va? George racconta che avete grossi problemi coi decadimenti.

    – Sì – Hilbert scosse il capo sconsolato. – Sono ricerche grossolane. Energie troppo alte in gioco in intervalli temporali troppo piccoli. Siamo nettamente dentro alle ipotesi della creazione di particelle virtuali, ma i prodotti di reazione hanno una statistica di decadimento inattesa. Sono troppo stabili…

    – Ed Heinsenberg? – intervenne Andrea ridendo.

    – Si fotta – rispose Hilbert vincendo una certa indecisione, avendo colto l’allusione dell’amico. – Non ti preoccupare, si tratta di misure inconsistenti… dati strampalati. Una volta perfezionato l’esperimento otterremo misure attendibili, e Werner si sarà salvato ancora una volta.

    – Avete provato con qualche esperimento classico?

    – Già fatto – rispose Hilbert appoggiando una mano sulla spalla ad Andrea. – Anche con la camera di Wilson, ma la massa e la carica delle particelle non consentono indagini di questa natura.

    Un altro individuo entrò nella stanza senza bussare. I capelli neri e lunghi, avvitati in una miriade di riccioli, si spartivano sulla fronte incorniciando un volto magro. Un paio di occhiali rotondi cerchiati in oro erano in bilico sopra il naso aquilino. Indossava una camicia a quadretti e un paio di jeans rattoppati. Un paio di scalcinate ciabatte di plastica, più idonee in un vano doccia che in un istituto di fisica, completavano l’abbigliamento.

    – Salute pezzenti – esordì il nuovo venuto.

    – Ciao George – rispose Hilbert.

    – Senti, devo cambiare lo scintillatore del LAP, e non c'è un cane che mi aiuti…

    – Va bene. Vengo io.

    – Io me ne vado – disse Andrea, avanzando verso la porta. – George, sai mica dove si possa trovare Seb?

    – E io cosa cazzo ne so. Sarà ficcato in un cesso. In biblioteca manca l’ultimo fascicolo di Physical Review, e questo vuol dire che il Seb se l’è portato a cagare.

    Andrea si lasciò andare a una grossolana e rumorosa risata e si allontanò nello stretto corridoio ingombro di scaffalature e di scatole di cartone.

    Hilbert e George scesero diverse rampe di scale metalliche e si inoltrarono nei sotterranei schermati dell’istituto, lungo corridoi bui su cui si affacciavano innumerevoli porte.

    – Cosa ne pensi di quella roba? – chiese Hilbert rompendo il silenzio che di frequente si instaurava tra loro.

    – Proprio niente. Non sono neanche in grado di dichiarare se stiamo veramente lavorando a qualcosa di nuovo, o se stiamo compiendo errori madornali. Proprio non so, è un maledetto casino.

    George aprì con disinvoltura una pesante porta metallica su cui spiccava un targa gialla e nera con su scritto Pericolo Contaminazione. Hilbert lo seguì ed ebbe un brivido.

    Si ritrovarono in un ampia sala piena di strumenti disposti in apparente disordine. Hilbert si diresse verso il lato della stanza dove era piazzato un divisorio di plexiglas; sui monitor, i save screen danzavano come fantasmi alla luce fredda delle stelle.

    Seduto alla consolle, George tabulò sulla tastiera alcune stringhe di caratteri. La porta si sbloccò, e Hilbert entrò nella stanza dalle pareti opache. Dalla base del pavimento, mosso da un sistema idraulico, si elevò lentamente un cilindro metallico verniciato di rosso.

    Hilbert ruppe un sigillo metallico e infilò una chiave in una fessura posta sulla testa del dispositivo. Non appena la chiave giunse a fine corsa, su un monitor scomparve il sorriso del save screen e apparve la richiesta di password. Pochi caratteri e sul monitor apparve l’immagine della risacca lungo una spiaggia tropicale.

    – Identità utente confermata – disse suadente la voce campionata di Grace Jones. – Sostituzione scintillatore permessa.

    Hilbert sorrise alla voce, svitò la testa filettata del dispositivo, e sostituì lo scintillatore. Conclusa l'operazione, Hilbert fece un cenno con la mano, segnalando a George il completamento della procedura, e digitò una stringa alla consolle. L'apparecchio scese lentamente e tornò nella sua tana sotterranea, accompagnato da un sommesso ronzio.

    Hilbert si fermò davanti all’immagine a 17’ della risacca. Le onde giungevano lontane, nascevano oltre il bordo del monitor, da un oceano che non esisteva, apparivano come una sottile effervescenza di pixel che si ingigantiva nell’acqua azzurra ed esplodeva sulla battigia dorata. L’ombra di un uomo attraversò lentamente la spiaggia, mentre l’onda trascinava con sé un rottame, perdendolo tra le acque. Il grido di un animale tropicale sconosciuto, un uccello o una scimmia, tagliò all’improvviso l’aria della stanza.

    La porta automatica si aprì, e Hilbert pensò che Kumaj se ne era andata, che aveva lasciato un vuoto nella sua vita. Come un temporale d’estate, una freschezza troppo breve per portare un ristoro duraturo. Ricordò le barche in secca sulla spiaggia di Vormsi, i pescatori riuniti a fumare sotto una tettoia, il vento che frustava una tenda gialla contro un argano arrugginito. Kumaj sorrise e si volto verso il continente ponendo il suo profilo contro il sole al tramonto. Hilbert digitò la password che comandava la chiusura della porta mentre una brezza quasi impercettibile si appoggiò delicata alle palpebre. La porta automatica si chiese dopo trenta secondi.

    Una luce rossa segnalava l'apertura del nocciolo dove era riposto il LAP, e l'affilata figura di Hilbert avvampò purpurea nel laboratorio, come l’incendio di un angelo ribelle destinato a perdersi tra le stelle giganti di un universo morente. Si trovò a rivivere, come in un sogno o un'allucinazione, il tempo lontano degli studi, quando i segreti della natura sbocciavano davanti ai suoi occhi come la pelle di Kumaj.

    Le particelle attraversarono lo schermo di cadmio senza essere rallentate o deflesse, ed entrarono nel corpo di Hilbert silenziose, nella mente, aggirandosi tra i neuroni nei percorsi randomizzati. Un dolore vuoto, un respiro mozzato mentre i polmoni tentavano di riempirsi senza riuscire a muoversi, il sangue, diventato lento, rallentava come un’onda che si fosse progressivamente cristallizzata.

    George si voltò per parlare, ma non vide Hilbert. Guardò incredulo verso la camera dell'esperimento: gli occhi sbarrati gli rendevano un'immagine a cui non voleva credere. Si precipitò verso la parete, appoggiò le palme delle mani contro la larga finestra; il naso si schiacciò deformandosi, la bocca si spalancò per urlare, ma Hilbert non udì quel suono muto.

    Per i corridoi dell'istituto iniziò a rimbalzare l'eco dell'allarme tra le perplessità dei ricercatori. Il nocciolo di LAP rientrò nella sede di piombo spessa diversi centimetri e immerso in un bagno di boro. Hilbert non si mosse; le mani bianche aggrappate alle guance avevano i tendini tesi dallo sforzo fino quasi a strapparsi.

    – Hilbert, che cazzo hai fatto? – George lo afferrò per la camicia e lo scosse con violenza, in preda a una crisi isterica. – Non hai visto la luce rossa. Perché non sei uscito? Perché cazzo non sei uscito? Idiota, pazzo… Rispondi… Come stai? Rispondi!

    E Hilbert si scosse, riprese vita attraverso un fremito che gli percorse tutto il corpo, gli occhiali caddero a terra con un rumore di vetri infranti.

    * * *

    TV, voce di donna, tono anonimo, suadente.

    – La stabilità, solo la stabilità. Il bisogno primo e ultimo. Da questa dipende ogni altra cosa.

    * * *

    Un altro luogo, uno strano luogo

    Stava camminando. I passi si susseguivano con la regolarità abituale, senza avere alcuna idea sulla direzione, o sulla ragione del movimento. Le scarpe marroni calpestavano ora un ciuffo d'erba gialla, ora una zolla smossa, oppure entravano decise in una pozzanghera provocando una pioggia di fango denso. Hilbert continuò a osservare attentamente il procedere dei propri passi fino a quando la mente non gli si schiarì a sufficienza da chiedersi dove si trovasse. Solo allora alzò lo sguardo da terra. Un leggero senso di nausea accompagnò il movimento del collo.

    Incontrò un cielo azzurro e denso, stormi di nuvole grigie e sparse, cariche di pioggia, si accalcavano all'orizzonte; lontano, i contorni nebulosi e indistinti di una catena montuosa delimitavano l'universo. Era all'aperto.

    Era trascorso molto tempo dall'ultima volta che si era trovato all'aperto, da quando era stato abbacinato dal sole, aveva assaggiato la pioggia, sfidato la notte. Era giovane, e Kumaj era con lui. Dopo quell’episodio era sempre rimasto in città, dove la notte giungeva solo negli appartamenti, all'ora voluta, sotto la cupola onnipresente, in quel budello materno e caldo, dove il tempo è lento e oscilla come la marea. L'esterno, lo spazio al di fuori della cupola, era qualcosa di rimosso. Tutti ne erano a conoscenza, ma nessuno sembrava provare alcun desiderio il desiderio di uscire. La volta che decise di recarsi fuori, quell'unica volta, lo fece per bravata, spinto da Kumaj.

    Continuò a camminare, forse più felice di quanto non fosse stupito, senza chiedersi compiutamente come facesse a trovarsi in quel luogo, e forse aveva inconsciamente paura di

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