Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Fanta-Scienza
Fanta-Scienza
Fanta-Scienza
E-book346 pagine5 ore

Fanta-Scienza

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Fantascienza - racconti (283 pagine) - Quando la fantascienza insegue la scienza. Nove racconti liberamente ispirati da colloqui con ricercatori dell’Istituto Italiano di Tecnologia.


“Fantascienza” è una parola composta. Qual è la parte più importante, “Fanta” o “Scienza”? Noi pensiamo che i migliori racconti nascano da un perfetto equilibrio tra queste due componenti, come un albero che per crescere bene deve avere le radici ben piantate in un solido terreno scientifico, ma il cui fusto deve potersi espandere senza costrizioni nel libero spazio della fantasia. Per questa antologia abbiamo preparato il “terreno” chiedendo a otto ricercatori di punta dell’Istituto Italiano di Tecnologia di raccontarci gli sviluppi che cambieranno il futuro nel loro campo di specializzazione. Poi lo abbiamo “seminato” chiedendo a otto scrittori di fantascienza (più uno) di lasciarsi ispirare dalle descrizioni degli scienziati. Il risultato sono nove racconti che spaziano dalla robotica alla genetica, dalla medicina alla scienza dei materiali, dalla nanotecnologia alla microscopia, dalla tecnologia indossabile a quella bioispirata. Visioni del futuro sorprendenti eppure plausibili, come deve essere la vera fantascienza.

Racconti di Paolo Aresi, Serena Barbacetto, Franci Conforti, Alessandro Forlani, Lukha B. Kremo, Marco Passarello, Piero Schiavo Campo, Alessandro Vietti, Andrea Viscusi.

Prefazione di Roberto Cingolani.


Marco Passarello vive e lavora a Bolzano come redattore della tgr rai. Si è laureato in ingegneria aeronautica al Politecnico di Milano con una tesi sui satelliti a filo. È stato redattore delle riviste di informatica Computer Idea e ComputerBild, e ha a lungo collaborato col settimanale scientifico Nòva 24 de Il Sole – 24 Ore. Ha curato una rubrica di fantascienza per il mensile XL, e si è occupato di musica e libri per Rolling Stone e Repubblica Sera. Collabora da tempo con la rivista Urania Mondadori. Insieme alla moglie Silvia Castoldi ha tradotto diversi romanzi, tra cui la serie Virga di Karl Schroeder per i tipi di Zona 42. Ha pubblicato numerosi racconti di fantascienza su riviste, fanzine e antologie.

LinguaItaliano
Data di uscita22 ott 2019
ISBN9788825410044
Fanta-Scienza

Leggi altro di Marco Passarello

Correlato a Fanta-Scienza

Ebook correlati

Fantascienza per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Fanta-Scienza

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Fanta-Scienza - Marco Passarello

    9788865309506

    A Giuseppe Lippi

    Prefazione

    Roberto Cingolani

    Prima o poi l’umanità cercherà nuovi spazi fuori dei confini planetari e per questo avrà bisogno di una nuova generazione di tecnologie che consentano il viaggio e il sostentamento della vita nelle condizioni estreme dello spazio: bassissime temperature, vuoto spinto, assoluta necessità di autosufficienza energetica e chimica. Immaginare questo futuro è difficile, ma è sempre stato così. Basta pensare a quando le caravelle di Cristoforo Colombo intrapresero viaggi lunghissimi senza frigoriferi per gli alimenti e dovettero sviluppare tecnologie per garantire la conservazione dei cibi. Nacquero le gelatine animali e tecniche di conservazione che oggi ritroviamo in un piatto tipico della cucina genovese: il Cappon Magro. Proprio da Genova parte questo viaggio nelle idee di futuro, chiacchierando con i ricercatori di IIT. È interessante vedere come il confine fra scienza e fantascienza, o se preferite fra presente e futuro, sia spesso molto sottile. Molto di quello che facciamo oggi è certamente necessario al nostro domani, e la capacità di sognare e pensare lontano è il motore della curiosità e dello sviluppo.

    Leggendo le interviste ai ricercatori si coglie sempre una nota di sogno unita ad una solida base di realismo. Forse è per questo che la fantascienza di oggi spesso diventa la scienza di domani. Ed è per questo che non si deve smettere di sognare e di immaginare, anche se si è in possesso di una solida e rocciosa cultura scientifica. Sogno e realtà devono essere sinergici, perché non ci sarebbe progresso se non cercassimo costantemente di superare i nostri sogni.

    Eppure, persino quando sogno e realtà coesistono, si può spostare l’asticella oltre. Molta della fantascienza che leggiamo è pensata intorno a un ambiente umano che prolunga ciò a cui siamo abituati. Ma in una società del futuro che viaggerà nello spazio in un vettore chiuso, non avendo a disposizione ospedali, stazioni di servizio e negozi per acquistare pezzi di ricambio, sarà richiesta autosufficienza assoluta. Se in futuro l’uomo si spingerà oltre i confini planetari quali tecnologie lo accompagneranno nell’impresa?

    E se il sogno migliore che si può fare è sognare di sognare, allora gli scienziati hanno il dovere di pensare ad un futuro che sia totalmente diverso. Gli umani continueranno ad avere un corpo? Il tempo diventerà una variabile dipendente, per cui avremo il salotto in un’era e la camera da letto in un’altra, o amici e amiche che vivono in tempi diversi? Se viaggeremo in un multiverso complesso invece che nel nostro universo, la morte avrà ancora lo stesso significato?

    Domande folli ma profonde, a cui anche il solido scienziato con i piedi ancorati per terra non sa rispondere. Ma non è un motivo per non pensarci, per non sognare e per non immaginare una scienza che sulle ali della fantasia possa andare sempre oltre. Buona lettura.

    Introduzione

    Marco Passarello

    L’idea di questa antologia ha cominciato a formarsi nella mia testa nel 2014, quando il quotidiano online Repubblica Sera mi chiese di scrivere un articolo sul tema: La fantascienza di oggi è troppo pessimista?. Lo spunto veniva dalla pubblicazione negli USA dell’antologia Hieroglyph, sottotitolata storie e visioni per un futuro migliore, contenente racconti di alcuni dei maggiori scrittori di fantascienza contemporanei, tutti direttamente ispirati a futuri scenari tecnologici immaginati dai ricercatori dell’università dell’Arizona. Secondo lo scrittore Neal Stephenson, ideatore dell’iniziativa, l’antologia, consapevolmente nostalgica del pratico tecno-ottimismo degli anni Cinquanta, doveva opporsi allo spirito pessimista prevalente nella fantascienza degli ultimi decenni. Il titolo Hieroglyph deriva dalla cosiddetta teoria del geroglifico, che in un articolo Stephenson descrive così:

    La buona fantascienza fornisce un’immagine plausibile e accuratamente rifinita di una realtà alternativa in cui ha avuto luogo una qualche convincente innovazione. Un buon universo fantascientifico ha una coerenza e una logica interna che ha senso per scienziati e ingegneri. Tra gli esempi ci sono i robot di Isaac Asimov, le navi spaziali di Robert Heinlein e il ciberspazio di William Gibson. Per dirla con le parole di Jim Karkanias di Microsoft Research, idee simili fungono da geroglifici: simboli semplici e riconoscibili sul cui significato tutti concordano.

    Per Stephenson, quindi, uno dei compiti della fantascienza, se non il principale, è quello di sviluppare un immaginario tecnologico che funga da ispirazione per coloro che poi effettivamente lo realizzeranno in pratica. Lo scrittore statunitense si spinge oltre, arrivando a sostenere che il prevalere della distopia nella fantascienza contemporanea sia uno dei motivi per cui la nostra società non riesce ad affrontare i grandi problemi: ci avrebbe privato della capacità di immaginare un futuro radicalmente diverso dal presente, precipitandoci nella stagnazione e rendendoci inabili ad assumerci dei rischi e a guardare al di là dell’immediato.

    Le idee di Stephenson, seppure suggestive, si prestano a facili confutazioni. Basti prendere in considerazione uno degli esempi da lui citati, il ciberspazio immaginato da William Gibson. Si tratta probabilmente del caso più eclatante di fantascienza la cui potenza evocativa è stata il catalizzatore di un esaltante sviluppo tecnologico, con invenzioni narrative che nel giro di pochi anni si sono tradotte in realtà e hanno finito per esserne in parte persino superate (Gibson ha immaginato la realtà virtuale e un mondo iperconnesso, ma non gli smartphone…); ma si tratta anche di universo integralmente distopico, in cui la tecnologia non solo non ha migliorato la vita per l’umanità nel suo complesso, ma ha inasprito le differenze e la sopraffazione. Difficile, quindi, considerarlo come una prova della necessità di un atteggiamento tecno-ottimista per fornire modelli alla tecnologia del futuro.

    Più in generale, l’obiezione che muoverei a Stephenson è quella di aver invertito l’ordine dei fattori. Invece di ritenere che il prevalere della distopia nella fantascienza abbia contribuito a causare l’attuale sfiducia nella tecnologia, trovo molto più logico pensare che sia avvenuto il contrario, e che la fantascienza di oggi si limiti a riflettere ciò che abbiamo imparato dalla realtà a nostre spese. I nodi dell’ottimismo anni Cinquanta di cui l’autore è nostalgico sono venuti al pettine mostrandone tutti i limiti. Oggi sappiamo, o dovremmo sapere, che non è ragionevole aspettarsi che una nuova tecnologia possa, di per sé, risolvere più problemi di quanti ne crea. L’ultimo mezzo secolo di progresso ha modificato profondamente la società e ha fatto uscire molte popolazioni dall’assoluta povertà, ma ha anche contribuito a inasprire le disuguaglianze e a creare una crisi ecologica senza precedenti. Difficile perciò continuare a credere in una versione aggiornata dell’immaginario che la fantascienza ha prodotto nella sua Età dell’oro (quello che proprio William Gibson demoliva sarcasticamente nel racconto Il continuum di Gernsback). Un racconto di fantascienza oggi, a mio avviso, non può che affrontare scienza e tecnologia in modo problematico, senza pregiudizi negativi ma anche senza facili ottimismi.

    Pur non condividendo, per i motivi sopra detti, la posizione di Stephenson, l’idea di un’antologia di fantascienza i cui racconti fossero ispirati direttamente da ricerche scientifiche contemporanee mi sembrò comunque molto promettente. Ritengo che tra le funzioni di questo genere narrativo ci sia anche quella di far entrare nel dibattito culturale concetti scientifici e tecnologici che altrimenti sfuggirebbero all’attenzione dei non esperti. Una funzione che avevano ben presente due dei massimi scrittori italiani del Novecento, Italo Calvino e Primo Levi, ma che oggi risulta spesso trascurata nell’ambito di una fantascienza che spesso preferisce concentrarsi su topoi consolidati e contaminazioni di sapore fantasy o weird, lasciando l’autentica scienza ai margini.

    Esiste, è vero, la cosiddetta hard SF, la fantascienza tecnologica dura strettamente legata alla scienza. Ma si tratta di una nicchia nella nicchia, non di rado accusata di tenere lontani i lettori per la sua difficile comprensibilità, e che soprattutto corre il rischio di trasformarsi in un’arida esposizione in cui la narrativa diventa solo un pretesto per comunicare contenuti scientifici. Si espone cioè a una critica come quella che Fabio Deotto muove proprio a Hieroglyph:

    …la cornice scientifica era talmente spessa da oscurare la storia, e i continui riferimenti agli studi consultati, invece di rendere il racconto più credibile, avevano il sapore di excusationes non petitae che ottenevano l’effetto opposto.

    D’altra parte, la fantascienza viene sempre più spesso riconosciuta come un valido contributo al dibattito scientifico, e lo testimoniano le numerose pubblicazioni recenti che uniscono scienza e fantascienza, affiancando racconti ad articoli e saggi. Oltre alla già citata Hieroglyph, ci sono state per esempio Beta Life – Short Stories from an A-life future, antologia di racconti commentati da scienziati che si definisce di science-into-fiction; oppure Coming Soon Enough – Six tales of technology’s future, antologia fantascientifica allegata a IEEE Spectrum, serissimo organo dell’associazione statunitense degli ingegneri elettrici ed elettronici; per non parlare di Arc, rivista di narrativa di anticipazione che per un anno ha affiancato la prestigiosa rivista britannica di divulgazione scientifica New Scientist. Anche in Italia, mentre già lavoravo a questa antologia, per i tipi di Future Fiction è apparsa Antropocene – L’umanità come forza geologica, che affianca saggi e racconti di fantascienza climatologica. Mi parve, quindi, che esistesse lo spazio per promuovere un testo che facesse incontrare scienziati e scrittori.

    Per farlo serviva innanzitutto una fonte da cui attingere a spunti scientifici, e qui mi venne in soccorso una conversazione avuta con il direttore dell’Istituto Italiano di Tecnologia, Roberto Cingolani, all’inizio del 2013. Avevo ricevuto da Nòva 24 l’incarico di intervistarlo sul tema della tecnologia bioispirata. Quella che sarebbe dovuta essere una breve intervista divenne invece una delle più interessanti conversazioni che mi sono capitate nel corso della mia carriera di giornalista: per spiegarmi i possibili sviluppi della robotica bioispirata, Cingolani mi descrisse le sue articolate visoni di futuri tecnologici, citando anche Iain M. Banks e altri autori di fantascienza, e dimostrandomi di tenere il genere in elevata considerazione. Mi venne perciò spontaneo rivolgermi a lui per verificare la fattibilità della mia idea, e ottenni una risposta superiore a ogni aspettativa: l’Istituto Italiano di Tecnologia mi passò infatti i nominativi di otto dei suoi ricercatori di punta, ognuno disposto a lasciarsi intervistare sul futuro della propria disciplina fornendo spunti da cui trarre un racconto, e anche di discuterne ulteriormente con gli autori che lo avessero desiderato.

    La prima parte del lavoro dietro a questo testo l’ho svolta in solitaria, intervistando ciascuno degli otto ricercatori e trascrivendo il contenuto delle interviste in modo tale che potesse risultare interessante per il lettore medio e anche fungere da spunto per un racconto di fantascienza. Dopodiché si è trattato di trovare otto autori per scrivere i racconti, un compito molto più complicato rispetto a un’antologia normale. Non era infatti possibile procedere come si fa di solito, interpellando un gruppo di scrittori, imponendo un termine per la consegna ed eliminando poi i racconti scadenti e i ritardatari. In questo caso ogni autore si sarebbe occupato di uno spunto differente. Occorreva quindi che per ciascuno degli otto spunti ci fosse un autore disposto a lavorarci sopra e che desse sufficienti garanzie di portare a termine il compito. In caso di fallimento, l’alternativa era buttare via lo spunto, oppure ricominciare da capo con un nuovo autore.

    L’impresa è stata ancora più difficoltosa di quanto immaginassi, a cominciare dal gran numero di risposte negative ricevute dagli autori che ho interpellato. Ho chiesto loro di seguire la propria ispirazione, e di non sentirsi tenuti a scrivere racconti utopici o ad attenersi a un assoluto realismo scientifico. Unico obbligo era che quanto descritto dai ricercatori nelle loro interviste diventasse un elemento centrale del racconto, senza essere troppo rielaborato o modificato. Potrebbe non sembrare una richiesta troppo onerosa, ma in pratica molti, anche tra gli scrittori di maggiore esperienza, si sono tirati indietro, prima o dopo aver letto gli spunti, ritenendo di non poter riuscire a essere creativi con un vincolo così specifico. E c’è stata anche qualche falsa partenza. Il che ha ovviamente allungato i tempi di preparazione dell’antologia.

    Anche trovare qualcuno disposto a pubblicare il testo non è stato facile: si tratta di un oggetto abbastanza insolito, che sfugge alle normali categorizzazioni editoriali, e sono dovuto passare attraverso la frustrante esperienza di ricevere numerosi elogi per l’idea e per la sua realizzazione, ricevendo nel contempo altrettanti rifiuti motivati con l’incompatibilità di questa antologia rispetto a ciò che normalmente viene pubblicato da numerose collane ed editori. Fortunatamente la storia ha un lieto fine, e finalmente l’antologia Fanta – Scienza è arrivata al giudizio dei lettori.

    Un ringraziamento speciale va a Giuseppe Lippi, la persona che più di ogni altra mi ha incoraggiato a partire con questo progetto. Giuseppe è stato un amico per molti anni, e sicuramente senza di lui non sarei mai arrivato ad occuparmi di fantascienza a livello professionale. La sua improvvisa scomparsa è stata una perdita enorme per la fantascienza italiana, per tutto il mondo editoriale, e per me personalmente. A lui è dedicata questa antologia.

    Vorrei inoltre ringraziare Andrea Gentile, Valerio Mattioli, Stefano Milano, Andrea Morstabilini e Giulio Mozzi per avermi dato, in varie fasi del progetto, utili e incoraggianti suggerimenti; gli amici Irida Dushku e Davide Raco per aver letto il testo in anteprima; Claudio Rossetti e Giuliano Greco, che hanno revisionato il testo per conto dell’IIT; e soprattutto mia moglie Silvia Castoldi che mi ha affiancato nell’editing. Oltre ovviamente a tutti gli scrittori che hanno partecipato e a quelli che hanno cortesemente declinato l’offerta.

    E ora la parola a ricercatori e scrittori.

    Marco Passarello

    Robot simili agli esseri umani

    intervista con Francesco Nori

    Francesco Nori è stato team leader presso l’Istituto Italiano di Tecnologia, dove ha lavorato sul robot umanoide iCub per svilupparne le capacità motorie di base e quelle complesse. Attualmente dirige la sezione robotica dell’azienda di intelligenza artificiale DeepMind, controllata da Google.

    Che cos’è il robot iCub, di cui si è occupato?

    È un robot pensato per la ricerca, e in particolare per studiare come progettare robot che siano in grado aiutare in casa. È umanoide, cioè ha le sembianze o quantomeno le fattezze di un uomo, anche se si cerca di non avvicinarsi troppo alle sembianze umane perché essere troppo simili all’uomo è controproducente: non sempre si riesce a evitare un effetto respingente per le persone, quindi si cerca di dargli un aspetto umanoide piuttosto che umano.

    L’idea tecnologica che ho sviluppato è quella di un robot che possa aiutare le persone a fare le cose più disparate, una specie di maggiordomo robotico, ma anche di badante, in grado di aiutare materialmente le persone anziane che hanno problemi fisici. Uno dei temi che ho sviluppato è quello dell’apprendimento: l’idea che il robot non abbia solo capacità preconfezionate, preprogrammate, ma sia in grado di apprenderne di nuove dalle persone. Anche per questo la forma è umanoide: perché gli sia possibile imparare specifiche nuove azioni dall’interazione con le persone, per potergli insegnare a fare qualcosa come si fa con gli esseri umani.

    Oltre all’aspetto, che cosa avvicina iCub agli esseri umani?

    Tra le tecnologie che abbiamo sviluppato per ottenere questo risultato ci sono dei sensori, in particolare una sorta di pelle che consente al robot di percepire le forze e interagire con l’ambiente, ma anche con le persone, consentendogli di aiutarle fisicamente. Oltre alla pelle ci sono i classici sensori: di visione, tattili e così via, in modo da avere una somiglianza con l’uomo non solo dal punto di vista dell’apparenza ma anche del modo in cui si può interagire toccandolo. Bisogna renderlo capace di distinguere tra ciò che è morbido e ciò che è rigido, di capire qual è l’intenzione di una persona quando è a contatto. Inoltre l’interazione fisica richiede il senso della forza che occorre applicare quando si collabora. Per esempio, quando due persone spostano un palo assieme bisogna avere una percezione di cosa sta facendo l’altra persona, di quale sia l’altra forza in azione. Grazie a questi sensori abbiamo educato il robot a percepire le forze che scambia con gli oggetti e con le persone. Ultimamente mi sono occupato di dare al robot un senso dell’equilibrio, cioè di permettergli di rimanere in piedi anche quando una persona lo va a toccare, o tenta di farlo cadere.

    Qual è il futuro di queste tecnologie?

    Per quanto riguarda ciò che avverrà nei prossimi cinque anni, abbiamo avviato un progetto che riguarda la collaborazione uomo-robot. Attualmente i nostri robot sono stati dotati di sensori che permettono loro di essere certificati per lavorare a stretto contatto con le persone all’interno di un ambiente lavorativo comune. Una volta i robot erano obbligati a essere separati da gabbie rispetto allo spazio condiviso dai lavoratori umani. Le nuove tecnologie consentono invece di certificarli per lavorare a contatto con le persone, perché dotati di sensori che li rendono in grado di interagire e fermarsi. Ma per i robot del futuro questo non è sufficiente, noi vorremmo che fossero veramente in grado di collaborare con le persone, di fare le cose insieme, lavorare a stretto contatto, intervenire contemporaneamente sullo stesso pezzo. Per esempio, fabbricando un telefonino, avere un robot che regge la cassa mentre l’operaio inserisce i pezzi. Per fare questo però il robot deve essere in grado di osservare e classificare le azioni di una persona. Deve capire se una persona ha intenzione di cominciare un’interazione del tipo reggimi questo mentre avvito questa vite, o se invece in quel momento la persona non ha interesse alla lavorazione. In poche parole: dobbiamo cercare delle tecnologie che diano ai robot la capacità di anticipare e capire le azioni delle persone (all’inizio solo di capire, e in futuro arrivare ad anticipare almeno di poco). Quando due persone lavorano sullo stesso oggetto, quasi nulla avviene in maniera istantanea. Le persone che lavorano riescono ad anticipare attraverso l’osservazione quale sarà la mossa successiva del partner. Come si fa a dotare i robot della capacità di anticipare le persone? Noi otteniamo questo risultato dotando le persone di sensori, braccialetti simili a smartwatch che monitorano il loro movimento. In questo modo il robot può avere una chiara percezione del movimento delle persone nello spazio e arrivare ad anticipare quali saranno le loro azioni successive.

    I robot dovranno convivere non solo con operai, ma anche con anziani e disabili…

    Una delle tecnologie per cui questo concetto dell’anticipazione darà fondamentale sarà la creazione di esoscheletri, cioè di armature che andranno a bardare il corpo della persona, per aumentarne le capacità oppure per sostituirle, nel caso per esempio di una persona anziana che non è più in grado di muoversi autonomamente perché i muscoli non hanno più forza. Esoscheletri che siano in grado di aiutare fisicamente le persone dovrebbero essere in grado di assecondarne i movimenti, ma anche di intuire le loro intenzioni, in modo da poter supplire alle loro necessità in caso di una mancanza temporanea, per esempio quella di una persona anziana che ha un momento di debolezza e non riesce ad alzarsi dalla sedia. Esoscheletri di questo tipo potrebbero essere usati non solo per l’assistenza ma anche a livello industriale. In un futuro più lontano possiamo immaginare l’assistenza fisica da parte di umanoidi, robot con la forma di persone che aiuterebbero gli anziani esattamente come ora fa un badante, in modo del tutto trasparente.

    Non c’è il pericolo che i robot lascino gli umani senza lavoro?

    Io penso che i robot siano destinati ad aiutare le persone, invece che a sostituirle, come ultimamente stanno dicendo in molti. C’è da risolvere un problema eminentemente pratico che è l’invecchiamento della popolazione: le persone vanno sempre più avanti con gli anni, mantenendo intatte le capacità mentali per lavorare, ma al tempo stesso con il moltiplicarsi di piccoli inconvenienti fisici, per infortuni, malattie o invecchiamento. Non ci sarà forza lavoro umana sufficiente perché tutti questi anziani possano essere assistiti da persone. Quindi la robotica della prossima generazione sarà di aiuto o di supporto, più che di sostituzione. Bisogna evitare che le macchine sostituiscano l’uomo nel lavoro, mentre saranno fondamentali perché le persone possano trovare aiuto.

    Piccolo corteo di anime inventate

    racconto di Alessandro Vietti

    Se dunque il spirto, la anima, la vita si ritrova in tutte le cose e, secondo certi gradi, empie tutta la materia; viene certamente ad essere il vero atto e la vera forma de tutte le cose.

    Giordano Bruno

    Io, scatola

    … che poi anche una bara in fin dei conti lo è. Capisco che questa cosa possa anche non piacerti (a me non fa né caldo, né freddo), ma come negare che sia così? Che siamo fatte per custodire un mistero da svelare (una sorpresa), o per celare in eterno qualcosa che il mondo non deve vedere mai più (un cadavere), siamo pur sempre scatole. Nella fattispecie devo ammettere che però io sono una strana via di mezzo e non ho parlato di bara così, tanto per fare effetto. Perché la mia forma è quella, e non credo di sopravvalutarti se penso che tu abbia presente cosa intendo, anche se non sei abbastanza facoltoso per aver mai visto una confezione come la mia, davanti alla quale adesso stanno impalati questi due umani (un adulto in divisa e un ragazzino dallo sguardo strano), attoniti come può esserlo chi si ritrova di fronte a quella che sembra una bara, ma non lo è, anzi che è addirittura a qualcosa di più simile all’opposto di una bara, come il ventre di una madre, un’incubatrice, una portatrice di vita, o di qualcosa che la simula. Peraltro in questa casa io, ovviamente, ci sono entrata piena e ci uscirò vuota, mentre per le bare succede il contrario. E anche in questo caso l’opposto ha un suo senso. Vedi che alla fine tutto torna? Quindi, insomma, mi trovo qui, in questo soggiorno pieno di luci, di superfici brillanti, di bianchi e metalli, schermi pellicolari e tappeti (persiani?), poltrone vintage e diplomi al valore militare, oggetto di una Consegna Premium®, mentre i due umani cercano di andare oltre il classico momento di sorpresa. Dei due è solo l’adulto a muoversi, adesso. Normalmente in questi casi c’è entusiasmo, fervore e felicità, soprattutto proprio da parte dei ragazzini. Invece questo qui mi fissa immobile, le braccia conserte che stringono il collo di quello che sembra un orsetto, il viso scolpito in una strana espressione vuota, oppure troppo piena. La logica anagrafica vuole che siano padre e figlio e non c’è motivo per non darle credito. L’adulto in divisa un po’ di entusiasmo lo dimostra da come mi gira intorno (e da come gli rimbalza la pistola sulla coscia), come nella scadente simulazione di una danza tribale, ma da come mi guarda e mi sfiora forse dovrei parlare più che altro di eccitazione.

    – Sarebbe questo il robot per la nonna? – ha esordito il ragazzino, ma senza muoversi. Si riferisce a me?

    L’uomo impreca. – Elia, sei idiota o cosa?! Questa è la scatola. Il robot è dentro.

    Il ragazzino non fa una piega. – Alla nonna non piacerà.

    – Alla nonna non piace nessuno.

    – Perché non lo apri?

    – Ricordati che non è un giocat…

    – Che aspetti?

    – Calmati! Prima bisogna controllare che sia tutto in ordine.

    Se è solo per questo potete anche scansionare la retina sulla ricevuta: non sono ammaccata e i sigilli olografici sono integri. Sono stata fortunata. Il più delle volte i corrieri se ne sbattono della scritta fragile tatuata un po’ ovunque, perché non si riferisce a me, ovviamente. Ma c’è da dire anche che siamo preparate a esistere (solo) in funzione di qualcos’altro, essere non soltanto sacrificabili, ma anche ammaccabili. È il modo (unico) che abbiamo per giustificare la nostra presenza, il nostro costo.

    – Per aprirla è meglio se la mettiamo orizzontale.

    Il ragazzino non si muove, come incantato o perso in qualche labirinto mentale tutto privato.

    – Elia, ehi, sveglia! Non volevi che la aprissi? Forza, tienila sotto, così io la inclino e la metto sul tappeto.

    Ci sono pure le scatole che se la tirano, tipo quelle dei prodotti Peach™. Cantano come sirene e si fanno chiamare package. Non sembra patetico anche a te? Se nasci bidone dell’immondizia, non è che puoi finire a fare il portagioie. Perché lo sappiamo tutte che alla fine della favola è il contenuto che ci qualifica. L’ho già detto? Perdonami. È che è un po’ il nostro chiodo fisso e se fossi al nostro posto, capiresti. Perché più noi siamo belle, più quello che sta dentro di noi è prezioso e più il divario tra contenitore e contenuto aumenta e, nonostante tutto, la nostra importanza diminuisce. Il contrario accade a poche, pochissime fortunate. Quindi alla fine pensi sia davvero tanto più desiderabile fare il portagioie, piuttosto che il bidone dell’immondizia?

    Io, tablet

    … sono uno che ha bisogno d’azione e questo limbo, scarico e buio, non fa per me.

    – Adesso prendila dalla tua parte e solleviamola insieme.

    Come un biglietto da visita, io sono la prima cosa che il Cliente vede una volta rimosso il coperchio (e sia la luce!), incastonato nel polistirolo come certi preziosi amuleti ritrovati al collo delle mummie.

    – Un tablet?

    – Per le istruzioni, le configurazioni e i controlli manuali.

    – Non bastava un’app?

    – Quest’aggeggio è un bel po’ più sofisticato di un’app.

    Quando (finalmente!) il tizio mi accende, una ventata di calore irradia la mia cristallina trasparenza, come tornare alla luce dopo secoli di sepoltura. Fa sempre un bell’effetto ricollegarsi a un Wi-Fi, come riprendere fiato dopo un’apnea abissale, scaldandosi poi nelle routine di avvio automatico con la Clip di Benvenuto, i Complimenti per l’Acquisto, il Profilo Aziendale, fino a Inserisci i Dati di Registrazione e il Numero di Licenza, che, come da istruzioni, l’adulto [Nome: > Ivan Reventlov, nato a: > Milano, il: > 21, 12, 2037…] recita e conferma, diventando così ufficialmente Ivan-il-Proprietario. Posso così cominciare il rito di cui

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1