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Imperi e barbari
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E-book321 pagine4 ore

Imperi e barbari

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Storia - saggio (302 pagine) - Dove c'erano gli Imperi c'erano i barbari, per definizione i selvaggi al di là del confine, al di fuori dalla civiltà e dalla pace salvaguardate dal potere militare.


Che cosa mai possono avere in comune lo storico tardo antico Paolo Orosio e il presidente USA Theodore Roosevelt? A prima vista saremmo portati a dire poco o nulla dato l'abisso spazio-temporale che li separa, c'è però un elemento concreto che li avvicina. Entrambi ebbero a che fare con popolazioni che ritenevano essere barbare, tutti e due giudicavano la scomparsa di creature del genere solo come auspicabile. A conti fatti imperi e barbari nascono assieme, le difese degli organismi statali dell'antichità e del medioevo servono a separare lo spazio civilizzato dal vasto mondo esterno, creando la categoria dei barbari (nomadi o seminomadi) in contrapposizione a quella degli agricoltori sedentari. Vengono costruite delle difese, come il limes romano, che servono tanto a mantenere i contadini al loro posto che a difenderli dalle incursioni dei predoni d'oltreconfine. Eppure gli imperi pre-industriali, compresi quelli nati nel corso dell'evo moderno dopo la diffusione delle armi di fuoco, erano sostanzialmente degli organismi tolleranti, essendo costituiti in partenza dall'unione di comunità differenti per etnia, lingua e religione. Al contrario furono il nazionalismo, l'imperialismo e il colonialismo a scatenare tremendi conflitti, generando  un nuovo tipo di intolleranza e un tipo di barbarie come non si erano mai visti prima al mondo. Perché, nonostante la presunzione che possano avere gli abitanti dei paesi industrializzati riguardo al loro elevato grado di civiltà, anch'essi sino a ieri non erano nient'altro che barbari.


Claudio Cordella è nato a Milano il 13 luglio del 1974. Si è trasferito a Padova dove si è laureato in Filosofia, con una tesi dedicata all'utopismo di Aldous Huxley, e in seguito in Storia, con un lavoro imperniato sulla regalità femminile in età carolingia. Nel 2009 ha conseguito un master in Conservazione, gestione e valorizzazione del patrimonio industriale dopo aver svolto uno studio incentrato su di un canapificio storico; situato a Crocetta del Montello (Treviso), compiuto assieme a Carmelina Amico.

Scrive narrativa e saggistica; ha partecipato a diversi progetti antologici e ha collaborato con alcune riviste. È stato il vice direttore del web magazine Fantasy Planet (La Corte Editore). Nel 2012 ha partecipato all'ottavo Congreso Internacional de Molinologia, che si è svolto a Tui (Galizia), con un intervento intitolato Il mulino di Villa Bozza, la conservazione possibile, attraverso un progetto imprenditoriale, dedicato alla storia di un mulino padovano e scritto in collaborazione con Camilla Di Mauro.

Recentemente, per LA CASE books, è uscito Fantabiologia. Dai mondi perduti a Prometheus, un saggio di storia della cultura popolare da Jules Verne a Sir Ridley Scott.

LinguaItaliano
Data di uscita24 nov 2020
ISBN9788825413915
Imperi e barbari

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    Anteprima del libro

    Imperi e barbari - Claudio Cordella

    9788825412178

    La fine dell'impero romano, qui contemplata, non fu un ininterrotto declino che portò all'inevitabile rovina, bensì una storia lunga, tortuosa e circostanziale, in cui un'organizzazione politica resiliente reagì e si riorganizzò, fino al crollo definitivo, prima a occidente e poi a oriente.

    Kyle Harper, The Fate of Rome. Climate, Disease, and the End of An Empire, 2017; tr. it. Il destino di Roma. Clima, epidemie e la fine di un impero, Torino 2019, p. 27

    Per i Cinesi come per i Romani, i barbari e le tribù iniziavano precisamente dove le tasse e la sovranità si fermavano. Quindi cerchiamo di capire che da qui in avanti uso il termine barbari solo come un'ironica abbreviazione di popoli non statali.

    James C. Scott, Against the Grain. A Deep History of the Earliest States, 2017; tr. it. Le origini della civiltà. Una controstoria, Torino 2018, p. 183

    Gli imperi non hanno tutti lo stesso destino. Gli studi moderni sui crolli e le trasformazioni non sono riusciti a individuare una teoria univoca che spieghi la decadenza di un impero, limitandosi a offrire una gamma di possibili alternative dell'evento catastrofico. Forse la cosa non deve sorprenderci. Gli imperi – persino i più antichi – erano macchine estremamente complesse, con molti meccanismi che potevano rivelarsi difettosi.

    Greg Woolf, Rome. An Empire's Story, 2012; tr. it. Roma. Storia di un impero, Torino 2014, p. 291

    1. Introduzione

    Che cosa mai possono avere in comune lo storico Paolo Orosio (375-420) e il presidente USA Theodore Teddy Roosevelt (1858-1919)? A prima vista saremmo portati a dire poco o nulla dato l'abisso spazio-temporale che li separa, c'è però un elemento concreto che li avvicina nonostante l'appartenenza a mondi altrimenti così diversi tra loro. Entrambi ebbero a che fare con popolazioni che ritenevano essere barbare e selvagge, tutti e due giudicavano la scomparsa di creature del genere solo come auspicabile. Provare pietà per chi si riteneva essere il nemico per eccellenza della civiltà non era contemplata né da Orosio, un ecclesiastico intollerante quanto fanatico, né dal baffuto Teddy, un fervente sostenitore dell'imperialismo statunitense (visto come una forza civilizzatrice con il compito di cancellare la barbarie dei selvaggi). Al contempo si è spesso sostenuto che l'Impero romano sia stato assassinato, ucciso a sangue freddo da feroci guerrieri appena sbucati dalle selve. Mettendo per un momento da parte il cosiddetto impero americano, è una teoria abbastanza comune quella che punta l'indice verso quelle che un tempo venivano chiamate invasioni germaniche, additandole come principali responsabili della fine di Roma. Eppure, anche se ancor oggi quest'impianto teorico ha i suoi sostenitori, non possiamo certo dire che vada per la maggiore all'interno della comunità degli storici. Il dibattito sotto molti aspetti è ancora aperto ma è interessante notare come ormai siano emerse diverse chiavi interpretative. Tanto per cominciare quando nel 476 Odoacre depose l'imperatore-fanciullo Romolo Augustolo (piccolo Augusto) non solo l'impero era da tempo stabilmente suddiviso in due parti, una occidentale (pars Occidentis) e l'altra orientale (pars Orientis), ma la prima, sulla quale regnava formalmente il giovane, era già stata ridotta all'ombra di se stessa. Roma, seppur ospitava ancora il Senato, non era più da tempo la capitale ed era già stata saccheggiata tre volte, l'imperatore ormai d'abitudine risiedeva a Ravenna. Milano, la precedente sede della corte, era stata abbandonata per ragioni strategiche in favore di una città più facilmente difendibile. Purtroppo, nel corso degli anni '70 del V secolo, il governo centrale ravennate esercitava una sovranità solo nominale sulla maggior parte delle province. Se dapprima si erano create delle regioni semi-autonome a guida germanica, come in Tracia in Oriente dopo la disfatta della battaglia di Adrianopoli nel 378, in seguito fu l'Occidente ad avere a che fare con simili enclavi. Successivamente infatti non fu la corte di Costantinopoli (costretta a fare concessioni ai Goti che avevano varcato il Danubio per tenerli buoni) ma fu quella di Ravenna che si ritrovò nella spiacevole situazione di doversi confrontare con dei regni sorti all'interno delle province occidentali. Il problema assunse ben presto dimensioni tali da non poter più essere arginato, a quel punto la presenza imperiale in Occidente finì con l'essere circoscritta alla penisola italiana e ad alcuni lacerti di romanità, sparsi qui e là nel continente senza alcuna soluzione di continuità. Ma davvero dobbiamo incolpare di questo sfacelo unicamente i nuovi venuti da oltreconfine? Non dobbiamo dimenticarci di come alcuni alti ufficiali romani opportunisti, come il comes Marcellino in Dalmazia e il magister militum Egidio in Gallia, si comportarono di fatto come dei signori della guerra, dei warlords, indipendenti. Il figlio di Egidio, Siagrio, passò alla storia come re dei Romani (Siacrius Romanorum rex) in quanto reggitore del Regno di Soissons (così chiamato perché in quella città, apud civitatem Sexonas, aveva la sua capitale). Il suo dominio cessò di esistere non nel 476 ma ben un decennio dopo, quando venne sconfitto in battaglia dal re dei Franchi Clodoveo I. A quel punto Siagrio cercò rifugio presso i Visigoti che però, non volendo scontrarsi con i Franchi per causa sua, lo consegnarono ai suoi nemici quando ne richiesero la restituzione per poi poterlo giustiziare:

    […] durante il quinto anno del suo regno, Siagrio, re dei Romani e figlio di Egidio, stabiliva la sua dimora presso la città di Soissons, che un tempo abbiamo visto era stata occupata anche da Egidio. Così Clodoveo, insieme con Ragnacario, suo parente, poiché anch'egli teneva il regno, marciò contro di quello e gli mandò a dire di preparare il campo di battaglia. Siagrio non si piegò né ebbe paura di resistergli. Così vennero a guerra fra loro e Siagrio, vedendo l'esercito in rotta, volse le spalle e si rifugiò velocemente presso il re Alarico, a Tolosa. Clodoveo manda i messi ad Alarico, perché gli sia consegnato il fuggiasco; altrimenti il re goto avrebbe saputo che gli sarebbe stata dichiarata guerra a causa del suo rifiuto.

    Gregorio di Tours, La storia dei Franchi (Libri I-V), a cura di Massimo Oldoni, vol. 1, Milano 1981, II, 27, p. 161

    La presenza di tutti questi signorotti, in diretta competizione con i capi germanici, era una spia d'allarme che segnalava la presenza di mali antichi della romanità ormai diventati endemici e che non erano certo stati creati dalla venuta di genti trans-renane o trans-danubiane. Il loro arrivo semmai aveva funzionato da accelerante, la classica benzina sul fuoco per intenderci, ma certi processi avevano già avuto inizio all'interno del mondo romano ben prima della comparsa delle proverbiali orde nordiche della tradizione. Il succedersi delle guerre civili, assieme ad un potere militare fuori controllo, erano lasciti ben precisi delle guerre civili dell'età repubblicana, laddove condottieri di successo combattevano tra loro per la supremazia; basti pensare alle contese che contrapposero dapprima Silla e Mario, oppure Cesare e Pompeo. Alla fine Ottaviano, nipote e figlio adottivo di Cesare, si erse su tutti gli altri leader militari dando vita all'impero ma questa pacificazione dal sapore paternalistico e autoritario non sarebbe durata in eterno. La vita imperiale non tardò ad essere pesantemente influenzata dall'esercito, tanto che alla fine nel corso del III secolo si ebbe un lungo periodo di anarchia militare e di frammentazione che durò un trentennio. Nel corso di quest'epoca di caos si manifestarono tutte le spinte centrifughe esistenti tra Oriente e Occidente, con una netta (seppur per il momento limitata nel tempo) separazione tra le due metà dell'impero, per non parlare di ulteriori frammentazioni (con tanto di nascita di un Impero delle Gallie):

    […] l'accresciuta militarizzazione dell'Impero, che si accompagnò alla barbarizzazione dell'esercito e delle élite che lo comandavano. Essa fu ben presto attratta dalla carriera offerta dal servizio imperiale, sia nell'esercito, sia a corte o nell'amministrazione delle province imperiale. […] la res publica Romana era diventata una monarchia, o piuttosto una monarchia militare, che per molti versi ricordava le monarchie ellenistiche alle quali si era ispirata per molti aspetti esteriori di una corte orientalizzata. Dal secolo III al V, la vita politica e sociale dell'Impero si trasformò profondamente a seguito delle riforme militari, e poi di quelle amministrative […]. Tali riforme videro la luce in un'epoca di ferro, dopo i disastri causati nel secolo III da attacchi esterni, dopo una crisi economica e dopo i danni provocati da una soldataglia che si divertiva a massacrare gli imperatori subito dopo averli eletti

    Karl Ferdinand Werner, Naissance de la noblesse. L’essor des élites politiques en Europe, 1998; tr. it. Nascita della nobiltà. Lo sviluppo delle élite politiche in Europa, Torino 2000, p. 170

    Clodoveo e Siagrio (al di là del loro gruppo etnico di appartenenza) erano entrambi il frutto di questi processi, il loro agire in piena autonomia indicava la misura del collasso dell'autorità centrale ma niente ci autorizza a parlare di un'apocalisse provocata unicamente da invasori barbari. Sbaglieremmo ad immaginarci i Romani come dei pacifici intellettuali, riuniti a simposio a parlare di filosofia (oppure distratti da qualche orgia decadente a base di sesso e vino), inconsapevoli di ogni cosa mentre dei crudeli barbari distruttori si approssimavano a massacrarli di soppiatto. Non a caso il re dei Romani di Soissons e il sovrano franco molto probabilmente dovevano condividere usi, costumi e simboli di stampo militare (come il segno distintivo del cingulum militiae, il cinturone tipico dei soldati):

    In origine, il cingulum era una cintura destinata a portare le armi, e permetteva di distinguere il soldato (miles), anche disarmato, dai civili (homines inermes). Il soldato che aveva prestato il giuramento militare (sacramentum) doveva portare il cingulum sulla propria tunica militaris; ancora nel 385, chi voleva diventare soldato era chiamato "colui che aspira al giuramento del cingulum. In breve, diventare soldato consisteva nell'essere cinto" (cingi)

    Werner, op. cit., pp. 170-171.

    Entrambi, così dovevano portar il cingulum, conducevano il medesimo gioco dei troni ricorrendo a mezzi analoghi, se l'esito dello scontro tra i due leader avesse avuto un diverso esito, allora sarebbe stato Siagrio ad aver avuto l'onore di fondare una longeva dinastia. Nel mondo tardo antico la carriera militare, sia per i Romani come per i barbari, costituiva un fattore importante di ascesa sociale. L'esercito non stava tanto a guardare al gruppo etnico di appartenenza di chi decideva di imbracciare le armi per servire Roma:

    I soldati, in particolare, erano esplicitamente incoraggiati a formare una classe a parte, in modo che rimanessero estranei e ruvidi. Per di più di un secolo, gli eserciti imperiali erano stati reclutati dalle zone di frontiera, dove Romani e barbari erano largamente indistinguibili. Quello che interessava era la lealtà: una lealtà assoluta allo Stato romano, ben espressa dal solenne giuramento che il soldato prestava all'imperatore, come a dio, presente in carne umana. In quanto viri militares, uomini di guerra, Romani e barbari si incontravano come uguali negli eserciti romani. Erano servitori ugualmente distinti e ugualmente privilegiati di uno Stato potente. Tanto i primi quanto i secondi traevano la loro titolarità alla ricchezza e allo status sociale dal cingulum militiae, la pesante cintura d'oro (spesso prodotta nei laboratori imperiali di Costantinopoli, con uno stile che ricalcava lo splendore barbarico dell'arte dell'Asia centrale e del Danubio) che li distingueva da tutti i civili

    Peter Brown, The Rise of Western Christendom: Triumph and Diversity, A. D. 150-750, 1995; tr. it. La nascita dell'Europa cristiana, Milano 2004, pp. 70-71.

    Una miscela del genere, come si può ben immaginare, era potenzialmente letale, contribuendo al proliferare di capi militari desiderosi di prendere per sé qualche brandello di impero per rafforzare il proprio potere a livello regionale. I responsabili erano parimenti Romani, come Egidio e Siagrio, tanto quanto barbari come Clodoveo (vale a dire Hlodovech, Glorioso guerriero). La tomba del padre di quest'ultimo, Childerico (morto nel 481), venne scoperta a Tournai nel 1653.

    Situata nei pressi di una basilica cristiana, presentava un corredo che faceva pensare sia alla civiltà romana (con un anello con sigillo imperiale con tanto di ritratto e vestiti tipici di un ufficiale) che ai Franchi (come i lunghi capelli tipici della dinastia dei Merovingi, così chiamata dal capostipite leggendario Merovech, Guerriero del mare). Più di recente, nel 1983, si è scoperta nelle vicinanze una fossa ricolma di scheletri di cavalli, gli animali erano stati sacrificati nel corso dei funerali di Childerico. È dunque ragionevole ritenere questi signori della guerra quali membri di una civiltà ibrida, tanto romana che barbara, le cui azioni (sempre più libere e indipendenti) rappresentarono un importante fattore di disgregazione dell'unità imperiale. Nel corso del V secolo il legittimo governo di Ravenna dimostrò di non essere in grado né di porre un freno all'aggressiva politica espansionista dei re barbari più intraprendenti, né alle iniziative autonome dei vari condottieri romani. Alla fine qualsiasi tentativo in merito, tale da ricomporre quel mucchio di cocci che era diventato l'Occidente, divenne impossibile. A tal proposito la Britannia, pur nella sua eccezionalità di caso limite, ci aiuta a comprendere quel che accadde nel corso delle fasi finali della vita della pars Occidentis. Per la difficoltà di organizzare la difesa in una regione così distante dal Mediterraneo, il quale costituiva il cuore dell'impero, già dal principio del V secolo le isole britanniche erano state abbandonate al loro destino. Sappiamo di successive accorate richieste d'aiuto, disperate quanto inutili, che vennero inviate da quel che sopravviveva della civiltà romana urbanizzata verso un governo centrale impotente, concentrato com'era sulla sfida rappresentata da Attila l'Unno. Sfortunatamente la Britannia si era ritrovata stritolata da una spirale negativa, più la pressione barbarica diventava minacciosa più i cittadini romani-bretoni si dimostravano insofferenti. Chiedevano in continuazione un maggior sostegno da parte dei vertici imperiali, senza per questo veder mai esaudite le loro preghiere. A quel punto, sentendosi ignorati, puntualmente si ribellavano e offrivano il loro sostegno a quegli usurpatori (come Costantino III) che al contrario dimostravano di esser ben disposti a dar ascolto alle loro lagnanze, il che contribuì a metter la loro terra in cima ad una lista nera. Per Ravenna, sia dal punto di vista economico che strategico, quelle lande poste nell'estremo nord non tardarono a diventare una fonte di sperpero di denaro e di risorse. Luoghi remoti abitati da ostinati ribelli, per i quali non valeva di certo la pena di sprecare la vita di preziosi soldati che potevano venir utilmente dispiegati altrove; ad esempio lungo la frontiera del fiume Reno. I turbolenti quanto sfortunati romano-bretoni furono lasciati a loro stessi, a norma di legge l'imperatore Onorio concesse alla popolazione civile di armarsi (come se avessero avuto qualche altra scelta), per poi dimenticarsi per sempre della loro esistenza. Dal suo punto di vista si trattava di un successo, tutti i soldati di stanza in Britannia avevano lasciato l'isola, da quel momento in poi non avrebbe più dovuto guardarsi le spalle da pretendenti al trono sostenuti dalle truppe di quella provincia. Inoltre, considerate le infiltrazioni barbariche provenienti dalle regioni trans-renane, il sovrano e la sua corte dovevano aver deciso che quelle forze militari sarebbero state ben più utili nel continente piuttosto che dall'altra parte del canale della Manica. L'usurpatore britanno Costantino III, il quale ci teneva a mostrarsi ligio alla difesa dei confini imperiali, quando sbarcò sul continente riparò e rimise in funzione le difese perimetrali lungo il Reno (danneggiate dopo gli sconfinamenti di massa del 406/07) ma il suo intervento risultò essere tardivo quanto inutile. Alla fine venne sbaragliato dalle forze legittimiste fedeli ad Onorio, il quale aveva rifiutato ogni accordo con lui per una spartizione collegiale del potere. La minaccia rappresentata dai Pitti e dagli Scotti, non più tenuti a bada dalle fortificazioni del Vallo di Adriano eretto a confine con l'odierna Scozia, per non parlare delle incursioni dei pirati Anglosassoni d'oltremare (di entità tale da rendere necessario fortificare le coste in maniera massiccia), si aggiunsero ai problemi preesistenti di una provincia che già si sentiva emarginata dal cuore della romanità (generando di conseguenza malcontento e ribellioni ricorrenti). In poche parole, la cautela imporrebbe una spiegazione complessa che prenda in considerazione una molteplicità di cause differenti e che non si limiti ad addossare tutte le responsabilità a questa o quella confederazione germanica, sia che ci si riferisca alla perdita della Britannia oppure alla dissoluzione dell'Occidente in generale. Lo stesso governo centrale, quantomeno sino agli anni '60 del V secolo, aveva dalla sua parte un cospicuo margine di intervento che sprecò in modo insensato, sino ad arrivare all'inevitabile disastro. Secondo lo storico Peter Heather il possesso dell'Africa settentrionale era vitale, essendo a quel tempo il granaio della pars Occidentis e suo principale motore economico.¹ La sua perdita, a causa dell'arrivo dei Vandali guidati dal re Genserico, divenne un fattore disgregante dell'Occidente di primaria importanza. Tanto che se i Romani avessero conservato il dominio di quelle terre, forse la storia avrebbe intrapreso un cammino diverso da quello a noi noto:

    Facciamo ora un po' di storia basata sui 'se'. Una vittoria schiacciante su Genserico, in sé tutt'altro che inconcepibile, avrebbe prodotto tutta una serie di effetti a catena. Una volta riuniti Italia e Nordafrica, anche la Spagna sarebbe tornata all'ovile […]. A questo punto, quando anche i tributi della Spagna avessero ricominciato ad affluire nelle casse dello stato, si sarebbe potuto avviare un ampio programma di ricostruzione della Gallia romana […]

    The Fall of the Roman Empire, 2005; tr. it. La caduta dell'impero romano. Una nuova storia, Milano 2008, p. 477.

    Sin da principio del V secolo, quando il confine fortificato (limes) del Reno era collassato, in Occidente avevano fatto la loro comparsa numerose enclavi barbariche. In Oriente, Costantinopoli era riuscita a risolvere il problema, rappresentato dalla Tracia in mano alle tribù gote, seppur in gran parte facendo dapprima concessioni e poi finendo addirittura per scaricarlo sulle spalle della sua controparte. L'Augusto occidentale avrebbe potuto benissimo conseguire un risultato similare, a patto però di conservare il possesso delle province africane che gli avrebbero garantito le risorse necessarie per poter organizzare un'eventuale riscossa. Senza di loro le chance di sopravvivenza dell'Occidente divennero pressoché nulle, eppure sino a quel fatidico momento l'esito finale della partita era tutt'altro che scontato. Si pensi a come i convulsi avvenimenti successivi al sacco di Roma del 410, messo a segno dai Visigoti di Alarico, videro quale protagonista di un incredibile riscossa il generale Costanzo. Quest'ultimo sconfisse Costantino III e riuscì a portare a più miti consigli i Visigoti, dai quali si fece restituire Gallia Placidia, la figlia del defunto imperatore Teodosio I che era stata presa in ostaggio. Costanzo, in virtù dei suoi successi, divenne imperatore e gli venne data in sposa la stessa Galla Placidia, che nel corso della sua prigionia era già stata la moglie del re visigoto Ataulfo. Il variegato scenario geopolitico, sin qui sommariamente delineato, presentava senza alcun dubbio delle criticità, ciò nonostante sino a quel momento il destino della romanità non era ancora stato scritto. Eppure tutto questo cambiò drasticamente quando i Vandali oltrepassarono lo stretto di Gibilterra, colpendo la pars Occidentis nel suo cuore pulsante. A conti fatti alle élite al potere erano state offerte numerose chance per poter sopravvivere, ciò nonostante nessuna di queste venne prontamente afferrata al volo da chi aveva la responsabilità delle leve del comando. Persino il sopracitato matrimonio tra Galla Placidia ed Ataulfo, seppur celebrato in condizioni assai critiche, avrebbe offerto diverse opportunità interessanti. La creazione di una dinastia romano-barbarica, imperniata su di una solida alleanza romano-visigota, avrebbe garantito un minimo di ordine e messo al sicuro il cuore della romanitas. Del resto in seguito Costanzo, dopo aver messo alle strette i Visigoti, iniziò ad impiegarli come alleati per contenere gli altri gruppi barbarici. L'impero già in passato aveva affrontato svariate metamorfosi nel corso della sua lunga esistenza, tanto che l'affrontare i cambiamenti per la macchina dello stato doveva essere più una questione di ordinaria amministrazione piuttosto che di eccezionalità. L'ultima di queste trasformazioni epocali era avvenuta nel corso del IV secolo ed era sfociata nella creazione di una monarchia collegiale quanto dispotica, per di più puntellata da una religione monoteistica intollerante; ostile ai culti politeistici tradizionali, così come all'ebraismo e alle dottrine giudicate eretiche:

    Opporsi alla religione altrui e reprimerne i culti non erano azioni malvagie o intolleranti; questo dicevano gli ecclesiastici alle loro comunità. Al contrario, erano le azioni più virtuose che un uomo avrebbe potuto compiere. La Bibbia stessa lo esigeva

    Catherine Nixey, The Darkening Age. The Christian Destruction of the Classical World, 2017; tr. it. Nel nome della croce. La distruzione cristiana del mondo classico, Torino 2018. p. 55.

    Il saggio della Nixey è senza alcun dubbio un libello polemico, che si inserisce nel filone di un certo pensiero illuminista anti-cristiano, ciò nonostante le suggestioni che ci propone sono tutt'altro che da scartare in toto a priori. In particolar modo nel sottolineare gli effetti nefasti dell'ondata di fanatismo religioso che scosse la romanità sino alle sue fondamenta (simile per alcuni versi a quella che oggi sta imperversando in Medio Oriente, insistendo sui tratti comuni dei due fenomeni), contribuendo alla nascita del primo impero cristiano della storia. All'alba del V secolo la difficile situazione che si profilava all'orizzonte richiedeva l'ennesima trasformazione, la quale in linea teorica avrebbe dovuto consentire alla compagine imperiale di accordarsi con le confederazioni barbariche e al tempo stesso di sopravvivere. Una soluzione praticabile era quella di appoggiarsi ad un gruppo in particolare e di usarlo contro gli altri, il che rientrava nella strategia del dividi et impera, un'arte in cui i Romani erano sempre stati dei maestri. Bisanzio, nel corso della sua avvincente storia millenaria saprà far tesoro di queste tecniche manipolatorie, collaudate e perfezionate nel corso dei secoli. Un'ipotetica alleanza goto-romana, seria e duratura, avrebbe dovuto strutturarsi come una simbiosi, prevedendo una reciproca accettazione delle parti in causa, dando vita ad una nuova compagine. Nella realtà dei fatti un compito del genere risultò essere impraticabile, mostrando ben presto la sua natura chimerica. Paolo Orosio, prete cattolico spagnolo autore di una Historiarum adversos paganos libri VII, scrisse un'opera storica dal carattere partigiano in quanto anti-pagana, anti-ariana e favorevole in modo sfacciato alla dinastia imperiale valentiniano-teodosiana. Orosio ci tramanda un aneddoto singolare, mostrandoci un re Ataulfo deciso a lasciar perdere il sogno di edificare un dominio goto (Gothia), preferendo piuttosto ergersi a difesa del mondo romano (Romania). Data l'inaffidabilità del nostro presule, questa storiella può ben inquadrarsi più nell'utopia che nella realtà. Questo racconta-frottole fa dire al re visigoto quel che ogni buon romano avrebbe voluto sentirsi dire da un barbaro, ovverosia che ammetteva di essere una creatura selvaggia incapace di controllarsi, riconoscendo la superiorità della romanitas. Pur con tutte le differenze del caso, è un po' come se oggi un intellettuale statunitense andasse in giro a raccontare di come un politico proveniente da qualche travagliato paese mediorientale gli avesse confidato di essersi reso conto dell'intrinseca inferiorità del suo popolo, bisognoso dell'autorevole guida degli Stati Uniti d'America per esser salvato dalla barbarie. Il che, detto per inciso, era la favola che l'amministrazione conservatrice del presidente George W. Bush raccontava a se stessa riguardo al modo in cui sperava che sarebbero stati accolti gli interventi militari statunitensi in Afganistan e in Iraq. I barbari di oggi, abbagliati dalla potenza e dai frutti della civiltà dell'impero americano, avrebbero accolto con gioia i marines, considerandoli come liberatori e rappresentanti di una forma superiore di civilizzazione da imitare. Ritornando ad Orosio, possiamo affermare che dalla lettura del suo lavoro traspare sia il modo con cui i romani percepivano i barbari, cioè come incapaci di dar vita da soli ad una civiltà degna di questo nome, tanto quanto come i primi tentassero di concepire sul piano teorico delle soluzioni che gli consentissero di sopravvivere:

    Costui, come spesso si è sentito dire e come è anche provato dalla sua morte, partigiano convinto della pace, preferì militare fedelmente sotto l'imperatore Onorio e impegnare le forze dei Goti a difesa dello stato romano. […] soleva raccontare di aver dapprima ardentemente bramato di cancellare il nome romano […] che fosse Gotia ciò ch'era stato Romania […] Ma che, convintosi per lunga esperienza che né i Goti potevano in alcun modo ubbidire alle leggi, a motivo della loro sfrenata barbarie, né era opportuno abrogare le leggi dello stato, senza le quali lo stato non è stato, scelse di procacciarsi con le forze dei Goti almeno la gloria di restaurare nella sua integrità, anzi d'accrescere il nome romano e d'essere stimato presso i posteri restauratore dell'impero di Roma, dal momento che non aveva potuto trasformarlo. Per questo si sforzava di astenersi dalla guerra e di inseguire la pace, disposto a ogni atto di buon governo specialmente dai saggi consigli di sua moglie Placidia, donna di acutissima intelligenza e di schietto spirito religioso

    Le storie contro i pagani (Libri V-VII), vol. 2, a cura di Adolf Lippold, Milano 1993, VI, 43, 1-7, pp. 399-401.

    Un simile aneddoto è quasi certamente frutto della fantasia, eppure la sua presenza ci attesta come idee simili dovessero essere nell'aria. D'altro canto alla fine, seppure le speranze riposte in Ataulfo andarono in fumo, una sorta di legame simbiotico con i barbari avvenne per davvero ma su base locale. Inevitabilmente, se si voleva sopravvivere, bisognava trovare un compromesso di qualche genere con i nuovi venuti e

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