Private
Di Kate Brian
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Info su questo ebook
Scandaloso come Gossip Girl
Reed Brennan ha quindici anni e le idee chiare. Ha appena vinto una borsa di studio per la Easton Academy e intende sfruttare questa grande occasione per lasciarsi alle spalle una madre impasticcata e una vita mediocre in periferia. Ma non appena mette piede nello splendido campus dell’istituto, si rende conto che tutti sono più sofisticati, più eleganti e decisamente più ricchi di quanto avrebbe mai potuto immaginare. E che anche se è stata accettata alla Easton, la Easton non la accetterà mai. Reed si sente come se osservasse da fuori quel mondo luccicante… finché non incontra le Billings Girls. Sono le ragazze più belle, intelligenti e sicure di sé dell’intero campus. E lo sanno bene. In un ambiente in cui il potere è tutto, per quanto effimero, loro ce l’hanno. E Reed è disposta a fare qualunque cosa per entrare nel gruppo. Così impegna ogni fibra del suo essere per farsi notare. Ma scoprirà presto che dietro i vestiti firmati, i loro armadi sono pieni di scheletri.
Una serie bestseller del New York Times
Tradizione, onore, eccellenza e invisibili segreti oscuri
«Preparatevi a scandali e gossip a non finire. Se cercate un po’ di mistero, questo libro è pane per i vostri denti.»
«Una lettura divertente, con un pizzico di suspense che non guasta mai.»
Kate Brian
(Pseudonimo di Kieran Scott) è autrice bestseller del «New York Times». È nata in New Jersey e, dopo essersi laureata all’università di Rutgers in Inglese e Giornalismo, è tornata a vivere vicino alla casa in cui è cresciuta, da brava jersey girl. Private è il primo volume di una serie di grande successo.
Kate Brian
Kate Brian is the author of the New York Times and USA TODAY bestselling Private series and its spin-off series Privilege. She has also written many other books for teens including Sweet 16 and Megan Meade’s Guide to the McGowan Boys.
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Anteprima del libro
Private - Kate Brian
Indice
Dove vive la bellezza
Intimidazione
Intrigo
Le battute che si fanno nei dormitori
Non le faccio io le regole
La ragazza alla finestra
Le ragazze del Billings
Tradizione
Sadico
Non si fanno eccezioni
Primo incontro
Fortuna
Manovre difensive
Fidati
Colazione con le Billings
Dreck
Nutrita a forza
Tutte bugie
Il gregge
Bugiarda
Pericoloso?
Familiare
C è la nuova F
Incontro fortuito
La paura
Genio in sede
Intenso
Info dall’interno
Dormitorio Ketlar
Un dono
Rabbia
Chiarezza
Nuovo compito
Una scaltra criminale
Un invito
Dentro
A è la nuova C
Un’iniezione di realismo
La corda si spezza
Duo intrigante
Seconda occasione
Nel bosco
Un nuovo inizio
Una visita inaspettata
La camminata della vergogna
Sola
I Pearson
Un messaggio
Benvenuta al Billings
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Questa è un’opera di finzione. I nomi, i personaggi, i luoghi,
le organizzazioni, gli eventi e gli avvenimenti sono frutto
dell’immaginazione dell’autrice o sono usati in modo fittizio
Titolo originale: Private
Copyright © 2006 by Alloy Entertainment and Kieran Viola
Published by arrangement with
Simon & Schuster Books For Young Readers,
An imprint of Simon & Schuster Children’s Publishing Division
All rights reserved
No part of this book may be reproduced or
transmitted in any form or by any means, electronic or mechanical,
including photocopying, recording or by any information storage
and retrieval system, without permission in writing from the Publisher
Traduzione dall’inglese di Alessandra Florio
Prima edizione ebook: marzo 2019
© 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma
ISBN 978-88-227-2878-4
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di Caratteri Speciali, Roma
Kate Brian
Private
OMINO.jpgNewton Compton editori
Dove vive la bellezza
Da dove vengo io tutto è grigio. Grigi i centri commerciali anonimi e desolati. Grigia l’acqua del lago al centro della città. Persino la luce del sole ha un che di torbido. La primavera arriva a malapena, l’autunno mai. Nei primi giorni di settembre le foglie cadono ancora prima di avere la possibilità di cambiare colore, precipitano dagli alberi malaticci sulle tegole di case tutte uguali.
Se vuoi vedere la bellezza a Croton, Pennsylvania, ti devi sedere nella tua cameretta di tre metri per tre, nella noia della tua casa identica a tutte le altre, e chiudere gli occhi. Devi usare l’immaginazione. Alcune ragazze si vedono sotto braccio ai loro fidanzati, mentre sfilano sul tappeto rosso abbagliate dai flash. Altre, ne sono sicura, si giocano la carta principessa
, evocando diamanti, tiare e cavalieri su bianchi destrieri. Io, invece, per tutto l’ultimo anno di scuola avevo immaginato sempre e soltanto la stessa cosa: l’Easton Academy.
Ancora non sapevo bene come accidenti avessi fatto a finire proprio lì, nel cuore delle mie fantasie, mentre il resto dei miei compagni di classe scivolava nell’umida monotonia della Croton High. Di sicuro la mia bravura a calcio e a lacrosse aveva fatto la sua parte, insieme ai miei voti, le stellari referenze di una ex studentessa dell’Easton, Felicia Reynolds (la ex più grande e più mitica di mio fratello Scott) e, penso, qualche implorazione da parte di mio padre. Ma a dirla tutta non mi interessava nemmeno. Ero lì e quel posto era tutto ciò che avevo sempre sognato.
Mentre papà guidava la nostra ammaccata Subaru per le vie assolate di Easton, Connecticut, io mi sforzavo di non schiacciare la faccia contro il finestrino sbavato dal cane. I negozi qui avevano tende parasole colorate e vetrine che brillavano. I lampioni erano quelli vecchio stile riconvertiti all’elettricità, che un tempo venivano accesi con una fiaccola da un tizio a cavallo. Vasi pieni zeppi di fiori rossi penzolavano appesi ai lampioni, ancora gocciolanti dopo un’abbondante innaffiatura.
Perfino i marciapiedi erano belli: puliti e delimitati da mattoni, sovrastati da querce torreggianti. All’ombra degli alberi, due ragazze della mia età chiacchieravano uscendo da una boutique chiamata Sweet Nothings, facendo ondeggiare buste trasparenti, colme di maglioni e gonne ripiegati con cura. Per quanto mi sentissi fuori luogo con i logori jeans Lee e la maglietta azzurra, non c’era città al mondo in cui desiderassi vivere di più. E presto l’avrei fatto davvero. Non ci credevo ancora. Sentii qualcosa di caldo nel petto. Qualcosa che avevo sentito sempre meno spesso negli ultimi anni, dopo l’incidente di mamma. La riconobbi: era una vaga speranza.
Si arriva all’Easton Academy da una stradina a due corsie, che dalla città serpeggia su per le colline. Una piccola insegna di legno su un basamento di pietra contrassegna l’entrata della scuola. Lettere sbiadite recitano: EASTON ACADEMY, FONDATA NEL 1858. L’insegna è nascosta da un basso ramo di betulla, come a dire che, se sei degno di questo posto, sai bene dove andare; in caso contrario, nessuno si dannerà l’anima per aiutarti.
Mio padre svoltò sotto un arco in ferro e mattoni e io venni rapita. Subito e in modo irrimediabile. Edifici in pietra e mattoni, sormontati da tetti e guglie. Tradizione e onore grondavano da ogni angolo. Passaggi ad arco antichi, segnati dalle intemperie, porte in legno massiccio su cardini di ferro, sentieri acciottolati abbelliti da aiuole. Campi immacolati, erba di un verde brillante e linee bianche luccicanti. Tutto quello che vedevo era perfetto. Niente mi ricordava casa.
«Reed, sei tu il navigatore. Dove vado?», chiese mio padre.
La mappa d’orientamento di Easton era diventata una palla sudaticcia e stropicciata. La lisciai sulla gamba, come se non l’avessi memorizzata alla perfezione.
«Alla fontana svolta a destra», gli dissi, cercando di simulare una calma che non provavo affatto. «Il dormitorio femminile del secondo anno è l’ultimo alla rotonda».
Oltrepassammo due Mercedes decappottabili. Una ragazza bionda era in piedi mentre un uomo (il padre? Il maggiordomo?) scaricava un enorme set di valigie di Louis Vuitton. Papà lanciò un fischio.
«Queste persone di certo sanno godersi la vita», disse. Mi irritai all’istante di fronte al suo stupore, anche se non potevo negare di essere rimasta a bocca aperta anch’io. Abbassò la testa per guardare la torre dell’orologio che, come sapevo bene – avevo letto la guida di Easton per ore e ore – ospitava l’antica biblioteca.
Quello che avrei voluto dire era «Papààà!», e invece dissi «Eh già».
Se ne sarebbe andato presto e, se l’avessi trattato male, me ne sarei pentita non appena fossi rimasta sola in quel posto strano e impeccabile. E poi avevo la sensazione che ragazze come quella che avevo appena visto non dicessero mai cose tipo «Papààà!».
Fuori dai tre imponenti dormitori in cima alla collina, le famiglie si baciavano e abbracciavano e controllavano che ogni studente avesse tutto ciò di cui aveva bisogno. Ragazzi in pantaloni kaki e magliette bianche giocavano a pallone, i blazer gettati in disparte, le guance arrossate. Due insegnanti dall’aspetto severo erano vicini alla fontana, si parlavano quasi all’orecchio e annuivano. Ragazze dai capelli scintillanti confrontavano gli orari, ridevano, indicavano con il dito e bisbigliavano coprendosi la bocca con le mani.
Le fissai. Le avrei conosciute il giorno successivo? Una di loro sarebbe diventata mia amica? Non avevo mai avuto molte amiche. In realtà, non avevo mai avuto neanche un’amica. Ero una solitaria per necessità, dovevo tenere la gente lontana da casa mia e da mia madre e, quindi, da me. In più, non ero interessata alle cose che a quanto pareva interessavano di più le ragazze: i vestiti, il gossip e «Us Weekly».
A casa ero più a mio agio con i ragazzi. I maschi non sentono il bisogno di fare domande, di esaminare la camera o la casa in cui vivi e di conoscere tutti i dettagli più intimi della tua vita. Perciò uscivo con Scott e i suoi amici, in particolare Adam Robinson, che avevo frequentato per tutta l’estate e che si era iscritto all’ultimo anno della Croton High. Aver rotto con lui prima di andare a Easton faceva di me l’unica ragazza del secondo anno che non aveva un fidanzato più grande che la portasse a scuola il primo giorno. Un altro dettaglio che sarebbe stato debitamente annotato dalle mie coetanee, e avrebbe influito sull’opinione che si sarebbero fatte di me.
Era anche vero che le mie coetanee di solito si facevano influenzare da un sacco di cose.
Speravo che lì fosse diverso. Sapevo che era diverso. Cioè, bastava aprire gli occhi per rendersene conto.
Papà parcheggiò fra una Land Rover dorata e una limousine nera. Fissai il muro ricoperto d’edera del Bradwell, il dormitorio del secondo anno che sarebbe diventato casa mia. Alcune finestre erano aperte, riversavano musica su studenti e genitori. In una stanza vidi tende rosa e una ragazza con i ricci nero corvino che andava avanti e indietro, posizionando cose, facendola sua.
«Bene, ci siamo», disse mio padre. Una pausa. «Sei sicura, piccola?».
All’improvviso non riuscivo a respirare. I miei avevano litigato per mesi sul mio trasferimento, e mio padre era stato l’unico in famiglia a non esprimere mai un solo dubbio. Persino Scott, che per primo aveva suggerito che seguissi qui Felicia (lei aveva fatto a Easton il penultimo e l’ultimo anno, diplomandosi la primavera precedente prima di avviarsi a Dartmouth e, senza dubbio, alla gloria), si era fatto riluttante alla vista della retta da capogiro. Ma papà era rimasto dalla mia parte, sempre. Aveva mandato i miei video di calcio e lacrosse. Aveva passato ore al telefono con il dipartimento di aiuti finanziari. E, per tutto il tempo, mi aveva rassicurato che avrei «steso tutti».
Lo guardai negli occhi, lo stesso identico blu dei miei, e sapevo che non dubitava nemmeno adesso: era sicuro che ce l’avrei fatta. Magari dubitava di se stesso, ecco. Non sarebbe stata semplice, la vita a casa. Flash di tubetti di medicine mi attraversarono la mente. Piccole pastiglie bianche e blu rovesciate sul comodino, il segno lasciato dai bicchieri poggiati. Un sacco pieno di bottiglie di liquore vuote e fazzoletti spiegazzati. Mia madre, pallida e sciatta, che si lamenta del dolore, delle mille sfortune che le sono capitate e dell’indifferenza di tutti di fronte ai suoi malanni. Mia madre che scoraggia me e Scott, dicendoci che siamo dei buoni a nulla, solo per renderci infelici e tristi come lei. Scott era già scappato: aveva fatto le valigie ed era andato alla Penn State la settimana precedente. Ora ci sarebbe stato solo papà con mia madre in quella casa minuscola. Quel pensiero mi depresse.
«Possiamo anche ripensarci», dissi, anche se solo all’idea che potesse annuire e fare marcia indietro mi sentivo male fisicamente. Ora che avevo visto quel posto, anzi, lo avevo percepito… sarei morta di dolore, ne ero sicura, se ne fossi stata privata. «Possiamo andare a casa anche adesso. Basta che lo dici».
La sua espressione si ammorbidì in un sorriso. «Sì, certo», disse. «Ma chi ti crede? Però apprezzo l’offerta».
Ricambiai il sorriso con una smorfia triste. «Figurati».
«Ti voglio bene, piccola», disse. Lo sapevo già. Mi aveva fatto entrare in quella scuola, tirandomi fuori da quell’inferno: la dimostrazione d’amore più lampante che un genitore potesse dare. In pratica era il mio eroe.
«Anch’io, papà».
E poi mi abbracciò e io piansi. Prima che me ne rendessi conto, ci eravamo salutati.
Intimidazione
«L’Easton Academy è una delle migliori del Paese. Presumo sia questa la ragione per cui ha fatto domanda. Ma molti studenti che arrivano dalle scuole pubbliche trovano… difficile adattarsi. Confido che per lei sarà diverso, dico bene, signorina Brennan?».
La mia tutor, la signora Naylor, aveva i capelli e le guance grigie. Guance paffute e grasse. Che tremolavano quando parlava. E quando parlava, praticamente l’argomento era sempre lo stesso: non avrei mai dovuto fare domanda alla Easton, perché era senza dubbio fuori dalla mia portata, e ancora prima di iniziare le lezioni ero sull’orlo del fallimento.
Cioè, non che lo dicesse chiaramente. Però il senso era quello.
«Certo», risposi, azzardando un sorriso fiducioso. La signora Naylor fece un tentativo altrettanto debole di sorridere a sua volta. Mi diede l’idea che non sorridesse molto, di regola.
Il suo ufficio nel seminterrato era buio, le pareti di pietra erano coperte da scaffali che traboccavano di libri in pelle tutti impolverati. Solo due finestre in alto illuminavano la stanza. Il suo corpo tondo entrava alla perfezione fra i braccioli della sedia, un incastro così mirabile che sembrava fatto apposta. Se si poteva considerare come un indizio l’odore muschiato/cipolloso, era più che probabile che non uscisse mai dalla stanza. E che avesse mangiato qualcosa di davvero stantio tra quelle mura.
«I programmi accademici della Easton sono molto avanzati. La maggior parte degli studenti del suo anno frequenta lezioni che per gli standard curricolari della sua precedente scuola sono previste all’ultimo anno», continuò la signora Naylor, guardando altezzosa dei fogli – forse le mie pagelle della Croton High. «Dovrà sgobbare sodo per tenere il passo. Sarà all’altezza di questo compito?»
«Sì. Lo spero», dissi.
Mi guardò confusa. Cosa si aspettava che rispondessi? No?
«Vedo che ha una borsa di studio parziale. Bene», disse la signora Naylor. «La maggior parte dei borsisti sono sorretti da una grande forza di volontà che li spinge a ottenere buoni risultati».
La signora Naylor chiuse il fascicolo e si piegò sulla scrivania verso di me. Un raggio di sole piombò da una finestra a illuminare la netta linea di demarcazione fra il trucco sul suo volto e i rotoli carnosi del collo.
«Qui alla Easton ci aspettiamo grandi cose da tutti i nostri studenti, senza eccezioni», disse. «Impongo standard piuttosto elevati ai miei alunni, quindi la terrò d’occhio, signorina Brennan. Non mi deluda».
Forse ero solo paranoica, ma quella mi sembrava più una minaccia che un avvertimento. Fece una pausa. Mi pareva che fosse il momento di dire qualcosa, quindi commentai: «Okay».
Strinse gli occhi in due fessure. «Il suo orario».
Estrasse un foglio sottile e me lo porse sopra la piccola targa d’ottone che la identificava come RESPONSABILE ORIENTAMENTO. Io più che altro avevo l’impressione che stesse tentando di orientarmi verso l’aeroporto più vicino. In lacrime, se possibile.
Presi il foglio e gli diedi un’occhiata, cogliendo voci come «Storia dell’arte», «Laboratorio bonus» e «Francese 3». In nome del cielo, come c’ero finita a Francese 3?
«Grazie», dissi. Fui contenta di sentire che la mia voce non tremava quanto