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Gli incubi di Hazel
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Gli incubi di Hazel
E-book194 pagine2 ore

Gli incubi di Hazel

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Info su questo ebook

Hazel, un’allegra bambina di otto anni, è ospite della terribile zia Eugenia e del suo antipatico cuginetto Isambard. Basterebbe l’immagine del vecchio maniero dove vivono i parenti di Hazel per scoraggiare qualsiasi visitatore, eppure, dopo la prima inquietante giornata con zia Eugenia, la vita comincia a cambiare. Isambard, infatti, presenta a Hazel la sua collezione di cuccioli terrificanti: un cane con la testa di legno, un gruppo di papere che fumano sigarette, due maiali gemelli siamesi... Quando Hazel decide di esplorare il giardino, nascosti tra i cespugli scopre degli strani mostri: il pitospino (un pitone con la testa di porcospino), il gorillopardo (un gorilla con la testa di ghepardo) e lo struzzorana (una rana con il corpo di struzzo). È l’inizio di un’incredibile avventura in cui niente è come sembra e la realtà può diventare più stupefacente della fantasia.

Leander Deeny è nato a New York da genitori irlandesi eppure si è sempre sentito inglese. Laureato a Oxford, vive a Londra dove lavora come scrittore e come attore. Gli incubi di Hazel è il suo primo romanzo, con il quale ha ottenuto uno strepitoso successo internazionale.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854123113
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    Story was fairly good but spoiled by five errors - don't they get books proof-read any more?

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Gli incubi di Hazel - Leander Deeny

Erano appena a metà del vialetto, e Hazel era già fuori di sé dalla rabbia.

«Ma io non voglio rimanere con loro. Voglio venire con te. Voglio bene a te».

«Vuoi bene anche a loro, cara», disse sua madre.

«Assolutamente NO. Qual è stata l’ultima cosa che ho detto di loro?».

La madre di Hazel sospirò.

«Hai detto – oddio, fammici pensare bene – hai detto che rimanere con loro sarebbe stato peggio che rimanere in un nido di vespe. Persino se avessi dovuto cucinare e fare le faccende per le vespe, o roba del genere. Poi hai detto che anche se nessuna vespa avesse dato la propria disponibilità a organizzare la parata delle vespe, e tu avessi dovuto organizzarla tutta da sola, dovendo confezionare piccoli berrettini di carta per loro e un piccolo costume da sirena per la vespa destinata a navigare su un tappo di sughero come su una barchetta in mezzo all’oceano – voglio dire, a quel punto avevo ricevuto il messaggio, non c’era bisogno che proseguissi, ma tu l’hai fatto lo stesso – e avessi dovuto inventare una festività per la parata delle vespe, in modo che potessero celebrarla con la parata, perché le vespe non hanno festività, ma amano le parate, e non pensano a cose del genere quando chiedono alle bambine di organizzare parate per le loro stupide e inesistenti festività. A questo punto eri già paonazza. Persino in quel caso, hai detto, avresti preferito rimanere con le vespe, piuttosto che con la zia Eugenia e il cugino Isambard».

«Esattamente. E secondo te direi certe cose, se mi piacesse stare con la zia Eugenia e il cugino Isambard?»

«...No».

Hazel incrociò le braccia e fissò lo sguardo trionfante fuori dal finestrino della macchina. Poi assunse un’espressione leggermente perplessa.

«Ho davvero detto tutte quelle cose sulla parata delle vespe?».

Il padre di Hazel, che non parlava da ore limitandosi a guardare la strada, disse finalmente la sua.

«Tesoro, quel giorno avevi mangiato moltissimo zucchero, e non credo fossi del tutto in te. Un po’ come oggi, a dire il vero. Quante Barrette della Follia hai mangiato?».

«Non importa quante Barrette della Follia ho mangiato. Posso essere di cattivo umore anche senza mangiare zuccheri, tante grazie. Magari sono solo arrabbiata con voi».

Il padre di Hazel sospirò.

«Spero ardentemente che prima o poi il governo finisca per bandire quelle Barrette della Follia. Sembra che ognuna di esse contenga ottantasei cucchiaini di zucchero».

«È impossibile, papà».

«Ottantasei cucchiaini di zucchero! Abbastanza perché un cavallo... un cavallo... Insomma, qualsiasi cosa possa fare lo zucchero a un cavallo, sono certo che ottantasei cucchiaini di zucchero la farebbero in abbondanza».

«Io non sono un cavallo, papà».

«A volte vorrei che lo fossi. Risparmierei una fortuna in Barrette della Follia».

Hazel tirò fuori la lingua e s’infilò le dita nelle orecchie.

Hazel era stata contraria fin dall’inizio. La mamma e il papà le avevano annunciato che sarebbero andati in Egitto per tre settimane, ma all’inizio non avevano aggiunto altro. Poi, a metà del trimestre estivo, le avevano finalmente rivelato che ci sarebbero andati da soli. Hazel non li avrebbe accompagnati. Quando gli aveva chiesto perché, il padre aveva semplicemente risposto: «L’Egitto è un Paese pericoloso: non voglio che la mia unica figlia venga divorata da un cammello, sepolta da una duna di sabbia o schiacciata dal crollo di una piramide». Non c’erano state ulteriori spiegazioni.

Il viaggio in macchina fino a casa della zia Eugenia durò circa quattro ore, durante le quali Hazel, annidata fra cataste di libri e carte di cioccolate come un gerbillo in un mucchio di fieno, era passata da un sonnellino all’altro. Si sarebbero fermati a cena dalla zia, poi mamma e papà sarebbero ripartiti per prendere un aereo da Heathrow.

Dopodiché sarebbero iniziate le tre settimane.

Hazel giocava ad I spy con la madre e ascoltava le storie dal lettore CD della macchina, poi si fermarono in una stazione di servizio a prendere il caffè per papà, delle riviste per mamma e della cioccolata per Hazel (quel giorno mamma e papà erano insolitamente munifici, con la cioccolata).

Il paesaggio che circondava la casa della zia Eugenia era stupido.

E va bene, non è giusto dire così: probabilmente era ondulato, o piatto, o cosparso di rocce antiche o che so io, ma Hazel era di umore talmente nero che non le andava nemmeno di guardarlo, il paesaggio, per non parlare di doverlo descrivere in modo esauriente.

Dunque, il paesaggio era stupido.

Hazel odiava la zia Eugenia. Non la vedeva quasi mai, e ogni volta che era accaduto, era stato orribile. Ricordava il loro ultimo incontro, il giorno di Natale di tre anni prima. Mamma e papà avevano trascorso tre intere giornate a decorare la casa, cucinare il tacchino e incartare i regali, ma Eugenia non s’era presentata puntuale. Mentre l’aspettavano, i cavolini di Bruxelles s’erano raffreddati, il gatto aveva mangiato il budino delle feste e Hazel s’era talmente arrabbiata per aver dovuto aspettare tanto l’apertura dei regali, che per dispetto aveva seppellito il telecomando del televisore nell’aiuola in giardino.

Alla fine Eugenia era arrivata, e mentre la mamma e il papà avevano fatto del loro meglio per mostrarsi gentili e far finta di niente, la zia era stata maleducatissima per tutta la durata della cena.

«E tu chi diavolo sei?», Eugenia aveva detto a Hazel, dimostrando di non essersi mai lontanamente interessata a quella nipote prima di allora.

«Sono Hazie», aveva detto Hazel, presentandosi col diminutivo da bimba piccola, che da allora aveva DECISAMENTE abbandonato.

La mamma di Hazel era intervenuta.

«Hazel, cara; devi dire Hazel».

Eugenia aveva proseguito con l’inquisizione.

«Bene, e quanti anni hai, ragazzina?»

«Scette». Anche scette aveva smesso di dirlo da parecchio tempo, oramai.

«Che cosa ridicola», aveva grugnito Eugenia, senza mostrarsi minimamente impressionata. «Anche Isambard ha sette anni, e basta guardarvi per capire che ha il doppio della tua intelligenza. È un cervellone, per la sua età, e ha già imparato cose che tu non puoi nemmeno immaginare. Non è così, Isambard?».

Per tutta risposta, Isambard s’era limitato a recitare:

«Bogotà è la capitale della Colombia», fissando insistentemente il pavimento.

«Molto bene, caro. E tu sai qual è la capitale della Colombia, ragazzina?».

Ad Hazel la domanda era sembrata strana, dal momento che Isambard aveva appena fornito la risposta.

«Bogotà?», azzardò.

Eugenia era rimasta perplessa.

«Be’... Sì, sì, è giusto. Vedo che qualcosina la sai. Ma al di là di ciò, sono sicura che sei una ragazzina irrimediabilmente sciocca».

Hazel s’era rivolta ai genitori in cerca d’aiuto, ma quelli l’avevano abbandonata, per dedicarsi alla preparazione di un budino o qualcos’altro in cucina.

«Città del Messico è la capitale del Messico», aveva detto allora Isambard, sempre fissando il pavimento. Questa però non aveva fatto colpo come la prima.

«Ragazzina, hai molti amici? Ho sempre pensato che la gente stupida dovesse almeno essere brava a fare amicizia. Un’attività che in qualche modo non è mai stata il mio forte».

A quel punto, Hazel aveva iniziato a piangere. Fare amicizia era probabilmente la cosa che le riusciva di meno al mondo. Fino a quel momento le sue amicizie ammontavano a zero.

«Oh, smettila di frignare, ora». Eugenia s’era goffamente inginocchiata per guardarla negli occhi. «Qualsiasi cosa accada, per quanto triste o sola ti possa sentire, per quanto tu abbia voglia di scoppiare in lacrime, non devi mai, e dico mai, piangere davanti a qualcuno». Eugenia le aveva asciugato gli occhi stanchi con le lunghe dita, poi, fissando il vuoto con aria pensosa, aveva ripetuto: «Mai. Capito?».

Hazel aveva annuito, pur non avendo la minima idea di cosa Eugenia volesse dire. Quel che era certo, per lei, era che la zia Eugenia era una delle persone più cattive che avesse mai incontrato, e che desiderava passare con lei il minor tempo possibile.

Poi Eugenia le aveva dato un colpetto sulla fronte con la punta dell’indice.

«Ricordatelo, ragazzina! Capito? Ricordatelo!».

Isambard aveva scosso il capo senza dire nulla.

Dopo la festa, Hazel aveva trovato il coraggio di dire alla mamma e al papà che la zia Eugenia l’aveva colpita sulla fronte. Si erano rifiutati di crederle e le avevano detto di smetterla di inventarsi le cose. Poi papà s’era accorto della mancanza del telecomando. Hazel aveva ammesso di averlo sepolto, ma non riusciva a ricordare dove, e i suoi genitori si erano talmente arrabbiati con lei, da dimenticare completamente l’episodio di Eugenia.

Con sommo disappunto di Hazel, la serata era passata alla storia come Il Natale in cui Hazel seppellì il telecomando, piuttosto che come Il Natale in cui mamma e papà scoprirono che la zia Eugenia era una pazza pericolosa, denunciandola alla polizia, che la rinchiuse in galera per sempre per evitare che i bambini di tutto il mondo venissero colpiti in fronte col dito.

La macchina iniziava a sembrare quasi piacevole, pensò Hazel; già, con tutta la cioccolata che aveva mangiato... Si era stancata di lamentarsi e stava scivolando in un piacevole sonnellino ristoratore, quando papà lanciò la bomba.

«Siamo arrivati!».

Hazel si rizzò a sedere, gridando: «Non posso crederci, tre settimane con quella strega!».

Dopo ore di proteste, quella fu la goccia che fece traboccare il vaso: la mamma, che finora era stata ultrapaziente, scattò: «Hazel! Ti proibisco di parlare così di mia sorella! È la mia sorella maggiore... la mia unica sorella, e tu potrai anche odiarla, ma io le voglio bene, e poi non ti ha mai fatto nulla di male!».

Era difficile che la madre di Hazel si arrabbiasse così tanto. Era una donna tranquilla, e riusciva a sopportare Hazel per ore e ore, quando aveva i suoi accessi di rabbia... Ma stavolta la bambina doveva aver superato il limite. Il suo viso diventò tutto rosso e strabuzzò gli occhi, dando libero sfogo a emozioni che raramente esprimeva.

Hazel non sapeva cosa dire.

«Ma...».

«...e NON ricominciare un’altra volta con quella stupidaggine del colpetto sulla fronte! Sei mia figlia e ti voglio bene, ma certe volte t’impunti a odiare determinate persone e inventi delle storie su di loro, ragazzina... Oltretutto hai un bel caratterino, sai? Forse, e dico forse, è questo il motivo per cui hai avuto tanti problemi a fare amicizia, a scuola!».

Hazel cercò di replicare, ma prima che potesse riuscirci, sentì la gola che si inaridiva, riducendosi alla misura di un fagiolo; subito dopo le lacrime cominciarono a rigarle le guance. La mamma si voltò sbuffando seccata e Hazel fu lasciata a riflettere su quanto aveva detto e fatto. Non era abituata a vedere la mamma in quello stato, e in quel momento era proprio l’ultima cosa di cui avrebbe avuto bisogno.

Emettendo dei piccoli gemiti lamentosi, si asciugò le guance rigate di lacrime e guardò disperata fuori dal finestrino... come se avesse potuto individuarvi qualcosa che mitigasse la furia di sua madre. Tutto ciò che vide fu il vialetto che conduceva alla casa di Eugenia.

La casa della zia Eugenia era chiaramente la dimora di gente stravagante. Vi si accedeva da un ridicolo vialetto coperto di squallidissima ghiaia, lungo il quale si allineavano alberi dall’aspetto spettrale e disgustoso. Sorgeva al centro di una ventina di acri di terreno insignificante, accanto a un fienile color cacca, sullo sfondo di un boschetto che sicuramente puzzava di scoregge e prospiciente un laghetto che sembrava il risultato del vomito di migliaia di persone.

L’edificio stesso era stato evidentemente costruito da degli idioti, che si erano serviti delle pietre più brutte che fossero riusciti a trovare. C’erano quattro torrette schifose, tantissime schifose finestre e un portone di legno grande abbastanza da lasciar passare un grosso imbecille.

La macchina faceva dei fastidiosi rumori crocchianti, nel risalire il viale.

Iniziò a piovere.

Hazel cercò di trattenere un’altra crisi di pianto.

Papà uscì di corsa dall’auto, con una rivista della mamma per coprirsi la testa (in Egitto non si portano ombrelli), e bussò al portone. Ovviamente, c’era un battente enorme, a forma di faccia; secondo Hazel non poteva essere che un regalo di compleanno da parte di Satana in persona.

Si aprì una porticina incastonata nel portone grande, ma Hazel non riuscì a vedere all’interno. Evidentemente l’illuminazione scarseggiava.

Papà tornò di corsa alla macchina.

«Voi due, correte dentro... Prendo io la borsa di Hazel dal portabagagli».

Hazel fece un respiro profondo e scese velocemente dall’auto, attraversando il vialetto, oltrepassando i due alberi davanti al portone ed entrando in casa.

Erano tre anni che non vedeva la zia Eugenia, e ora eccola lì. Erano di nuovo una di fronte all’altra, dopo tutto quel tempo.

E che aspetto aveva la zia Eugenia?

Quello di una persona stupida.

Eugenia era vedova.

Era la sorella più grande della madre di Hazel, Katie, e aveva fatto il cosiddetto colpaccio sposando un baronetto di nome Sir Podbury Pequierde.

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