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Restiamo amici
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E-book391 pagine5 ore

Restiamo amici

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Da questo libro il film

Chi trova un amico perde un tesoro...

Alessandro è un pediatra in crisi. Suo figlio sta diventando grande, gli amici di sempre sono sopraffatti dai problemi quotidiani. La sua vita è diventata monotona. Ma una mattina arriva una lettera che cambierà tutto per sempre: a scrivergli è Luigi, il suo migliore amico, che vive da anni in Brasile. E la sua è una richiesta d’aiuto. Alessandro prende allora il primo aereo e lo raggiunge, ma all’arrivo scopre che l’amico lo ha ingannato e ha in mente un assurdo piano in cui intende coinvolgerlo… Il piano prevede che Luigi muoia, che riconosca il figlio di Alessandro come proprio e che erediti così tre milioni e mezzo di euro su cui altrimenti non potrebbe mai mettere le mani. L’avventura per riportare in Italia la finta salma di Luigi ha presto inizio e si trasforma per Alessandro in un’occasione per ritrovare la leggerezza che pensava di aver perso. Ma tutti quei soldi fanno gola a molti… Bugie inconcepibili, missioni temerarie, imprevisti piuttosto pericolosi per una storia che regala un grande divertimento e la possibilità di sognare.

Da questo libro il film con Michele Riondino, Alessandro Roja, Violante Placido, Sveva Alviti, Mirko Trovato e con Ivano Marescotti
Con la partecipazione di Lidia Vitale
Con la partecipazione di Libero De Rienzo nel ruolo di Leo
Regia di Antonello Grimaldi

«Un Marrakech Express in chiave brasiliana dove l’amore e l’amicizia giocano una partita decisiva contro il delirio della vita quotidiana.»

«Burbi ci regala un romanzo rocambolesco, una commedia dell’assurdo che è stata paragonata dalla critica a una sceneggiatura in stile fratelli Coen.»

Bruno Burbi
Da sempre appassionato di teatro, ha lavorato per molti anni come attore in teatro, alla radio, nel doppiaggio e nel cinema. Dopo aver partecipato a un seminario di scrittura con Ettore Scola, ha deciso di trasferirsi per un periodo in America, per seguire dei corsi all’Hunter College di New York. Lì, quasi per scherzo, ha cominciato a lavorare nel campo della gioielleria, fino a farne la sua attività principale. Da questo romanzo, originariamente pubblicato con il titolo Si può essere amici per  sempre, è stato tratto un film.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854125339
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    Restiamo amici - Bruno Burbi

    1

    Diciotto anni

    Papà, non riesco a trovare la mia foto da piccolo con lo zio Luigi».

    Era un po’ che non mi capitava di tirare fuori la scatola da scarpe dove teniamo le foto per mettermi a riguardarle con mio figlio Giacomo. Ci siamo detti tante volte che sarebbe stato meglio organizzarle in un album, magari per data, ma non l’abbiamo mai fatto.

    Rovistare nella scatola è più divertente. Le foto escono fuori quando meno te lo aspetti. Non sai mai se la prossima ti farà ridere o ti renderà triste, ed è piacevole, non riuscendo mai a trovare quella che cerchi, essere costretto a riguardarle sempre tutte.

    «Ho trovato quella in cui sei al mare con la mamma, quando eravate fidanzati».

    «Fa’ vedere», dissi, avvicinandomi al divano. Giacomo mi porse una foto dove c’era scritto, con la calligrafia minuta di Maria: Alessandro e Maria. Valle della Luna. Sardegna. Eravamo carini io e la mia futura moglie, seduti su una roccia, cotti dal sole, innamorati persi, durante la nostra prima vacanza da soli. Posai la foto scuotendo la testa. Giacomo, vedendo la mia espressione, rise.

    È un pomeriggio caldo di fine luglio, il giorno del suo diciottesimo compleanno. Io e mio figlio siamo seduti sul divano, a pescare tra quei piccoli rettangoli di cartone i momenti che compongono il puzzle della nostra vita.

    «Eccola, finalmente!», disse felice Giacomo, mostrandomi un foto che lo ritrae piccolissimo, mentre si succhia il pollice in braccio a Luigi, che ne imita esattamente gesto ed espressione. Giacomo è sempre stato molto affezionato a quella immagine e – non so se proprio a causa della foto – ha sempre avuto un debole per lo zio Luigi.

    Luigi non era veramente suo zio, era solo un mio amico: il mio migliore amico.

    Gli piaceva passare del tempo con mio figlio, a volte andava a prenderlo a scuola e altre passava da casa e lo portava fuori a cena. Giacomo era sempre felice di uscire da solo con lui. Credo che la cosa piacesse a entrambi perché li faceva sentire adulti.

    Il fatto che Luigi non fosse mai cresciuto era parte integrante del suo fascino. I problemi quotidiani non intaccavano minimamente la sua aristocratica imperturbabilità. Al contrario, io mi angosciavo per ogni piccolo grattacapo, e lottavo a testa bassa per ottenere quello che lui conquistava con un sorriso.

    Il risultato era che io mi stancavo come un mediano, mentre Gigi, come un bel centravanti, si limitava a buttare la palla in rete.

    Anche fisicamente eravamo molto diversi. Lui alto, magro, sempre di buonumore. Io invece robusto, massiccio, con un’espressione costantemente imbronciata e un velo di tristezza negli occhi; il suo punto forte con le ragazze erano le labbra grandi e carnose e il sorriso beffardo. Il mio, invece, era l’espressione da bel tenebroso, malinconico e romantico.

    Ci siamo conosciuti a scuola e siamo diventati subito amici; ma il legame è diventato indissolubile nell’estate tra la seconda e la terza media, quando capimmo che le femmine non erano le compagne di scuola che non sanno giocare a pallone, ma degli esseri meravigliosi, capaci di farti provare sensazioni incredibili. Da quel momento le ragazze sono diventate il nostro unico interesse, la ragione profonda della nostra esistenza.

    Con Gigi ho diviso gran parte della mia vita. Tutta la fase precedente al mio matrimonio o, come sempre dicevamo scherzando, trans-adolescenziale. La nostra adolescenza è durata piuttosto a lungo; per me è finita quando mi sono sposato con Maria e ho avuto Giacomo, per Gigi, invece, è finita a quarantaquattro anni, quando è morto.

    «Allora papà, che è successo allo zio Luigi?», chiese Giacomo scuotendomi dai miei pensieri.

    Ho un figlio bello da togliere il fiato. Ha i capelli scuri, lisci e morbidi, gli occhi celesti, la bocca grande e un naso che gli dà carattere. Mi soffermai a guardarlo per qualche secondo, incantato.

    «Papà, ogni tanto mi fissi con una tale espressione da ebete… Si può sapere a che pensi?».

    Come si fa a confessare al proprio figlio che gli hai mentito. Per mesi, quotidianamente, e per una cosa così grave?

    «Stavo pensando a Gigi», gli risposi. «Ormai faccio fatica a metterlo a fuoco».

    «Be’, vai dall’oculista, ché quando non metti a fuoco ti viene la faccia da scemo!».

    «Forse è per questo che tutti dicono che ci somigliamo molto!», gli dissi, dandogli un cazzotto sulla spalla.

    «Dài, papà! Smetti di fare il cretino!».

    Giacomo continuò a guardare le foto distratto; poi, improvvisamente, mi chiese: «Mi dici per favore che è successo allo zio Luigi? Non mi hai mai raccontato nulla, hai sempre trovato il modo di tergiversare».

    «Adesso ti racconto la storia», risposi. «Prima però vado a riportare questi bicchieri in cucina».

    Giacomo mi ha seguito in cucina e mi sta guardando mentre cerco di guadagnare tempo attardandomi a sciacquare i bicchieri. Aspetta ancora la mia risposta. Vuole la verità su Gigi e ha capito che oggi saprà. Vorrei raccontargli i particolari della nostra amicizia, quelli stupidi: quando abbiamo fumato le prime sigarette, quando ci facevamo la barba che non avevamo. Vorrei dirgli che è stato lui a dirmi come si baciava. Lui mi ha mostrato i giornaletti sporchi di suo padre, rivelandomi così un nuovo mondo. Fino a quel momento, io mi ero accontentato del seno nudo delle indigene che trovavo nell’enciclopedia geografica De Agostini. Sfogliavo quei volumi per ore intere, per la gioia di mia madre che si vantava con le amiche di quanto fossi interessato alla geografia!

    Se Giacomo non riuscirà a comprendere la confidenza e l’affetto profondo che ci ha unito, non potrà capire il perché delle mie scelte. Vorrei che si rendesse conto che Alessandro e Luigi sono stati dei grandi amici.

    Amici d’infanzia. Un’infanzia che è durata per molto, molto tempo.

    «Va bene», gli dissi, asciugandomi le mani, «ora ti racconto la storia. Non ti fermare ai fatti però. Questa è soprattutto una storia di sentimenti. È una storia di amicizia, di amore, di insoddisfazione e di fragilità. Come mi ha scritto Gigi nella sua prima lettera che ho ricevuto dal Brasile: questa è una storia di uomini».

    2

    Sei mesi prima

    Quando ricevetti la lettera di Gigi, mia moglie Maria era morta da quasi un anno e, nonostante il tempo trascorso, non riuscivo ancora a farmene una ragione.

    Era accaduto in un modo completamente inaspettato. Una telefonata poco prima di cena, mentre io rispondevo alle domande di un quiz televisivo insieme a Giacomo. Quando alzai la cornetta, qualcuno mi parlò di un incidente d’auto. Mi ci vollero dieci secondi per collegare la parola incidente con moglie e altri dieci per capire che la signora non ce l’ha fatta significava la fine di tutto.

    Tutti gli anni passati a costruire qualcosa insieme, tutti i nostri progetti futuri cancellati da quelle poche parole.

    Non avrei mai creduto di poter diventare vedovo.

    Ricordo che sentii un calore molto intenso alla base del cranio, un bruciore fortissimo che si trasformò in un pianto dirotto. Seduto sul pavimento, singhiozzavo a bocca aperta, senza riuscire a trattenermi. Giacomo, con la mano poggiata allo stipite della porta del soggiorno, mi guardava sconvolto.

    Ero ancora molto innamorato di Maria. Non capita spesso, ma io ancora l’amavo e la desideravo.

    Il nostro incontro era stato un colpo di fulmine. Per lei mi ero allontanato dagli amici. Credo che Gigi abbia sofferto per questo. Lei, pur essendo la migliore amica di entrambi, ci ha separato. Senza volerlo. Semplicemente offrendomi una vita diversa; e alla fine, la cosa più grande di tutte, nostro figlio Giacomo.

    Quello deve essere stato un periodo difficile per Gigi. Tutti gli amici del vecchio gruppo si erano sposati – io ero stato l’ultimo – e lui era rimasto solo. Solo e annoiato: dalle cene, dagli scambi di impressioni sui figli, dalle nostre vacanze sempre più organizzate, e dal minor tempo che avevamo da dedicare ai rapporti sociali. Mi ricordo che dopo poco aveva smesso di frequentarci. Usciva con un gruppo di persone più giovani e scherzava sul fatto di aver saltato una generazione con i maschi e tre con le femmine.

    L’ho rivisto dopo la morte di Maria. È venuto al funerale e ha trascorso un paio di giorni con me e Giacomo. Prima di partire ha insistito perché io andassi a trovarlo in un’isola del Brasile dove viveva da qualche mese. Io gli ho spiegato che non sarebbe stato possibile, che ci sarebbe voluto molto tempo per ricostruire la mia vita e quella di Giacomo e che non prevedevo vacanze, almeno non a breve. Dopo quell’incontro avevo pensato spesso di scrivergli, ma non avevo mai trovato il tempo per farlo.

    Nemmeno lui mi aveva scritto, e questo era più strano, perché a Gigi è sempre piaciuto scrivere. Nell’era precedente ai social media, era conosciuto per essere un amante della nota, del bigliettino, del messaggio breve. Scriveva lettere a tutti, spesso solo una frase o un pensiero. A volte metteva nella busta direttamente il tovagliolo del bar, anche se sporco. Detestava la bella copia, secondo lui toglieva spontaneità al pensiero.

    Qualcuno non apprezzava il fatto di ricevere un messaggio scritto su un sottobicchiere o su un tovagliolino di carta imbrattato di vino o di crema secca; però, quasi sempre, le parole che c’erano scritte erano perfette per l’occasione: simpatiche, brillanti, toccanti. Un giorno Maria, che avevo conosciuto da poco, ricevette un messaggio scritto su un biglietto ferroviario Firenze-Roma, che diceva:

    Invecchiando continuiamo a vedere nello specchio il nostro volto di ragazzi. L’amore sono gli occhi di quella persona che sola oltre te riuscirà a vedere nel tuo volto quella che eri. Tu quegli occhi li hai incontrati da poco? Li hai riconosciuti?

    Quel messaggio ci aveva aiutato a capire che avremmo voluto invecchiare insieme. Dopo la sua scomparsa – è incredibile quanto questa parola sia appropriata – avevo preso l’abitudine di sdraiarmi sul divano per pensare a lei, per soffrire in pace, per farla ricomparire. Ultimamente, però, non ci riuscivo più.

    Maria lentamente svaniva, i suoi lineamenti si confondevano, e il dolore che provavo, con mio profondo disappunto, non era più puro come nei mesi immediatamente successivi alla sua morte.

    Insomma, com’è normale, anche se terribile da ammettere, cominciavo a dimenticare. All’inizio fu difficile. Avevo paura e cercavo di rimanere al coperto, come un animale terrorizzato.

    I primi mesi dopo la morte di mia moglie, avevo creduto che precludendomi ogni stimolo avrei potuto esercitare un maggior controllo sulla vita; ma ora, lentamente, mi stavo abituando ad accettare senza paura un lieve ma costante desiderio di ricominciare a vivere. Avevo solo bisogno che qualcosa arrivasse a scuotermi dall’apatia nella quale ero scivolato.

    Quella cosa arrivò per posta, una mattina di fine gennaio.

    Quando aprii la busta ci trovai un biglietto aereo, un voucher per un albergo e una lettera. Questa lettera:

    Alessandro, amico mio.

    Ti ho detto mille volte che la vita in questo posto è meravigliosa, ed è proprio vero. A volte vorrei che tu fossi qui con me come ai vecchi tempi; poi però, penso che i vecchi tempi sono lontani, e che tutti stiamo misurandoci con tempi nuovi, tempi difficili, contro i quali le nostre magie di ragazzi sembrano totalmente inadeguate.

    È per questo che vorrei vederti; chissà che, stando insieme, non ci venga in mente qualche sortilegio che possa cambiare la nostra vita. Lo so che stai soffrendo e che sei preoccupato per Giacomo, ma io in questo momento ho bisogno di te.

    Ti racconto una storia.

    Un po’ di tempo fa, in un centro commerciale, ho incontrato una donna bellissima: Jennifer.

    I capelli lisci, neri e setosi; le labbra così carnose che sembravano dei piccoli cuscini umidi; il sorriso, bianco e gioioso come la spuma delle onde dell’oceano e dei seni, grandi e soffici, come zucchero filato.

    Sì, lo so: già il nome avrebbe dovuto farmi capire che avevo a che fare con una puttana, ma io non l’ho capito. O forse non ho voluto capire. Fatto sta che la stessa sera siamo usciti. Dopo cena, siamo andati in un motel. Gesù come era bella! Ti ho pensato sai, avrei pagato per fartela vedere. Andare con una bella donna senza poterla mostrare a nessuno è come pescare un Marlin di cinque metri e non avere nessuno che ti scatta la foto. Io credo che Hemingway non si sarebbe sparato se non avesse avuto la sua foto con il Marlin appesa a una parete dello Sloppy Joe di Key West.

    Vabbe’, dicevamo di Jennifer! A un certo punto ho cominciato a baciarla, e lei ha cominciato a baciare me.

    Dopo poco eravamo in quella intricata posizione che è universalmente conosciuta come sessantanove.

    I nostri corpi combaciavano perfettamente, la mia lingua la penetrava ovunque come un formichiere bulimico. A un certo punto, ho sentito scendere nella mia bocca tre gocce di un liquido di una densità diversa da quella dell’umore che avevo sulla lingua fino a quel momento. Mi ricordo benissimo la sensazione, come al rallentatore. Plop, plop, plop. Quelle tre gocce sulla mia lingua. Ho pensato potesse essere sangue ma mi sono detto che mi frega! Era bella come il sole. Mi sono pulito la bocca con il lenzuolo e gliel’ho messo dentro. Piano, lento e profondo. Una sensazione incredibile; ogni tanto, mi sentivo come inondato da dei getti caldi.

    A un certo punto, non ce l’ho fatta più e le sono venuto sulla pancia.

    È stato allora che ho visto tutto quel liquido rosso. Lì per lì mi sono stupito, non me l’aspettavo. Poi ho riconosciuto quel sapore metallico che avevo in bocca: non mi ero sbagliato, era sangue. Eh sì, amico mio, sono stato con una puttana che aveva le mestruazioni, non ho usato il preservativo e, come se non bastasse, ho bevuto il suo sangue.

    Questo è accaduto l’anno scorso.

    Quando ci siamo visti per il funerale di Maria, non ti ho detto nulla, non mi sembrava il caso.

    Insomma, mi sono ammalato. Ma non voglio tornare a casa. Mi sono già occupato di alcuni affari. Ho venduto le ultime cose che mi erano rimaste, ma questo lo sai già. I soldi che ho preso sono abbastanza per vivere qui alla grande questi ultimi mesi che mi restano.

    Ho un solo vero problema. Ho bisogno di vederti. Ho bisogno di stare con te. Sei stato l’amico più importante e più caro di tutta la mia vita fino al giorno del tuo matrimonio. (Scherzo! Forse!)

    Ti prego, vieni a trovarmi. Lo so che, nonostante ormai sia un uomo, mi dirai che devi occuparti di Giacomo. Non mi importa, ho bisogno di te. Lascia Giacomo per qualche giorno alle cure di zia Elena; ma non raccontarle della mia lettera, non parlarne con nessuno.

    Nella busta troverai un biglietto per Natal. Allegata troverai anche una brochure di un congresso di Pediatria che si terrà la prossima settimana in un albergo della città. Vieni, amico mio. Di’ che devi partire, di’ che devi andare al congresso. Rispetta la mia volontà. Potrebbe essere l’ultima.

    Un forte abbraccio al tuo fisico possente.

    Luigi

    Lentamente ripiegai il foglio e lo infilai nella busta. Mi era sembrato così in salute quando l’avevo visto al funerale di Maria. Avevo criticato la sua idea di vendere quel poco che era rimasto delle sue proprietà; ma lui mi aveva risposto di non preoccuparmi, che se avesse finito i soldi sarebbe venuto a vivere da me e poi, ridendo, aveva subito aggiunto che era un’ipotesi alquanto improbabile. Avrei dovuto capirlo che c’era qualcosa che non andava!

    Il biglietto aereo era per tre giorni dopo. La storia del congresso poteva essere plausibile per l’ospedale, ed Elena, la sorella di mia moglie, sarebbe stata felice di dare un’occhiata a Giacomo. La chiamai e, senza obbedire alle raccomandazioni di Gigi, le raccontai della lettera. A lei dovevo dirlo, avevo bisogno di un’alleata.

    Il mattino successivo andai in ospedale e dissi ai miei colleghi del convegno. Nessuno fece obiezioni per il breve preavviso e mi concessero le ferie. Così, due sere dopo, chiusi la valigia, accompagnai Giacomo a casa dei nonni, e per la prima volta senza provare l’eccitazione del viaggio, salii sull’aereo e partii.

    3

    Gigi

    Gigi mi aspettava a Natal, una città nel nord-est del Brasile. Appena arrivato in albergo, dove avevamo stabilito di incontrarci, lo vidi in piscina che prendeva il sole, tranquillo e sereno.

    A vederlo così sembrava in perfetta forma; era abbronzato e rilassato.

    «Ciao!», lo salutai avvicinandomi. Ci abbracciammo, io non riuscii a trattenere le lacrime.

    «Ciao, Ale! Fatto buon viaggio? Fatti guardare. Perché piangi? Pensavo fossi contento di vedermi».

    «Gigi, ho il magone da quando ho ricevuto la lettera».

    «Sei sempre stato un emotivo. Le uniche volte che non ti ho visto piangere al cinema erano quando pomiciavi con qualche ragazza! Hai fatto come ti ho detto, vero?»

    «Cosa?»

    «Non hai raccontato nulla a nessuno. Quando ho visto che ci sarebbe stato un congresso di pediatria, mi è venuto subito tutto in mente».

    «Gigi, che cosa è che ti è venuto in mente? Non ti seguo. Dimmi come stai piuttosto».

    In quel momento arrivò una cameriera a portarci un cocktail e io, dalle dimensioni millimetriche del bikini e dall’ancheggiare dei fianchi della ragazza, mi resi conto con un misto di stupore e incredulità che ero arrivato in Brasile, che faceva caldo, e che il mio testosterone era stordito dagli ultimi avvenimenti, ma ancora vitale. Mi sfilai la camicia dai calzoni e, dopo aver aperto qualche bottone, mi misi gli occhiali da sole. Gigi osservò divertito la mia reazione.

    «Lei si chiama Erika», disse sorridendo.

    Le tesi la mano. «Ciao Erika, io sono Alessandro».

    Lei posò il vassoio e me la strinse, io non potevo staccare gli occhi dalle sue tette. Erika sorrise per un po’, poi, quando finalmente riuscì a recuperare la sua mano, se ne andò muovendo i fianchi al ritmo della bossanova che si diffondeva dagli speakers della piscina, lasciandoci per qualche attimo senza parole.

    «Allora, come stai?», chiesi.

    «Abbastanza bene, grazie», mi rispose semplicemente.

    «Ci sono delle nuove cure, sai? Cure che possono far regredire la malattia e anche sconfiggerla», dissi cercando di mostrare un ottimismo che non provavo.

    «Alessandro, tranquillizzati. Sto bene. Nella lettera ho un po’ drammatizzato perché volevo che venissi. Se ti avessi detto soltanto: Vieni, ti devo parlare, probabilmente non avresti mai trovato il tempo o l’opportunità».

    «Che vuoi dire, Gigi? Che significa ho un po’ drammatizzato?», chiesi abbassando la testa in avanti. Avevo cominciato a sentire un forte calore alla base del cranio.

    «Ecco, ti è già andato il sangue alla testa, sei sempre il solito esagerato»

    «Esagerato, io?», sbottai incredulo.

    «Fammi prima raccontare», continuò lui, spostandosi velocemente. «È vero che non voglio più tornare in Italia, ma non è vero che sono malato».

    Restai in silenzio, cercando di controllarmi; poi, molto lentamente, dissi: «Vuoi dire che mi hai mentito? Che mi hai scritto che stavi per morire solo per farmi venire qua, perché dovevi parlarmi?»

    «Era l’unico modo. Altrimenti non saresti venuto».

    Lo guardai con disprezzo. Lui si spostò dietro a un tavolo per proteggersi. Cercai di prenderlo, ma lui riusciva a evitarmi approfittando del tavolo e delle sedie.

    «Ma che stronzo!», urlai alla fine. «Gigi, che sei un cazzone lo sapevo, lo sanno tutti ormai, ma stavolta hai davvero esagerato». Ero furibondo, avrei voluto prenderlo a pugni, ma il drink, la piscina, il sole e, nonostante tutto, il sollievo che non fosse in fin di vita, mi impedivano di pestarlo. Gigi lo sapeva bene, e mi guardava con quel suo mezzo sorriso furbo e malizioso.

    «Gigi, per favore, smetti di guardarmi così che mi fai incazzare ancora di più. Dimmi solo che c’è sotto. Questa volta credo che tu abbia proprio pisciato fuori dal vaso».

    «Non ancora Alessandro, non ancora, ma credo che lo farò. Una grande pisciata fuori dal vaso. E tu sei qui perché devi aiutarmi».

    «A pisciare fuori dal vaso? Ma vaffanculo», gli dissi a denti stretti.

    «Ti prego, rilassati. Goditi il sole. Sai che qui il clima è così per tutto l’anno?»

    «Fantastico Gigi, davvero interessante». Buttai giù d’un fiato il liquido arancione del bicchiere e mi tuffai in piscina, sperando che una nuotata mi avrebbe aiutato a rinfrescare la mente e ad allentare la tensione.

    Così, dopo qualche vasca e un paio di drink, Gigi cominciò a raccontarmi la sua storia:

    «Come sai, da quando ti sei sposato, ho cominciato a viaggiare da solo. Con il passare degli anni viaggiare con gli amici era diventato sempre più difficile. Le esigenze erano diverse, chi aveva i figli, chi voleva riposarsi, chi voleva tutto organizzato, chi aveva paura di volare, chi voleva spendere molto o molto poco… Io, dopo un po’, ci ho rinunciato. Sono stato in molti posti, ma negli ultimi anni sono sempre tornato in Brasile. C’è qualcosa che mi ha sempre attratto nel modo di vivere di questa gente. Il loro ottimismo, la loro bellezza. I loro corpi sono belli perché abituati a essere nudi. La loro musica è così dolce perché per loro l’amore è una cosa magica alla quale è impossibile resistere. Ho spesso pensato che mi sarebbe piaciuto cambiare radicalmente e trovare il coraggio per venire a vivere qui, ma non avevo ancora trovato l’occasione giusta».

    Lo osservavo mentre parlava. Era come se avesse perso il suo distacco, i suoi occhi brillavano e sembrava più giovane di almeno dieci anni.

    «L’anno scorso sono capitato in un’isola che si chiama Fernando de Noronha. È qui davanti, a circa trecento chilometri, in mezzo all’Atlantico. È un’isola minuscola, poco più grande della pista di atterraggio; sono stato lì per qualche giorno, ho affittato una moto e sono andato un po’ in giro per le varie spiagge dell’isola. Il posto è veramente molto bello, gli abitanti sanno che la loro risorsa più grande è la natura e si sforzano di mantenerla intatta e incontaminata. Un giorno sono arrivato su una spiaggia che si chiama Praia de Los Americanos, probabilmente perché ci vanno molti americani a fare surf…».

    «La tua perspicacia mi ha sempre impressionato!», commentai.

    «Non fare lo scemo. Insomma, vedo questa ragazza camminare sulla battigia. Io stavo ascoltando una playlist di musica brasiliana e cercavo di capire le parole. A un certo punto la vedo avvicinarsi… bellissima… Aspetta, bellissima è poco, un aggettivo non basta. Devi immaginarti la situazione. Una spiaggia enorme, bianchissima. La musica nelle mie orecchie, con le parole meravigliose di Tom Jobim, che dicevano:

    O sol já vai caindo

    E o seu olhar

    Parece acompanhar a cor do mar¹

    Insomma io ero già a mio agio; la musica, il tramonto, il fatto di essere in viaggio da solo. Improvvisamente arriva questa ragazza. Il suo modo di camminare era puro talento: come il tocco di Pelé sul pallone, la mano di Santana sulla chitarra o la penna di Jobim sul foglio di carta. La cosa che mi ha colpito di più era quel suo portamento altezzoso, il contrasto tra il volto dolcissimo e il suo atteggiamento da regina. Non l’avevo mai vista prima, e sì che l’isola è davvero piccola.

    Continuai a guardarla senza trovare il coraggio di fare nulla. Quando alla fine mi decisi lei era già lontana, correrle dietro sarebbe stato ridicolo. Avevo quarantadue anni. Credevo che lei ne avesse una ventina».

    «Perché, quanti anni ha?», chiesi preoccupato.

    «Lasciami finire, poi commenti tutto insieme. Ho pensato: Se ripassa, giuro che la fermo. Così come si fa qualche volta, tanto non ripassano mai, o se lo fanno non sono più da sole. Invece mi accorgo che sta tornando indietro. Nonostante la temperatura da forno crematorio, ho cominciato a sudare freddo. Ero emozionato come un ragazzino. Lo sai, io non sono mai stato molto bravo nell’approccio, ho sempre preferito lo sguardo, il sorriso, il bigliettino, magari qualcuno che ci presenta. Ma ormai l’avevo giurato a me stesso. A un certo punto ho pensato: Se non le dico qualcosa, avrò il rimpianto di non averlo fatto e mi darò dello stupido per almeno un mese!. Così, le sono andato incontro. Mentre mi avvicinavo cercavo di guardarla per vedere se lei ricambiasse il mio sguardo. Nulla, neanche il minimo cenno, non dico di interesse, ma almeno di riconoscimento della mia esistenza… Come se fossi l’uomo invisibile. Ormai eravamo a pochi metri di distanza, finalmente potevo osservarla con più attenzione. Ale, credimi, una dea, una meraviglia: la carnagione chiara e il seno grande, cose che per una brasiliana del nord sono piuttosto infrequenti, non molto alta, con dei fianchi strettissimi. Ero così estasiato che mi è passata accanto e non le ho detto nulla. Mi sono sentito un idiota. Così ho preso il coraggio a quattro mani, l’ho seguita e l’ho chiamata: Ehi, scusa se ti disturbo, le ho detto, ti giuro che odio quelli che fermano le ragazze che passeggiano sulla spiaggia, ma non riesco davvero a farne a meno. Lei non si è fermata, ha continuato a camminare senza rispondermi. Io mi sono affiancato, devo dire con difficoltà, perché avrei preferito starle ancora dietro e continuare a godermi la vista del suo culo sfacciato che si muoveva nervoso, come infastidito dall’interesse che gli mostravo. Per favore, parla un po’ con me, ho insistito, ci sono degli americani che ci guardano. Muovi almeno le labbra, anche per finta, così sembra che tu mi abbia risposto. Fammi fare bella figura, sai io sono italiano, ho un orgoglio da difendere. Finalmente un angolo della sua bellissima bocca si mosse, non proprio un sorriso, ma qualcosa che gli assomigliava. Un ricciolo sul labbro superiore. Lei ha la bocca grande, come la mia. Siamo gemelli di bocca».

    Era da tempo che non gli sentivo dire queste stronzate.

    «Sei innamorato perso», gli dissi con un sorriso, il primo che mi usciva da quando mi aveva rivelato di non essere malato. «Te lo ricordi quanti anni hai?». Credo di non averlo mai visto in quelle condizioni dai tempi delle prime cotte adolescenziali. Adesso riconoscevo tutti i sintomi, la faccia da scemo, il sorriso fisso, l’occhio febbricitante.

    «Gigi, rispondi a qualche domanda prima di finire di raccontarmi la storia: sei totalmente fuori di testa? Quanti anni ha questa ragazza? Perché mi hai fatto venire scrivendomi che eri molto malato?»

    «Ale, per favore, ci voglio arrivare per gradi. Tanto ormai sei qui. Non puoi ripartire, almeno fino a domani mattina, quindi rilassati, stai tranquillo e goditi la storia. Fai finta di essere al cinema. Ascoltami: continuo a camminare con lei, fino alla fine della spiaggia, mi dice che per lei è una pessima giornata, per questo è venuta a fare una passeggiata, ma che adesso deve proprio andare perché ha un bar sulla spiaggia e deve tornare al lavoro. Io le chiedo se posso rivederla, e lei, con un pizzico di malizia – io ce l’ho sentita, ma lei dice che non c’era – mi dice che se voglio andare al bar, lei non può impedirmelo. Ci sono andato tutte le sere. Dovevo partire per andare in Amazzonia, ma ho rinunciato al viaggio, sono

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