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Nella storia d'amore di qualcun altro
Nella storia d'amore di qualcun altro
Nella storia d'amore di qualcun altro
E-book381 pagine5 ore

Nella storia d'amore di qualcun altro

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Info su questo ebook

Per una giovanissima madre single come Shandi Pierce la vita è un gioco di destrezza: deve finire il college, crescere da sola suo figlio Natty un delizioso genietto di appena tra anni e mantenere la pace tra una madre cattolica e un padre ebreo che, nonostante siano divorziati da anni, continuano a scontrarsi. Come se non bastasse, si ritrova coinvolta in una rapina a mano armata in una stazione di servizio e finisce per innamorarsi perdutamente di William Ashe, l'uomo che si è messo in mezzo tra suo figlio e la pistola del rapinatore. Shandi non sa che anche quel gigante biondo bello come un dio nordico ha i suoi problemi. Mentre guardava dritto nella canna della pistola, William era convinto che quello fosse il suo destino... Ma del destino lui ha un'idea tutta sua: brillante genetista che crede nella scienza e nei numeri, è convinto infatti che la sorte non sia altro che una serie di scelte, più o meno obbligate. E adesso entrambi stanno per scontrarsi con ciò che la vita ha in serbo per loro e per fare scelte che li porranno di fronte a verità inaspettate sull'amore, sulla vita e su molte altre cose che erano convinti di sapere.



Brillante e al tempo stesso profondo, Nella storia d'amore di qualcun altro parla di scienza e miracoli, di fede e perdono, e di come spesso, per trovare ciò di cui abbiamo bisogno, dobbiamo prima scoprire cos'è che vogliamo
LinguaItaliano
Data di uscita29 giu 2017
ISBN9788858968543
Nella storia d'amore di qualcun altro

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    Anteprima del libro

    Nella storia d'amore di qualcun altro - Joshilyn Jackson

    Dickinson

    PARTE PRIMA

    PROIETTILI

    La fede è una bella invenzione quando gli uomini sono in grado di vedere

    ma i microscopi sono più adeguati nell’emergenza.

    Emily Dickinson

    1

    Mi sono innamorata di William Ashe sotto la minaccia di una pistola, in un Circle K. Era un venerdì pomeriggio, in Georgia, alla fine di un'estate assurda, così calda che sembrava avessero messo l'aria a bollire. Fissavamo entrambi la canna di una vecchia calibro 32 arrugginita, che poteva tranquillamente mandarci al creatore come una pistola nuova di zecca.

    In quel momento pensavo di essere stata catapultata nel peggiore degli incubi, non in una storia d'amore. Le storie d'amore cominciano con un bacio, o con un colpo di fulmine, non con un colpo di pistola nel minimarket di una stazione di servizio. Anzi due, perché la prima pallottola se la beccò la poliziotta.

    Comunque, eccoci lì, William immobile come un sasso in uno stagno, io con una bottiglia di Coca-Cola in mano che faccio tremare come in preda a un attacco epilettico. Col nero occhio della pistola che ci scruta entrambi. Eppure, diciassette secondi dopo, prima ancora di sapere il suo nome, sono già perdutamente innamorata di lui.

    Non ho mai avuto un angelo sulla spalla; sono nata con un diavolo dalla coda a punta che mi scivolava da una parte all'altra del collo per sussurrarmi nelle orecchie. Non ho avuto una madrina fatata e nemmeno un grillo parlante a farmi da coscienza.

    Però qualcuno avrebbe dovuto dirmelo. Quel pomeriggio, nel Circle K, meritavo di sapere subito che ero caduta, bang, in una storia d'amore. Soprattutto perché non era, non è, e non sarà mai la mia.

    Alle undici di quella mattina l'ultima cosa a cui potevo pensare era di ritrovarmi coinvolta in una sparatoria e di essere catapultata nella storia d'amore di qualcun altro. Trascinavo giù per le scale un borsone con quasi tutti i miei averi cercando di non piangere, o peggio, di non mostrare la felicità che avevo in corpo. Mia madre, una donna notoriamente poco conciliante, stava sulla porta della cucina, in controluce, con la sua faccetta avvilita.

    Volevo andare, ma se l'avessi guardata negli occhi mi sarei messa a piangere come un neonato. Per diciassette anni – da quando io ne avevo quattro e i miei genitori si separarono – quel bungalow di mattoni sul fianco della montagna era stato la mia casa. Se io fossi scoppiata a piangere l'avrebbe fatto anche lei, e a quel punto il mio bambino se la sarebbe fatta addosso. Allora saremmo rimaste lì in lacrime ad abbracciarci, col risultato che io e Natty non ce ne saremmo più andati. Invece, strinsi i denti e guardai sopra la sua testa. E in quel momento mi accorsi che aveva tolto l'immagine di Gesù in preghiera che stava sopra il divano da che ho memoria. L'aveva rimpiazzata con un Buon Pastore che mi bloccò sulle scale esterrefatta.

    Il nuovo Gesù le somigliava, sembravano due gocce d'acqua.

    Era supercarino, magro ed elegante. Lui pure era in controluce, davanti a un prato anziché a una cucina, e con un agnello in braccio, anziché una spatola. Lei non era mai stata al sole senza un cappello in testa e senza coprirsi di crema solare 50, e questo Gesù aveva la sua stessa carnagione bianca come l'avorio. Avevo molto più l'aria io di un'ebrea. Loro avevano la stessa folta capigliatura, castana con riflessi dorati, e gli stessi occhi azzurri come il fiordaliso rivolti mestamente verso l'alto, per guardarmi mentre cercavo di scendere le scale con una sacca di venti chili. Ma nessuno dei due si offrì di darmi una mano.

    Mia madre non era assolutamente disposta a vedermi andare via e il pensiero di dover battagliare per uscire da quella casa mi faceva venire voglia di lasciarmi cadere e morire lì sulle scale.

    «Mimmy, non rendere tutto più difficile. È la cosa migliore» dissi, ma lei non si spostò di un centimetro, circonfusa di una tristezza piena d'amore. Quando fa quell'aria carina ti tira pazza. È una cosa rivoltante, ma ha sempre funzionato con tutti, a volte anche con me.

    «Forse per te» ammise. «Ma Natty?»

    Uno a zero per lei. Stavo barattando la montagna della mamma – i suoi alberi, i cervi e la luce del sole – con il trilocale di mio padre, moderno ed elegante, in pieno centro città. Ma non dissi niente, solo: «Oh, Mimmy».

    Avevamo litigato così per tutta la settimana. L'appartamento di mio padre si trovava a dieci minuti dal campus della Georgia State, mentre da casa di mamma dovevo farmi quattro ore di macchina fra andata e ritorno. Dovevo organizzarmi i corsi a seconda delle ore di punta facendo pure in modo che si svolgessero di martedì/giovedì o lunedì/mercoledì/venerdì. Bastava questo a trasformare in un'impresa anche il solo prendere un caffè con qualcuno, e Mimmy non mi aiutava certo a rendere più semplice la mia vita sociale. Negli ultimi diciassette anni aveva boicottato tutto ciò che era dotato di un cromosoma Y. Anche il suo gatto era femmina, ed era noto che mi cambiava i turni nella sua pasticceria se sapeva che avevo un appuntamento romantico. Mi sarei trasferita da mio padre già da un pezzo se Bethany, la mia matrigna, glielo avesse consentito.

    Cosa che non aveva mai fatto. Almeno fino alla settimana prima, quando erano arrivati i risultati degli ultimi test di Natty. Papà glieli aveva fatti fare dopo che Natty aveva imparato a leggere da solo. Dicevano che l'IQ del mio bambino volava oltre 140, ponendolo saldamente nella categoria dei geni. A tre anni poteva già fare domanda d'iscrizione al fottutissimo Mensa.

    Bethany – lei in persona, non papà – mi aveva chiamato per dirmi che l'appartamento era a mia disposizione. Un fatto davvero inaspettato. Era stata proprio lei a dirmi che non ero invitata per Passover, visto che era in arrivo tutta la sua famiglia e che il tavolo da pranzo aveva solo un certo numero di posti. Qualche giorno dopo papà avrebbe fatto qualcosa di grandioso e gentile nei miei confronti, come se le due cose non fossero collegate.

    Ma questa volta Bethany aveva assolutamente voluto parlarmi, tanto da chiamarmi a casa della mamma dopo avermi cercata inutilmente sul cellulare. Una mossa arrischiata. Mimmy e Bethany erano come la materia e l'antimateria. Metterle in contatto poteva scatenare un'esplosione da far sobbalzare il pianeta sparandolo dritto contro il sole. Per fortuna ero stata io a rispondere. Dopo un rapido e gelido scambio di convenevoli mi misi in attesa della bomba che mi aveva sicuramente confezionato. Lei si schiarì la voce e attaccò un monologo che aveva tanto l'aria di essere stato a lungo provato: «Allora, visto che Nathan sembra essere mostruosamente intelligente, David vuole aiutarti a trovargli un asilo migliore da un punto di vista didattico. Pur sapendo che non abbiamo molta scelta in questo schifo di posto».

    Giuro che riuscivo a sentire le sottili narici del suo naso, lungo ed elegante, che si dilatavano disgustate al telefono mentre lei finiva la frase. Era un codice preciso. L'anno scorso avevo quasi fatto morire mio padre (ebreo) iscrivendo Natty all'asilo della chiesa battista che frequenta la mamma. Natty e io abbiamo smesso di andare in chiesa o in sinagoga, che è un bel passo avanti rispetto a quando io ero bambina e mi toccava frequentarle entrambe. Papà allora si era offerto di pagare la retta se avessi trasferito Natty in una scuola migliore.

    «Sono sicuro che non è l'unico asilo nelle vicinanze» aveva detto.

    «Certo» gli avevo risposto. «Se preferisci, posso mandare Natty in quello dei metodisti.»

    Intanto Bethany continuava: «Vuol dire trasferirsi ad Atlanta. So che tua madre non sarà tanto disposta a considerarla un'opportunità. La gente di campagna può essere davvero miope, soprattutto se si parla di istruzione. Ma i benefici... credo che ogni genitore degno di questo nome può vederli da sé». Fece uno sbuffo di stizza e disprezzo, e finalmente venne al nocciolo della questione. «Tu e Natty potete stare in casa nostra. Vi mettiamo una linea telefonica, e potrete sistemarvi le camere da letto al terzo piano come vi pare. Non sono sicura che tuo padre sia pronto a vedere occupate le stanze libere, per cui qualche volta potreste trovarvelo a fare un sonnellino nella camera grande. A parte questo, comunque, potrete ritenervi a casa vostra.» Fece una pausa, poi aggiunse, in tono pungente: «Per quest'anno». E nel caso non avessi capito bene: «Voglio dire, finché non ti laurei».

    Era un numero di vecchia data ma sempre stupefacente, il modo più sicuro per iniziare a litigare. Anche la frecciatina sulla Contea di Lumpkin! Certo, eravamo dei campagnoli, ma non quel genere di campagnoli, e lo sapeva benissimo. Se aveva sperato di riuscire a dissuadermi facendomi rinunciare a una soluzione che sognavo, be', si era sbagliata di grosso. Feci la gentile e risposi certo, sì, oh certo, cercando di chiudere la telefonata il più in fretta possibile.

    Mollai il mio borsone davanti alla porta d'ingresso, vicino alla valigia Blue's Clues di Natty e il cestino della biancheria pieno di libri, calze e giocattoli. Mi avvicinai alla mamma, la cinsi in vita con le braccia e affondai il volto nei suoi capelli. Odorava di vaniglia.

    «Sei la Mimmy migliore del mondo. Non so come avrei fatto con Natty senza di te. Non avrei mai potuto farcela a occuparmi di lui e frequentare contemporaneamente il college. Ma adesso ho ventun anni. Io e Natty dobbiamo andare avanti da soli. È un bel momento e un passo importante.»

    Lei scosse la testa. «Che tu e Natty vi trasferiate in una nuova casa è per forza un bel momento. È un rito di passaggio. Dovrei organizzarvi una festa d'inaugurazione. Ma non so come si possa festeggiare il fatto che vi trasferite in casa di quell'orrido individuo.»

    Lasciai cadere il riferimento all'orrido individuo e dissi semplicemente: «Non sto andando a vivere con lui».

    Papà, Bethany e i miei tre fratellastri abitavano in un villone gigantesco di pietra e stucco a Sandy Springs. Non c'era rischio che potessi mai condividere con Bethany lo stesso tetto. Parlando con mia madre la chiamavo la mia frigoriferigna, ma con il mio migliore amico, Walcott, andavo giù molto più pesante. Se lo meritava anche se, a essere onesti, sono sicura di essermi a mia volta meritata tutti gli insulti che in privato lei può avermi rivolto.

    Mimmy stava per dire qualcosa, ma in quel momento udimmo Walcott che scendeva le scale pestando le sue grosse fette sui gradini. Stava portando giù quasi tutti i miei vestiti, ancora appesi alle grucce, tenendoli stretti al petto.

    «Perché hai così tanti vestiti?» chiese.

    «Perché sono una ragazza» risposi.

    Mia madre lanciò un'occhiata alla mia roba e disse: «La vera domanda è: perché ti vesti come una divorziata francese di quarant'anni?».

    «Mi piace il vintage» dissi, avvicinandomi a Walcott per dargli una mano. Era una bella pila di roba, quasi tutta comprata nei mercatini dell'usato o a vendite di beneficenza scavando in montagne di jeans slavati delle nostre mamme per cercare la gonna a ruota giusta o un perfetto wrap-dress da due dollari.

    Walcott mi scacciò con un gesto della mano, tenendo sempre i miei vestiti stretti fra le braccia, e si diresse verso la porta.

    Con voce angustiata la mamma disse: «Non puoi caricare per primi i vestiti da appendere. Si rovineranno tutti e toccherà stirarli un'altra volta».

    Walcott si fermò, come un bravo bambino ubbidiente, e posò i vestiti sul mio borsone, lanciandomi una delle sue tipiche occhiate storte da martire. Era venuto il giorno prima dalla casa delle sue mamme per aiutarmi a fare le valigie, dandomi così la centomilionesima prova della sua amicizia. Oggi mi avrebbe aiutato a caricare la macchina e a intrattenere Natty durante il viaggio verso la nostra nuova dimora. Che era una specie di condominio su tre piani. Cucina e soggiorno stavano al pianterreno, mentre l'appartamento di papà occupava l'intero primo piano. Natty e io ci saremmo sistemati nelle due stanze con bagno in comune al secondo. Walcott, essendo Walcott, avrebbe portato su il bagaglio più pesante, mentre noi ci saremmo occupati dei cuscini e delle sacche piene di scarpe. Non avrei nemmeno dovuto riaccompagnarlo indietro, mi sarebbe bastato scaricarlo a casa della sua fidanzata in Inman Park.

    Mi aveva sempre coperto di attenzioni simili, da quando avevamo cinque anni ed eravamo due pesci fuor d'acqua in una scuola elementare di bambini bianco-latte in una contea così bianca che più bianca non si può. Ero l'unica mezz'ebrea nel raggio di molti chilometri, mentre Walcott era figlio di sperma donato a una coppia di lesbiche che si erano trasferite da Atlanta per coltivare ortaggi biodinamici e mettere su un bed & breakfast fra le montagne, un posto per donne che la pensavano come loro. Le mamme di Walcott sposavano ogni genere di comportamento sospetto, inclusa la meditazione Zen e l'idrocultura. Dove stavamo noi, quelle parole suonavano estranee come Rosh Hashanah, Seder e Pesach, strani riti che mi permettevano di saltare qualche giorno di scuola per stare con mio padre ad Atlanta, dove di certo non pitturavo le porte con il sangue dell'agnello né bruciavo giovani colombe.

    Io e Walcott avevamo combattuto uniti, schiena contro schiena e con le spade sguainate, per sopravvivere nei campi giochi dominati dai selvaggi. Qui però era Mimmy a lanciargli le occhiatacce che riservava a quei poveri maschi disgraziati che finivano nella rete della sua piccola, immacolata delizia e chiedevano di portarla fuori. Sapeva benissimo che Walcott non aveva mire sessuali nell'aiutarmi a traslocare, ma ogni tanto si ricordava che anche lui, tecnicamente, apparteneva alla metà del genere umano dotata del pene. Allora gli scoccava quella tipica occhiata sinistra e minacciosa. Cosa che aveva cominciato a fare già da quando andavamo insieme all'asilo. A quell'epoca lui mi aveva mostrato il suo pisello come per sfida, e a me era parso un innocente bitorzolo rosa, chiaramente incapace di fare del male a chicchessia.

    «Questa era l'ultima rimasta di sopra. Adesso mangiamo qualcosa prima di caricare tutto in macchina» disse Walcott.

    «Purché ci mettiamo per strada non dopo le due. Non voglio scaricare al buio.»

    «Preparo subito qualcosa» disse mia madre illanguidita. Ma era tutta una finta. Vidi i suoi occhi scuri guardarmi di soppiatto mentre scompariva in cucina, dopo aver preso lo slancio appoggiando le spalle alla porta d'ingresso.

    «Ehi, sei troppo nervosa» disse Walcott sogghignando. A un estraneo sarebbe parsa una donna in preda a un leggero, educato dispiacere, ma pur sempre in pace col mondo e i suoi abitanti. Io e Walcott, però, eravamo cresciuti insieme, sempre in casa dell'uno o dell'altra. Poteva decodificare lo stato d'animo della bella d'un tempo e di sempre dal colore del rossetto o dalla posizione dei pettini di tartaruga nei capelli, esattamente come potevo farlo io.

    «È pronta al peggio, e il peggio sono io» dissi.

    «Non posso aiutarti in questo. Nessuno lo può.» Si lasciò cadere sulla poltrona consunta. «Ma posso recitarti una poesia? L'ho scritta per te, proprio per quest'occasione.»

    «No, grazie» risposi in tono affettato.

    «Ma è bellissima» insisté Walcott. Si schiarì la gola e tirò fuori una voce da falso poeta beat, profonda e pretenziosa: «Ahimè! L'ebrea della Contea di Lumpkin subisce un nuovo esilio. Come Mosè...».

    «Niente poesie con me, Walcott. So benissimo a cosa ti servono.»

    Prima che si mettesse, in modo anche piuttosto serio, con Cecilia, la sua tattica era citare versi osé di John Donne o Shakespeare a ragazze mezzo sbronze della facoltà di Matematica.

    «Comunque funzionano» rispose. «Una volta le ho utilizzate per fare un filo spietato a una magrolina di Letteratura inglese con un grosso naso.»

    «Quel che si dice un naso nobile.»

    «Supernobile. Arcinobile. Per mia fortuna le ragazze apprezzano il pentametro giambico. E la mia poesia? Non è per sedurti. È in versi liberi, e in qualche modo geniale. Tu vaghi quaranta giorni e quaranta notti nel Piedmont Park, seguendo il fumo che esce da una pipa di crack durante il giorno e un focoso prostituto trans durante la notte.»

    «Sei proprio uno stupido» gli dissi, ma come sempre era riuscito a farmi sentire meglio. «Adesso basta, però. Devo mettere tranquilla Mimmy. Potremmo andare in cucina con della frutta. Buttare una vergine nel suo vulcano.»

    «Dove pensi che riusciremmo a trovare una vergine?» chiese, come un comico consumato.

    Mi avviai verso la cucina ma mi fermai davanti al quadro. Il nuovo Gesù, con le mèches fresche di parrucchiere, aveva quegli occhi da zio Sam che ti seguono dappertutto.

    Walcott seguì il mio sguardo, inclinando la testa per guardare. «Oh cazzo! Dov'è finito il Gesù in preghiera?»

    Scrollai le spalle. «Che ne so?»

    «Shandi, quello è tua madre con la barba.»

    «Già. Mi irrita. Non credo che Gesù fosse così...»

    «Sexy» disse Walcott, ma stava guardando verso la cucina dove si trovava mia madre. Tirai su una felpa di Natty dal cesto della biancheria e gliela scagliai addosso. Walcott la prese al volo, ridendo. «Ehi, non si butta Yellow Friend!» e rimise delicatamente la felpa fra i vestiti di Natty. «So com'è tua madre, ma adesso esageri.»

    Non potevo dargli torto. Mia madre aveva quarantaquattro anni ma sembrava dieci anni più giovane, e non aveva la minima intenzione di passare per ex bella donna. Se io fossi nata con le labbra carnose e gli zigomi appuntiti, invece che con la faccia tonda e i tratti regolari, avrei fatto esattamente come lei.

    «È pronto» gridò la mamma, e ci mettemmo tutti seduti al tavolo in cucina. Natty era già al suo posto, appollaiato sul seggiolino col naso incollato alla superficie del tavolo. Aveva la faccia quasi completamente coperta dal suo Grande libro degli insetti ma si capiva che quel trasloco lo metteva in ansia. Tutte le sue automobiline – ambulanze e macchine della polizia – erano allineate davanti al piatto, e indossava tre pezzi diversi dei suoi costumi più arditi: la cerata gialla da pompiere, la tuta bianca da astronauta e il berretto da pilota d'aereo.

    «Santo cielo, Capitano Pompiere dello Spazio, ha per caso visto in giro mio figlio?» chiesi.

    «Sono io» rispose Natty.

    «Strano» disse Walcott. «Com'è che un Capitano Pompiere dello Spazio può trasformarsi in Natty Bumppo?»

    Il mio piccolo pedante abbassò la voce, fulminando Walcott con un'occhiataccia: «Sono travestimenti, Walcott. Sono sempre io».

    Mi sedetti di fianco a lui e dissi: «Meglio così, perché tu sei il mio preferito».

    Walcott prese posto di fronte a me.

    «Mimmy ha fatto la torta di frutta» disse Natty con quel tono di voce solenne che era una sua specialità.

    Annuii, rimanendo seria. «Ottimo.»

    «Mimmy dice che devo mangiare i piselli» aggiunse con lo stesso tono di voce; era chiaro che la considerava un'ingiustizia.

    «Mimmy ha perfettamente ragione» dissi.

    Ci venne riempito il piatto, ordinatamente disposto su una tovaglietta di pizzo. Mia madre si sedette a capotavola e chinammo tutti la testa.

    Guardando nel piatto mentre la mamma faceva quattro intime chiacchiere prepasto con Gesù, mi resi conto di avere mal valutato il suo stato d'animo. Non era triste, né abbattuta. Aveva fatto il pollo fritto con il purè di patate, i piselli e le focaccine, riempiendo poi i nostri piatti di sugo.

    Tutta roba che mi propinava solo quando era furibonda. Nella sua testa, la cosa più cattiva che si poteva fare a una donna era regalarle un cestino di caramelle fondenti. Lei andava a insalata verde e petti di pollo alla piastra. E avrebbe potuto tranquillamente indossare il suo abito da sposa se non l'avesse bruciato in salotto quando avevo l'età di Natty. Poi aveva tirato su me e la mia roba ed era tornata a stare qui, dove era cresciuta.

    Malgrado la rabbia che aveva in corpo, snocciolò una litania di ringraziamenti per il cibo, la salute, la famiglia, mettendo anche una buona parola per i Bulldogs che stavano per cominciare il campionato. Ma senza esagerare: non chiese al Signore di far capire la sua volontà a quella testarda di sua figlia. In passato, la volontà di Dio aveva così spesso combaciato con quella di mia madre che a lei era sempre parso utile menzionarla. Questa volta, invece, chiuse dopo il football con un amen, e io la feci passare di categoria, da semplicemente furibonda a livida di rabbia.

    Natty bofonchiò un amen e si mise a far correre avanti e indietro una delle automobiline della polizia. Walcott si buttò sul cibo, gemendo di piacere al primo boccone. Avrebbe mangiato tutto quello che aveva nel piatto e poi avrebbe probabilmente finito anche il mio, senza che io riuscissi a capire dove mettesse tutta quella roba. Era alto un metro e ottanta e sembrava una treccia di liquirizia.

    «Mangia, tesoro» dissi a Natty.

    «Un attimo. Sto valutando i piselli» rispose, e io sorrisi per il suo vocabolario da piccolo adulto.

    Mia madre si era servita una grossa porzione, come le nostre: tagliò un bel pezzo di carne, lo strofinò nel purè e se lo mise in bocca senza tanti complimenti. Strabuzzai gli occhi. Credo di aver visto mia madre mangiare polisaccaridi solo tre anni fa, quando mio padre decise di pagarmi l'intera retta della Georgia State University.

    Avevo sempre saputo che l'avrebbe fatto, ma Mimmy temeva che non avrebbe più scucito un soldo per me una volta finito l'obbligo di contribuire al mio mantenimento disposto dal tribunale. Non avevo diritto a molte delle borse di studio, anche se ero uscita dal liceo con il massimo dei voti. Avevo passato l'ultimo anno a casa, occupandomi di Natty e preparandomi al test di ammissione. Quando era arrivato l'assegno di papà, lei era andata a prendere nel freezer la vecchia scatola di Girl Scout Thin Mints e se ne era mangiati due, che per lei era una specie di orgia calorica. Aveva comprato quei biscotti almeno quattro anni prima e non aveva ancora finito il primo strato.

    Adesso era lì seduta in silenzio, a masticare quello che doveva essere il miglior boccone entrato nella sua bocca in questo decennio, anche se aveva l'aria di non goderselo minimamente. Cercò di inghiottirlo ma si fermò. All'improvviso cambiò volto, come se le avessero detto che stava mangiando la coscia del suo miglior amico. Sputò il bolo nel tovagliolo e si alzò di scatto, facendo stridere le gambe della sedia sul vecchio parquet.

    Natty continuò a muovere avanti e indietro la macchinina sul tavolo, ma notai che la seguì con lo sguardo mentre si precipitava fuori dalla stanza.

    «Mimmy è okay» gli dissi.

    «Mimmy è okay» ripeté Natty, muovendo l'automobilina avanti e indietro al ritmo di un'intima tristezza. «È solo perché ce ne andiamo lontano per l'eternità.»

    Ero già pronta ad alzarmi per andare a parlare con la mamma, ma mi fermai. «Natty! Non andiamo affatto lontano, e possiamo venire a trovarla quando vogliamo.»

    «Non lontano» disse Natty senza alcuna convinzione. «E possiamo venire a trovarla.»

    «Sarà divertente vivere ad Atlanta. Passeremo un mucchio di tempo con Walcott una volta cominciata la scuola, e tu potrai andare all'asilo e farti un sacco di amici.» Incrociai lo sguardo con Walcott, lui sapeva esattamente perché avevo deciso di trasferirmi. Qui tutti avevano capito che Natty era un piccolo genio, probabilmente anche prima di me, e questo aveva ridato il via a tutte le illazioni su chi potesse essere suo padre. E Natty, che capiva molto più di qualunque bambino di tre anni, aveva cominciato a fare domande. Fino a poco prima le sue infantili cognizioni di biologia mi avevano permesso di dirgli la semplice verità: un padre lui non l'aveva.

    Ma come puoi spiegare a un bambino che non è ancora andato a scuola, anche se intelligente come Natty, che sua madre era ancora vergine un anno dopo la sua nascita? Dico vergine in tutti i sensi, perché quando finalmente feci del sesso, scoprii che il mio imene era uscito indenne dal taglio cesareo. Come potevo dire a mio figlio che la sua esistenza era il solo miracolo in cui avrei mai potuto credere?

    Se i vicini, o qualche conoscente, erano così sfacciati da chiedere, rispondevo con una battuta per dire che non erano fatti loro. Ma Natty meritava più di questo. Forse avrei dovuto inventarmi una storia. Magari un grande amore sfortunato interrotto da una morte improvvisa e sufficientemente credibile. Se non l'avevo ancora inventata era perché non volevo mentirgli. D'altra parte dirgli la verità era fuori discussione. Anche perché così avrei dovuto spiegargli tutto quello che riguarda il sesso, mentre Natty era ancora fermo al papà che dà uno spermatozoo e la mamma che dà un uovo, e bingo-bango-bongo viene fuori un bambino. Non era interessato a capire come lo spermatozoo e l'uovo si incontrano. Tantomeno a come potessero incontrarsi nella pancia di una donna prima che questa fosse mai arrivata neanche ai preliminari.

    Ma Natty aveva una domanda ben diversa da farmi: «Mimmy sta per morire?».

    «No!» risposi. «Cosa ti salta in mente?»

    «L'ho sentita dire al telefono che sarebbe morta, proprio morta, quando ce ne saremmo andati» rispose Natty. Sentii nelle sue parole l'inflessione di mia madre mentre diceva morta, proprio morta.

    «Mimmy vivrà più a lungo di tutti noi» dissi, aggiungendo sottovoce a Walcott: «Se non l'ammazzo prima io».

    Walcott sorrise a Natty e disse: «È così. Mimmy vivrà più a lungo di tutti noi e avrà un'aria furente ai nostri funerali».

    «Verremo a trovarla spessissimo e lei non morirà» aggiunsi, lanciando a Walcott uno sguardo rasserenante. «Adesso vado a chiamarla e così te lo dirà lei stessa.»

    Lasciai Natty a quel santo di Walcott, che chiese a Natty se non gli avrebbe fatto piacere ascoltarlo mentre recitava una poesia intitolata Jabberwocky.

    Andai in camera da letto di mia madre, una specie di confetto rosa e ambra. L'avevo disegnata io per metterla nel curriculum con cui accedere al corso di interior design della GSU. Era iperfemminile senza essere troppo ovattosa, e il tocco di rosa alle pareti si accordava con i colori della mamma. Lei ci stava come un gioiello nella sua custodia, anche se in quel momento era di umore troppo nero per il rosa delicato delle tende.

    «Non va bene, Mims» le dissi. «Non va affatto bene. Devi cercare di trattenerti.»

    Avrei voluto aggiungere dell'altro ma lei si voltò verso di me con la bocca raggrinzita e due grosse lacrime agli occhi. Si lanciò verso di me e mi abbracciò. «Mi spiace! Ti chiedo scusa!»

    Le accarezzai le spalle, totalmente disarmata. «Momma...» dissi. Il modo in cui la chiamavo, prima che venisse sostituito da quello di Natty.

    «Mi sono comportata male, soprattutto in presenza di Natty. Malissimo.» Lo disse in un sussurro impetuoso, con le lacrime che le rigavano il volto. «Sono un essere orribile. Ripugnante e tremenda, ma... Shandi, non riesco a farmene una ragione. Natty si dimenticherà della sua Mimmy e si ingrazierà quell'uomo... quell'uomo disgustoso! E peggio ancora, si dimenticherà di chi è!»

    Sospirai nell'udire quell'accenno a papà. «No» dissi, «non lo farà. Non glielo permetterò.»

    Ci sedemmo sul letto, con le sue mani ancora aggrappate alle mie braccia. Lei sollevò il mento con fierezza.

    «Voglio che tu porti una cosa in quella casa, Shandi» e indicò con la mano qualcosa alle mie spalle. Mi voltai e vidi la sua foto preferita, una foto fatta l'estate precedente a Myrtle Beach. Ritraeva Mimmy e Natty mano nella mano, con l'acqua dell'oceano che gli turbinava intorno alle caviglie. Ne aveva fatto un ingrandimento 24 x 30 e l'aveva incorniciata per tenerla appesa nella sua stanza da letto. Adesso era appoggiata sul comodino. «Voglio che si ricordi di me. Di più. Voglio che Nathan non si dimentichi mai di chi è.»

    «Okay» risposi, anche se non ero sicura di cosa avrebbe detto papà nel vedermi appendere in casa una gigantesca foto della sua ex moglie in bikini. Di certo sapevo cos'avrebbe detto Bethany. «Vedrò di farlo.»

    «No, non vedrò. Dimmi che lo farai davvero.»

    Sospirai. Natty non aveva mai passato più di un fine settimana lontano da Mimmy e forse avrebbe avuto bisogno di quella foto. Avrei potuto metterla in camera di Natty, in modo che papà non dovesse averla sempre davanti. E Bethany non si spingeva mai a sud dell'isola pedonale di Buckhead con i negozi per ricchi. Se fosse passata da noi per un qualunque motivo, avrei potuto nasconderla sotto il letto.

    «D'accordo. L'appenderò da qualche parte.»

    Mimmy scosse la testa con aria truce. «Me lo devi giurare. Giurami su ciò che hai di più sacro che lo appenderai, a dispetto di tutto.» E mi affondò le dita nelle braccia.

    Ci pensai su un secondo. Ero cresciuta fra due religioni, al centro di una guerra ideologica, con entrambi i contendenti a fare a pezzi le icone dell'altro, finché alla fine non ci avevo capito più niente e avevo optato per l'indifferenza. E così non c'era più niente di sacro per me.

    Dissi: «Giuro sulla tomba del mio amato cane Boscoe, e su tutte le membra di Walcott, e... non giuro niente su Natty in senso stretto, ma posso giurare sulle sue ciglia. Sono le cose più sacre che ho».

    Mia madre sorrise, radiosa, con gli occhi lucidi di lacrime e senza la sua solita boria. Piangeva con grazia.

    «Bene» disse. «Bene.»

    Si alzò in piedi, allargò le braccia e si stiracchiò, poi mi passò di fianco e si avvicinò al comodino. Mi voltai a guardare, ma lei non prese la foto. Tirò su invece un grosso pacco rettangolare avvolto in carta da imballaggio che stava dietro al comodino, sufficientemente alto da essere visibile.

    «L'ho già impacchettato.»

    Sapevo cosa conteneva, ovviamente, per via della forma e della misura. La foto di Myrtle Beach era stata un'esca, il quadro che voleva farmi appendere in casa di papà era quello che stava nascosto dietro, anche se in bella vista. E lei non era affatto

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