Dreamology
Di Lucy Keating
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Info su questo ebook
Un esordio da sogno
Un successo del passaparola
Per quanto Alice può riuscire a ricordare, Max è sempre stato parte integrante dei suoi sogni. Insieme hanno girato il mondo, vissuto esperienze straordinarie e si sono innamorati alla follia. Max è il ragazzo perfetto… Peccato che non sia reale. Perché Max non esiste. O almeno, così ha sempre pensato Alice. Fin quando entra nella sua nuova classe, il primo giorno di scuola, e… non riesce a credere ai suoi occhi: il suo Max è lì, davanti a lei, in carne e ossa. Ben presto però dovrà fare i conti col fatto che il Max reale è molto diverso dal Max dei sogni. Il Max reale è testardo e problematico, ha una vita complicata e intensa, di cui Alice non fa parte, nonché una ragazza, Celeste. Anche il loro incontro e il loro rapporto non sono così perfetti come lei aveva sperato. Quando si è vissuto un amore da sogno, ci si potrà mai accontentare della realtà?
E se il ragazzo dei tuoi sogni esistesse davvero?
Un bestseller internazionale
Tradotto in 13 Paesi
«Un divertente giro sulla giostra dell’amore.»
VOYA
«Alice è un vero spasso, una protagonista con senso dell’umorismo. E i lettori si divertiranno molto a unirsi a lei nel suo viaggio dentro e fuori dai sogni.»
ALA Booklist
«Un dolce, romanticissimo racconto, molto originale e con dei personaggi indimenticabili. La Keating è particolarmente brava a catturare la natura surreale del sogno.»
School Library Journal
Lucy Keating
Vive a Los Angeles, anche se è cresciuta a Boston, nel Massachusetts. Ha frequentato il Williams College nel Berkshires, e le manca molto la costa orientale degli Stati Uniti. Quando non scrive ama rilassarsi ascoltando musica, inventando nuovi gusti di gelato o intrattenendosi in lunghe e del tutto plausibili conversazioni con il suo cane, Ernie.
Lucy Keating
Lucy Keating lives in Somerville, Massachusetts, with her tall, smiley husband and short, scruffy dog. She’s been writing and editing teen romance for twelve years professionally, and for many years before that. In addition to writing, reading, and watching absolutely everything, Lucy enjoys baking, taking weekend road trips in beautiful New England, and rewriting pop songs in tribute to her dog, who is unappreciative. Visit Lucy at www.lucykeating.com.
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Anteprima del libro
Dreamology - Lucy Keating
1352
Titolo originale: Dreamology: a Love Story
Copyright © 2016 by by Alloy Entertainment
All rights reserved.
Published by arrangement with Rights People, London
Produced by Alloy Entertainment, LLC
Traduzione dall’inglese di Tiziana Sterza
Prima edizione ebook: ottobre 2016
© 1989, 2006, 2016 Newton Compton editori s.r.l., Roma
ISBN 978-88-541-9836-4
Realizzazione a cura di The Bookmakers Studio editoriale, Roma
www.newtoncompton.com
Lucy Keating
Dreamology
Romanzo
Newton Compton editori
Alla mia famiglia
e alle nostre cene di fine estate,
durante le quali ho imparato a raccontare una storia.
28 agosto
Mi trovo proprio al centro del salone d’ingresso del Metropolitan Museum of Art, a un metro esatto dal punto in cui, il giorno del mio decimo compleanno, appena fuori dal padiglione egizio, vomitai. Stavolta, però, non ci sono marsupi, né rumori di scarpe da ginnastica che scricchiolano sui pavimenti tirati a lucido. Questa volta, ai miei piedi non c’è una pozza di vomito color rosa vivace (lamponi, se v’interessa), punteggiata di cereali, («Solo al tuo compleanno», disse papà, per non ripeterlo mai più). Indosso un abito da sera che pesa sei chili, tempestato di cristalli, proprio come quello che Beyoncé ha indossato ai Grammys. Stasera, le luci brillano abbaglianti, e la gente mormora e mi guarda. Stasera, per qualche ragione, io sono qualcuno. Sorseggio champagne mentre mi muovo leggera di stanza in stanza, ammirando le opere d’arte. Ed è qui che Max mi trova, di fronte alle ballerine di Degas, nella sezione dedicata agli impressionisti.
«Sai, anch’io so ballare». Fa scivolare un braccio attorno alla mia vita, e all’istante tutto il mio corpo si scalda.
«Dimostramelo», dico. Non ho bisogno di distogliere lo sguardo dal dipinto per percepire i suoi occhi su di me, per capire che sta sorridendo. Ho la mappa del suo viso stampata nel cervello, millimetro per millimetro, di tutti i suoi piccoli vezzi. Ho sempre paura di dimenticarlo.
Mi afferra per il braccio e mi fa fare un giro su me stessa, mentre io chiudo gli occhi. Quando li riapro, siamo nel giardino panoramico e stiamo ondeggiando. Gli arbusti sono ricoperti di lucine scintillanti.
«Stai bene in smoking», sussurro nell’incavo del suo collo.
«Grazie. È quello che Beyoncé ha indossato ai Grammys», replica in tono serio, ed entrambi scoppiamo a ridere. Prima che riesca a recuperare il respiro, le braccia di Max mi stringono ancora più forte. Dopo avermi baciata, mi piega così tanto all’indietro da farmi perdere l’equilibrio e la percezione di me stessa. Prima di questo momento, non immaginavo che le vertigini potessero essere anche piacevoli.
«Mi sei mancata», dice poi, e di nuovo mi fa fare un giro su me stessa.
Compare il ragazzo delle consegne di Joe’s Pizza, sulla Centodecima Strada, con un’aria spazientita.
«Hai fame?», domanda Max. «Ho ordinato».
Ma dentro il cartone non c’è la pizza, ma solo un gigantesco biscotto Oreo tagliato in otto parti, come una torta. Allunghiamo le mani e ciascuno di noi solleva una pesante fettona. Non appena la porto alla bocca, colgo un guizzo di malizia negli occhi verdemare di Max, che con un rapido gesto mi spiaccica il suo biscotto sulla guancia. Splash! Per tutta risposta, gli lancio addosso il mio.
Correndo da una galleria all’altra, iniziamo a scagliare manciate di torta Oreo l’uno contro l’altra, nascondendoci dietro le statue romane e schivando i visitatori mortificati. Noto che un addetto alla sicurezza del museo sta marciando a grandi passi nella nostra direzione. Quando riesco a vederlo più da vicino, mi accorgo che è anche il mio professore di scienze delle medie. Ho sempre odiato quel tizio. Ci mettiamo a correre più in fretta.
Quando alla fine vengo messa all’angolo nel cortile antistante la tomba di Perneb, mi fermo e mi ritrovo faccia a faccia con Max. Siamo tutti ricoperti di biscotti. Gioielli di fattura europea mi adornano il collo e le braccia, mentre Max ha un elmo medievale in testa. Sembriamo una coppia reale a cui sia capitato qualcosa di terribilmente sinistro. Una nazione che stesse sotto la nostra legge di sicuro insorgerebbe.
Max dice qualcosa, ma io non riesco a sentire la sua voce da sotto l’elmo, così solleva la visiera, mostrando le guance in fiamme.
«Facciamo una pausa», ripete. Ci sdraiamo sulla schiena nel cortile della tomba di Perneb e ascoltiamo la musica sinfonica e il chiacchiericcio indistinto di sottofondo che continua all’esterno. Sopra le nostre teste, dove dovrebbe trovarsi il soffitto del Metropolitan Museum, c’è invece un cielo stellato.
«Sai, quando i reali egizi morivano, spesso venivano seppelliti con coloro che avevano amato», dico.
«Per la verità, penso che si trattasse solo di servitori, in modo che potessero essere serviti nell’aldilà», mi corregge Max. Sempre il solito saputello.
«Be’, se dovessi morire, insieme a me vorrei che fossi seppellito tu». Mi giro sul fianco per guardarlo negli occhi.
«Oh, piccola, grazie», esclama. «Questa è di gran lunga la cosa più raccapricciante che tu mi abbia mai detto».
Una risatina nasale riecheggia tra le pareti in pietra. Mi accorgo che un piccolo facocero africano è sdraiato di fianco a Max e lo sta fissando con affetto.
«Chi è quello?», chiedo.
«Questa è Agnes». Con un cenno del capo Max indica il maialino. «Mi segue dal padiglione dell’Oceania. Penso che sia innamorata».
«Be’, mettiti in coda, Agnes», ribatto appoggiando la testa sul suo petto e facendo un profondo respiro. Come sempre, profuma di sapone di marsiglia e di un qualche aroma di legno. Il battito del suo cuore mi culla.
«Non addormentarti», mi implora. «Non abbiamo ancora finito».
Ma io non sono d’accordo. Questa serata è stata perfetta, è stata tutto ciò che potessi desiderare.
«A più tardi», lo saluto, pregando di non appisolarmi prima di sentirgli dire lo stesso. È una cosa tra di noi, un’abitudine quasi superstiziosa, un modo per rassicurarci sul fatto che ci rivedremo.
«A più tardi», replica infine sospirando.
I miei occhi lentamente si chiudono, nelle orecchie ho il suono della risata soffocata di Agnes.
Capitolo 1
I musei sono fatti per essere visitati, non per viverci dentro
Jerry sta letteralmente russando contro la mia bocca, e il soffio del suo caldo alito canino mi colpisce ogni volta che espira.
«Be’, questo spiega Agnes», biascico.
«Chi è Agnes?», domanda mio padre dal sedile del guidatore. La sua voce è accompagnata dal ticchettio di sottofondo della freccia, tic-tac, tic-tac, come un metronomo.
«Nessuno», mi affretto a rispondere, e lui non ci fa caso. Mio padre è un esperto del cervello. Essendo un famoso neuroscienziato – parola che non significa granché fino a quando non capita anche a te di diventarlo – è in grado di comprendere cose riguardanti la mente che restano un mistero per la maggior parte delle persone. Ma quando si tratta di questioni di cuore, è senza speranza. Non ho voglia di raccontargli di Max, perciò in momenti come questo le sue mancanze giocano a mio favore.
Mi stiracchio mettendomi a sedere. «Devo essermi assopita», dico, la voce un po’ roca.
«Il fatto di essere in movimento ti ha sempre messo ko, sin da quando eri una neonata», spiega mio papà, con l’immancabile tono professorale. «Aerei, treni e automobili… Tu e Jerry siete stati nel mondo dei sogni per ore, ma tu hai scelto il momento ideale per svegliarti». Sorride nello specchietto retrovisore. «Dai una bella occhiata alla tua nuova città».
Fa un gesto impacciato con la mano, alla maniera di Vanna White – la nota conduttrice televisiva della Ruota della fortuna – come se Boston fosse un puzzle formato da gigantesche parole in stampatello ancora da completare. Abbiamo appena lasciato l’autostrada I-90 quando il centro storico ci accoglie educatamente da dietro un pittoresco fiume Charles. Fa apparire New York, dove abbiamo vissuto per dieci anni, come… Be’, New York. Esiste davvero qualcosa che sia paragonabile a New York?
Il rumore delle nostre ruote sull’asfalto del raccordo produce un ritmo cadenzato – un-due-tre, un-due-tre –, così comincio a tenere il tempo picchiettando nervosamente tre dita sulla mano destra, come se stessi suonando i tasti di un pianoforte. Sono sempre stata una schiappa a suonare il piano. Prima di scaricarmi, la mia insegnante di pianoforte aveva detto a mio padre che mi mancava la disciplina
. Immagino si sia trattato del primo caso nella storia delle lezioni di musica. Tuttavia continuo ad amarla, la musica, in particolare il ritmo. Il ritmo è uno schema, e gli schemi danno un senso alle cose. Ogni volta che sono nervosa o insicura mi ritrovo sempre a tamburellarne uno con le dita.
Sono appoggiata alla portiera del passeggero su una trafficata Bacon Street, tenendo in mano una scatola con l’etichetta Scorte da cucina
, che quasi certamente contiene cappotti invernali e cibo per cani. Con una mano mi riparo gli occhi dal sole agostano mentre cerco di guardare attentamente la casa a schiera vecchia di due secoli che mi sta di fronte. È buffo come tutto sembri così grande quando si è piccoli; poi però, quando si visita lo stesso posto a distanza di anni, ci si accorge che in realtà le dimensioni erano decisamente più ridotte rispetto a quanto pensassimo e di quanto all’epoca fossimo noi a essere piccini. Invece, la nostra casa, che apparteneva a mia madre prima che diventasse nostra, e prima ancora a sua madre, è un posto tuttora gigantesco. Mi domando come sia stato possibile che da bambina non mi sia persa per giorni interi dentro le sue mura.
«Sì che ti sei persa, qualche volta», esclama mio padre dalla scalinata d’ingresso quando esprimo questi pensieri a voce alta. «Ma all’occorrenza mandavamo Jerry a cercarti, e lui ti ha sempre trovata». In questo momento Jerry, che la testa appoggiata e l’espressione apatica, è spaparanzato sul sedile posteriore e mi sta fissando aldilà del finestrino.
«Devi essere stato più virile in gioventù», gli dico inarcando un sopracciglio.
La casa, di cinque piani, è a mattoni rossi, mentre le persiane e la porta d’ingresso sono dipinte di nero corvino e si intonano con la maggior parte delle abitazioni sulla stessa strada. Allineate una accanto all’altra, mi ricordano le ragazze snob della mia vecchia scuola che portavano tutte gli stessi occhiali da sole. Non posso fare a meno di chiedermi che porzione di isolato newyorkese coprirebbe l’edificio se lo rovesciassimo sul fianco.
«Questo è tutto nostro?», chiedo.
«Sì», grugnisce mio papà mentre finalmente con uno spintone riesce ad aprire la porta d’ingresso, con una valigia a fargli da puntello sotto il braccio sinistro. «Adesso che la nonna è morta. Dato che tua mamma non ha fratelli, tutto spetta a noi». Sta cercando di essere disinvolto, di menzionare mia madre senza far vedere che la cosa gli pesa. Ma non deve essere facile tornare ad abitare in questa casa, dove tutti noi abbiamo vissuto prima che lei si trasferisse in Africa per non tornare mai più.
Entro nell’atrio, circolare e dipinto di rosso scuro, e il mio sguardo si posa sul corrimano in legno lucido di una scala a chioccola che sembra estendersi all’infinito. Sa di vecchio. Non un vecchio brutto, solo… polveroso, come se la casa per intero fosse una scatola contenente oggetti antichi lasciata troppo a lungo in cantina.
Mio padre mi guida lungo un salotto dall’aria formale al piano terra, decorato con dipinti di paesaggi e con un pesante candeliere, poi raggiungiamo la cucina, sobria ma di ampiezza considerevole, come se fosse stata progettata con l’unico scopo di fornire cibarie durante feste sontuose. Piccole cose risvegliano la mia memoria: mangiare sfogliatine alla crema al tavolo con la nonna; starmene sdraiata sotto l’imponente pianoforte del salotto al secondo piano, mentre l’ospite della cena intratteneva una folla di invitati; la tana del topo dove la notte lasciavo delle caramelle gelatinose che la mattina dopo puntualmente non c’erano più, fino a che il mio segreto è stato scoperto e il buco sigillato. Queste non sono stanze adatte a una famiglia moderna. Prima erano in tanti ad abitarle. Adesso, invece, siamo solo noi due. Be’, due più una metà pelosa.
Alla fine ci ritroviamo in una camera d’angolo al quarto piano, con pesanti tendaggi di broccato blu e pareti di un pallido color lavanda.
«Pensavo che questa potrebbe essere la tua camera». Mio papà sposta il peso da un piede all’altro, in cerca delle parole giuste. «Era la camera di tua madre quando aveva la tua età. È un pochino più da adulti rispetto a quella in cui dormivi prima che partissimo».
Mi guardo intorno, passando in rassegna il letto a baldacchino, le fotografie di posti lontani e il camino decorato, disseminato di scatoline d’argento e souvenir a forma di ippopotamo e giraffa sparsi qua e là. Adesso mia madre abita in Madagascar in un’area riservata ai ricercatori, dove vivono versioni reali di queste creature.
«Okay», dico.
«Sei sicura?», domanda mio papà.
«Credo di sì…», rispondo esitante.
«Benissimo», dice, e non ha ancora finito di pronunciare quelle parole che è già uscito per tornare alla macchina e proseguire nel compito di sradicare le nostre vite.
Ho appena tolto dal furgoncino dei traslochi quella che, con ogni probabilità, è la milionesima scatola, mentre Jerry mi segue dentro e fuori casa, senza togliermi gli occhi di dosso. Dicono che la maggior parte dei cani non guardi negli occhi il padrone per un fatto di rispetto e per dimostrare che sa che tu sei il maschio alfa del branco. Ebbene, Jerry mi guarda sempre e solo direttamente negli occhi… Cosa vorrà dire?
Nell’atrio il mio sguardo cade su una grossa busta marrone posata sul tavolo d’ingresso. C’è il mio nome sopra, scritto con la pessima grafia di mia madre.
«L’ho trovata nel salotto della nonna», sento dire a mio papà; quando alzo lo sguardo lui è lì, fermo nel bel mezzo della scala che stava salendo, che armeggia con una scatola con l’etichetta Libri di Alice
. «Chissà cosa contiene. Ha conservato tutto. La nonna diceva che questo significa essere meticolosi; io dico che significa essere ossessivi. Dovresti andare a dare un’occhiata al suo armadio; se ricordo bene, è ordinato per colore».
Studio la busta, provando un miscuglio di confusione e di sollievo. È il primo segnale a indicare che davvero dovrò restare qui. Con la massima cautela, inizio a sfilare uno a uno gli oggetti che contiene, per poi appoggiarli sul piano in marmo del tavolo. Un mucchio di cartoline stampate su un sottile cartoncino marrone cadono a terra. Ne raccolgo una. Su un lato c’è la semplice immagine di tre palloncini che fluttuano nel cielo. Sull’altro lato, con lo spesso carattere della macchina da scrivere, c’è scritto:
buon compleanno, alice!
da gustave l. petermann e tutti i tuoi amici
del centro per la scoperta del sogno (css)
Guardo accigliata la cartolina, la lascio cadere e ne raccolgo un’altra. Dice esattamente la stessa cosa. Così pure la successiva. Ci sono nove cartoline, tutte con i palloncini su un lato e con gli stessi strani auguri di compleanno sul retro. Controllo il francobollo e capisco che, per tutto il tempo in cui ho vissuto lontano da qui, ne è stata spedita una ogni anno per il giorno del mio compleanno. Penso ai bigliettini che l’ufficio del mio dentista mi spediva sempre a New York per ricordarmi l’appuntamento successivo: un dente con una faccia truccata. Quale dente è truccato con del fard?
Al termine della pila c’è un appunto, scritto su carta turchese chiaro, delicata al tocco delle mie dita:
Cara Alice,
chissà se potrai utilizzarle in qualche modo, ma non riuscivo proprio a sopportare l’idea di buttarne via anche una sola.
Con affetto,
nonna
Sorrido e scuoto il capo. Questa è proprio la nonna. Semplice, elegante, dritta al punto. Almeno nelle lettere, che è il canale attraverso cui l’ho prevalentemente conosciuta. Mio papà non ha mai voluto tornare a Boston dopo che ce ne siamo andati, inventava sempre delle scuse. Ho visto la nonna un sacco di volte nel corso degli anni quando veniva in pellegrinaggio a New York per la prima di uno show a Broadway o in occasione di una mostra al Guggenheim. Aveva i capelli sempre meticolosamente pettinati e i vestiti appena stirati. Mi chiedevo sempre: diventano tutti impeccabili in tarda età, oppure a ottant’anni indosserò ancora dei maglioni con i buchi ai polsini attraverso i quali riescono a passarmi i pollici?
E proprio in quel momento il mio telefono vibra.
«Pensavo che fossi morta», dice Sophie quando rispondo. «Tvoppo impegnata a pavcheggiare la macchina nel covtile di Havvard per vispondeve ai miei sms?».
Sto già ridendo. «Allora ti manco, o cosa?», domando.
«No!», risponde in tono spiritoso.
«Com’è possibile?», piagnucolo.
«Perché ho il tuo clone, ovvio, no? È qui con me adesso. In effetti sembra piuttosto arrabbiato che io sia qui a parlare con te. Vuole sapere che cos’hai tu da offrire che lei non ha». Sophie è stata la prima persona che ho conosciuto a New York e da quel momento non ha mai smesso di essere la mia migliore amica. Per farci compagnia quando l’altra non c’è, abbiamo inventato un vecchio gioco: ciascuna di noi produce segretamente il clone dell’altra. Nessuno lo capisce, ma noi preferiamo così.
«Be’, tu mi manchi», dico.
«Qualcosa non va?». Il tono di Sophie si fa improvvisamente serio. Riesce sempre a capire quando sta succedendo qualcosa. E questo il più delle volte è molto irritante.
«È solo che è strano qui», dico. «Dovresti vedere la casa, Soph. Sembra un museo».
«Ma tu ami i musei!», esclama Sophie. Non capirebbe in ogni caso, perché vive a Park Avenue in un appartamento così lindo che ho sempre temuto di sporcarlo solo mettendoci il naso. I genitori di Sophie si guadagnano da vivere vendendo opere d’arte. Grandi opere d’arte contemporanea, come gigantesche sfere d’erba sintetica o video di sconosciuti che nuotano, proiettati sulle pareti del salotto. «Davvero, Alice, se ti capitasse di perderti, il primo posto che comunicherei all’affascinante detective della Polizia di New York che si presenterebbe alla porta di casa mia per cercarti sarebbe il Metropolitan Museum o il MoMa».
«Mi piace visitare i musei, non viverci dentro», dico facendo ruotare gli occhi. «Non sono una casa».
«Le cose miglioreranno», mi rassicura. «Sei solo stanca per il viaggio».
«A dire il vero, ho dormito per quasi tutto il tragitto…», la interrompo, pensando al fatto di essermi addormentata sul petto di Max. Racconto a Sophie della serata al Met e lei la definisce romantica. Ma il suo tono sottintende tutt’altro.
«So di essere pazza a continuare a pensare a lui in questo modo», dico. «Non c’è bisogno che tu me lo dica». Abbiamo fatto questo discorso milioni di volte prima d’ora.
Sophie sospira. «È solo che per te questo è un nuovo inizio, Al. Magari sarebbe carino, sai… uscire con un ragazzo che ti possa davvero piacere, con cui ti piaccia stare».
«È come se stessimo insieme…», dico.
«Sai cosa voglio dire, Alice», replica Sophie, e il suo tono sembra davvero un po’ spazientito. «Qualcuno che tu possa veramente avere. E presentare ai tuoi amici. E con cui pomiciare dietro un cespuglio durante le scampagnate. Qualcuno che sia… diciamo… reale».
Reale. L’ultima parola rimane sospesa tra noi. Scuoto la testa imbarazzata. Ha ragione. Non importa ciò che provo per Max, perché c’è comunque un problema: la serata al Met era un sogno. Ogni serata con Max, da quel che posso ricordare, è stata un sogno. Perché Max è il ragazzo dei miei sogni… e solo dei miei sogni.
Perché Max non esiste per davvero.
Capitolo 2
Il veleno del serpente di mare col becco
Ovviamente so perfettamente che può sembrare una cosa da pazzi essere innamorati di qualcuno che non si è mai incontrato, di qualcuno che non è neppure reale. Ma dato che non ricordo un’epoca durante la quale non abbia sognato Max, può essere difficile cogliere la differenza. I luoghi dei nostri incontri cambiano, e anche le storie, ma Max è la costante che mi accoglie in ogni sogno con il suo sorriso malizioso e il suo gran cuore. Lui è la mia anima gemella.
Comunque so che non potrà durare per sempre. Così, giusto per essere tranquilla, annoto tutto nel mio quaderno. Sophie una volta lo ha chiamato il diario dei sogni
, un’espressione che lo fa sembrare qualcosa che potresti trovare dopo l’angolo degli incensi in un negozio di articoli da regalo. Viene con me dappertutto, e proprio adesso si trova all’interno di una borsa con la scritta I Love New York
, dentro il cestino di vimini di una vecchia bicicletta arrugginita che ho trovato nel giardino dietro casa della nonna. Ho chiamato la bicicletta Frank, il diminutivo di Frankenstein, dato che in sostanza l’ho riportata in vita dal regno dei morti.
In questo momento Frank si trova tra due pilastri in pietra che separano la Bennett Academy dal resto del mondo, pilastri che sembrano dire: Oh, no, non farlo. Non qui dentro, per l’amor del cielo. Il loro messaggio reale, scolpito sulla facciata di granito, invece è: colui che trova conforto tra queste mura trova conforto dentro se stesso. Questa affermazione mi lascia un po’ scettica.
Esamino il parcheggio riservato agli studenti, pieno zeppo di scintillanti Volvo e suv Audi, e poi guardo in basso, dove c’è Frank. L’unica ragione per cui mi trovo qui è una convenzione che Harvard ha con la Bennett per i figli dei suoi professori. Il manuale racconta che questo sodalizio sia nato grazie a Marie Bennett, la figlia di un preside di Harvard, che ha fondato la scuola nel portico dietro casa nell’Ottocento; quindi è sempre esistita da allora una relazione basata sul reciproco rispetto
.
«Qualunque cosa possa voler dire», ho detto ieri sera a cena dopo che mio padre ne ha letta la descrizione a voce alta.
«Vuol dire che avere come studentessa la figlia del preside del Dipartimento di Neuroscienze getta una buona luce sulla Bennett», ha spiegato mio papà. «E in cambio tu ricevi gratuitamente un’istruzione liceale di prim’ordine».
«Sei sicuro?», ho detto piegando la testa di lato, mentre arrotolavo dei capelli d’angelo con la forchetta. «Perché sono più che sicura di aver ottenuto la borsa di studio per la mia abilità atletica».
«Ah, sì». Mio padre ha annuito, stando al gioco. «Probabilmente è per via del trofeo che hai vinto in quarta elementare. Mi ricordi per che cos’era?»
«Per chi riusciva a tenere su