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Non posso innamorarmi
Non posso innamorarmi
Non posso innamorarmi
E-book296 pagine3 ore

Non posso innamorarmi

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Info su questo ebook

Andrea e Beatrice non si vedevano da oltre cinque anni e probabilmente non si sarebbero più incontrati se non fosse stato per quel messaggio incompleto che lei gli aveva inviato per errore.
I due giovani si conoscevano fin da quando, poco più che bambini, si trovarono a essere vicini di ombrellone durante le vacanze estive che, con le rispettive famiglie, trascorrevano in Toscana, a Follonica.
Tra loro era nata subito una sincera e innocente amicizia che ogni estate si rafforzava sempre più, condividendo la “stessa spiaggia e lo stesso mare” - come cita una nota canzone - fino a quando, divenuti adolescenti, quell'amicizia si era trasformata in una tenera infatuazione, soprattutto da parte di Andrea.
In seguito alla rottura del rapporto sentimentale tra la madre e il compagno, Beatrice non tornò più a Follonica. Così, nonostante i due giovani risiedessero entrambi a Milano, dopo quell'ultima estate al mare non ebbero più occasione di incontrarsi; Andrea trascorreva l'anno scolastico in Svizzera e per le vacanze estive si trasferiva a Follonica, poi, raggiunta la maturità, si trasferì a New York per studiare.
I loro contatti, inizialmente frequenti, con il passare degli anni si erano fatti sempre più radi e la lontananza aveva contribuito non poco a peggiorare la situazione. Perciò, quel delicato sentimento che li aveva uniti da adolescenti, sembrava destinato a rimanere soltanto un bel ricordo.
Giunta all'età di diciannove anni, a differenza delle sue coetanee, Beatrice non aveva ancora un ragazzo e non le interessava averlo, preferiva evitare “complicazioni sentimentali” per non farsi condizionare dalle aspettative e decisioni altrui.
Si era imposta degli obiettivi da raggiungere prima di potersi innamorare: in primis lo studio, poi la carriera lavorativa e, per ultimo - ma per lei il più importante - riuscire a conquistare la sua indipendenza. Una scelta dettata dall'aver vissuto sulla propria pelle i patimenti della madre, che aveva sempre anteposto l’amore a tutto il resto, e Beatrice non voleva rischiare di commettere lo stesso errore.
Ma si sa, in amore non ci sono regole, è praticamente impossibile scegliere quando e di chi innamorarsi, perché l’amore è un sentimento istintivo che nasce quando meno te lo aspetti, che ti assorbe anima e corpo, che ti fa fare stupidaggini anche, e non si può amare o non amare a comando per evitarle.
Malgrado la sua caparbietà, le intenzioni di Beatrice si infrangono quando, dopo aver ricevuto quel messaggio, Andrea le chiede di poterla rivedere.
Basta poco per risvegliare nel ragazzo quel forte sentimento che aveva provato anni prima per la giovane amica. Contemporaneamente anche Giorgio, amico di Beatrice da sempre, le dichiara di provare un sentimento che andava ben oltre la semplice amicizia.
Lei, però, non è pronta a iniziare un rapporto sentimentale né con Andrea né con Giorgio, per il quale prova comunque un profondo affetto.
Per non deludere nessuno dei due non prende alcuna decisione in merito alle loro dichiarazioni, è convinta che riuscirà a gestire l'amicizia di entrambi senza farsi coinvolgere emotivamente, ma è solo un'illusione e le “complicazioni sentimentali”, che tanto voleva evitare, le piomberanno addosso senza che se ne accorga.
Con l’amore arriva anche la gelosia, che le farà prendere decisioni sbagliate. Ed è da quel momento che le cose iniziano veramente a complicarsi…
LinguaItaliano
Data di uscita5 lug 2023
ISBN9791222423579
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    Anteprima del libro

    Non posso innamorarmi - Renée Conte

    Non posso innamorarmi

    Renée Conte

    Non posso innamorarmi

    di Renée Conte

    www.reneeconte.com

    Copyright © 2023

    Tutti i diritti riservati

    Patamu registry n. 194413

    Questa è un'opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell'immaginazione dell'autore o sono usati in maniera fittizia. Qualunque somiglianza con fatti, luoghi o persone, reali, viventi o defunte è del tutto casuale.

    A chi non rinuncia ai sogni

    e continua a sperare che si avverino

    Ci sono momenti nei quali attendi l’impossibile,

    non ci speri proprio.

    Poi, all’improvviso,

    come per un colpo di testa del destino,

    l’impossibile diventa vero.

    (citazione dalla trasmissione radiofonica

    Wait – Aspettare di Emanuele Conte)

    RIFLESSIONI

    Sono convinta che da qualche parte nel mondo ci sia l'anima gemella per ognuno di noi, quella tessera del puzzle che serve a completare il quadro della nostra vita.

    Quella persona forse l'abbiamo già incontrata, incrociando il suo sguardo in un fuggente attimo che è passato talmente veloce da non aver avuto la prontezza di afferrarlo.

    Potremmo conoscerla da sempre, oppure non averla nemmeno mai sfiorata.

    Magari è la persona della porta accanto o che si trova all'altro capo del globo, ma che per qualche strano disegno del destino, prima o poi incontreremo nel nostro cammino.

    CAPITOLO 1

    Mia madre volle chiamarmi Beatrice e se è vero che il destino sta nel nome delle persone, non avevo dubbi che anche il mio si sarebbe presentato molto confuso, a tratti poetico e a volte spietato; non sono poche le donne nella storia con questo nome ad aver avuto destini alquanto agitati.

    Quando il fratello maggiore di mamma, zio Antonio, la accompagnò al fonte battesimale con me tra le braccia, rilasciò un unico commento: «Ma non avevi un nome più normale da dare a questa bambina? Chessò... Maria, Anna...»

    E lei, guardando la sua piccola con gli occhi dell'amore, rispose: «È un nome bellissimo! Guarda come dorme beata e tranquilla, sarà una bambina serena e felice, mi renderà orgogliosa, lo so.»

    Non le ho mai chiesto se sono riuscita a esaudire il suo desiderio. Spero che sia davvero orgogliosa di me per come sono diventata oggi.

    Sono nata a Milano in una giornata d'autunno, di quelle dove la nebbia della prima sera nasconde parzialmente i portali della stazione centrale e la splendente Madonnina del Duomo, dove il profumo di legna arsa dai caldarrostai invade le piazzette dei mercati, diffondendo una dolce malinconia e accrescendo la voglia di stringersi di più nel proprio cappotto.

    Ho una sorella, Elisabetta, che tutti chiamiamo Betty. Ha tre anni più di me. Caratterialmente siamo una l’opposto dell'altra; le nostre differenze sono talmente evidenti da paragonarle come il giorno alla notte, la luna al sole, il demonio all'acqua santa. Eppure, proprio queste diversità ci hanno rese molto unite fin da bambine.

    Seppur di padri diversi, ci siamo sempre considerate sorelle a tutti gli effetti e non sorellastre, due sorelle germane per scelta, il vincolo di fratellanza più forte che possa esistere, perché parte dai nostri cuori e non dai componenti biologici dei nostri genitori.

    Con lei, le opinioni divergenti e i battibecchi sono sempre stati all'ordine del giorno, ma questo non ha mai compromesso i nostri rapporti da vere sorelle.

    Siamo molto diverse anche fisicamente: lei bionda io castana, lei filiforme io un po' in carne, lei solare io lunatica. Chi non ci conosce stenta a credere che siamo sorelle.

    Sappiamo ben poco dei nostri rispettivi padri.

    Betty fu concepita durante a una breve avventura con un giovane australiano che si trovava in città per lavoro. All'epoca mamma era un'ingenua  liceale convinta di aver trovato il grande amore; lui, al contrario, era un uomo smaliziato di ventisei anni. Dopo qualche settimana se ne tornò da dov’era venuto, senza lasciare alcun recapito, segno evidente che non aveva alcuna intenzione di mantenere i contatti. Si era divertito e tanti saluti.

    L’umiliazione che provò mamma, per essere stata presa in giro in quel modo, fu grande.

    «Un padre così è meglio perderlo che trovarlo, penseremo noi a te e alla bambina» disse zio Antonio dopo aver fatto il possibile per rintracciare quel ragazzo, senza mai riuscirci.

    Invece, il mio caro papà era un importante uomo d'affari, sposato e con figli. Mamma, innamorata di lui alla follia, è stata sua amante per quasi due anni. Viveva quella relazione in costante attesa di un divorzio sempre annunciato e mai messo in atto. Appena lo informò di essere incinta, lui, nel frattempo avanzato di carriera nelle sue attività politiche, le disse che doveva liberarsi del fardello perché non poteva permettersi uno scandalo e che, se lo amava davvero, doveva uscire per sempre dalla sua vita.

    Per fortuna -  altrimenti non sarei qui a raccontarlo - mamma si rifiutò categoricamente di assecondarlo, promettendogli che si sarebbe fatta da parte e non avrebbe mai interferito nella sua vita e lui, come buona uscita, le lasciò l'appartamento che avevano utilizzato come garçonnière fino a quel momento, oltre a una discreta somma in denaro.

    «Per il futuro di tuo figlio» le disse e se ne andò, senza rimpianti di sorta.

    Non si preoccupò mai di sapere se da quel rapporto fosse nato un maschio o una femmina. Per lui, sia io che mamma, eravamo state un errore, una parentesi da dimenticare.

    Pur sapendo chi sia mio padre, non ho mai provato il desiderio di conoscerlo di persona, di presentarmi per fargli sapere che sono sua figlia. Non l’ho fatto allora e non lo farò in futuro.

    Se non mi ha voluta non mi merita, questo è sempre stato il mio mantra.

    Non lo odio, ma per me non esiste.

    Comunque, non posso lamentarmi della mia infanzia, con la presenza costante di zio Antonio sono cresciuta serenamente, senza sentire davvero la mancanza di una figura paterna.

    E così, dato che i nostri rispettivi padri non vollero riconoscerci, sia io che Betty portavamo il cognome di mamma, perciò, tutte e tre eravamo le signorine Colombo.

    La mia prima cottarella la presi alle elementari. Nella mia classe c'era Franco, un bambino bellissimo, gentile e con un sorriso splendido. Mi piaceva giocare con lui durante l'intervallo e mi sembrava che anche a lui piacesse la mia compagnia.

    Serena, una bimba tutta pepe con i capelli rosso fuoco, nonché mia compagna di banco, aveva notato il mio interesse per Franco, confessandomi che piaceva molto anche a lei.

    A dire il vero era il bambino più ambìto della classe, non c'era ragazzina alla quale non piacesse, però, che Serena si fosse rivelata mia rivale mi faceva ribollire il sangue.

    Un giorno, durante l'intervallo, mi sussurrò all'orecchio che, approfittando di un permesso per andare in bagno, aveva infilato un biglietto d'amore - così lo definì - nella tasca del cappotto di Franco e che stava aspettando la sua reazione.

    La reazione arrivò. Da parte mia però.

    Per un istante rimasi immobile a fissarla sbalordita, poi, d'impulso la presi per i capelli e ce le demmo di santa ragione. Davamo spettacolo e tutti i bambini della scuola si misero in cerchio per vedere le due lottatrici all'opera: c'era chi rideva, chi piangeva, chi faceva il tifo per l'una o per l'altra, chi ci guardava inorridito. Dovette intervenire la maestra per dividerci.

    Risultato: due giorni di sospensione dalla scuola, una nota sul registro di classe, una bella lavata di capo da parte di mia madre e, non ultimo, Franco da quel momento mi evitò come la peste, perché, secondo lui, ero una bambina troppo violenta per i suoi gusti.

    CAPITOLO 2

    Da quando mamma si era fidanzata con Sandro, un toscano trapiantato a Milano per lavoro, alla fine dell'anno scolastico ci trasferivamo nella sua casa paterna di Follonica.

    Questo ci dava l'occasione di passare le vacanze estive nella sua amata e splendida terra.

    Sul finire dell'estate dei miei quasi 14 anni ricordo una giornata in particolare. Quel pomeriggio non si poteva fare il bagno, il mare era increspato da onde minacciose causate da una forte brezza, ma la noia non aggrediva né me né mia sorella Betty che si atteggiava con moine di tutti i tipi, ancheggiando e facendo la stronza con alcuni ragazzi attorno al juke-box che suonava dalla terrazza mare dei bagni Olimpia.

    La guardavo distrattamente da lontano, alzando gli occhi di tanto in tanto e chiedendomi cosa ci trovasse di così divertente a stare con loro, che in quell'età di mezzo non sono più bambini e non sono ancora uomini, sanno solo ridere con le loro facce da ebeti e i loro brufoli, ma si sentono importanti perché sul loro mento spunta qualche pelo di barba.

    Io preferivo starmene per conto mio, raccogliendo conchiglie disabitate approdate sul bagnasciuga.

    Il mio impegno era quello di riuscire a trovare una Alvania electa, la conchiglia di un gasteropode la cui foto  stampata sulle pagine del libro di scienze mi aveva incuriosita con la sua bella forma a spirale.

    Il nostro professore delle medie ci aveva detto che non era così facile da trovare, era poco comune nei nostri mari, e chi l'avesse trovata doveva considerarsi una persona fortunata.

    Ci credevo e volevo essere io quella persona talmente fortunata da riuscire, quasi per magia, a ottenere dalla vita tutto quello che desiderava, perciò dovevo assolutamente trovarla.

    Fissavo con talmente tanta attenzione ogni centimetro quadrato di sabbia lambita dal mare, alternando il suo colore in continuazione da chiara a scura, che gli occhi mi bruciavano; ero così concentrata da non sbattere quasi mai le palpebre.

    A un certo punto vidi la forma familiare della conchiglia tanto ammirata nei libri di scuola, o almeno mi sembrava fosse quella, che affiorava per metà dalla sabbia. Affrettai il passo incredula, chinandomi e allungando la mano per prenderla, quando un piede maschile la scalzò dalla sabbia spingendola un po' più in là. Poi, complice un'onda inopportuna, vidi la mia conchiglia rotolare verso il mare, perduta per sempre.

    Alzai lo sguardo trovandomi di fronte la faccia sorridente di Andrea che mi salutava. Era bello con i capelli scompigliati dal vento, i suoi occhi azzurri sembravano più luminosi del solito, avevano lo stesso colore del cielo in una giornata di sole.

    Era bello, sì, ma in quel momento lo odiai per quello che aveva fatto.

    Mi alzai di scatto e con tutta la forza che avevo in corpo gli sferrai un pugno in pieno petto, inveendogli contro.

    «Ma sei nato deficiente da una famiglia di deficienti o hai fatto una scuola speciale per essere così deficiente! Ti odio, vorrei tanto non fossi mai nato!»

    Andrea mi guardò come fossi pazza, non capiva la mia reazione, in pratica non si era reso conto del sacrilegio che aveva appena compiuto.

    Allargò le braccia esclamando: «Ma che ti ho fatto?» Non ottenendo risposta, a mezza voce sussurrò «Femmine! Valle a capire...»

    Mi avviai verso casa in preda a uno stato d'animo contrastante. Che mi era preso? In fin dei conti era solo una stupida conchiglia e magari non era nemmeno quella che stavo cercando. E allora, perché ero così arrabbiata con Andrea?

    Da lì a qualche giorno saremmo rientrati entrambi a Milano, forse era quello che mi faceva stare male: la consapevolezza che le vacanze stavano per finire e fino all’anno successivo non ci sarebbe più stata l’occasione per rivederci.

    Mi mancava già? Ma se ero stata io a mandarlo al diavolo solo due minuti prima!

    Mia madre era in cucina a preparare la cena in anticipo rispetto agli altri giorni, perché quella sera sarebbe arrivato Sandro. Rimase stupita nel vedermi entrare in casa.

    «Ciao Bea, come mai sei già qui?»

    «Ho litigato con Andrea» risposi atona.

    «Ah sì? E cosa ha combinato questa volta?» chiese con tono divertito, sapendo benissimo che addossavo sempre a lui la colpa dei nostri litigi. Così, con una certa concitazione le raccontai dell'accaduto.

    «Vedrai che la ritroverai la tua conchiglia, il mare è pieno di conchiglie!» esordì sorridendo con l'intenzione di tirarmi su il morale.

    Alzai gli occhi al cielo, preferendo non rispondere, poi mi diressi a passo veloce verso la mia stanza, intenzionata a non parlare più con nessuno quel giorno. Ero troppo arrabbiata.

    In quel momento squillò il telefono di casa, mi fermai sulla soglia girandomi verso mamma che sorrideva.

    «Scommettiamo che è Andrea?» disse.

    Non feci in tempo a specificare di non passarmelo che già aveva alzato la cornetta per rispondere.

    «Ciao Andrea. Se c'è Bea?» mi guardò per capire se volessi parlargli.

    Mi affrettai a fare segno di no agitando freneticamente l'indice, gesticolando come nel gioco del mimo, sperando capisse.

    «Sì c'è... ma ... ha la testa in confusione... cioè... no, ha un gran mal di testa... Sarà stato il vento di oggi... Ora non può rispondere... sta riposando... sì, non ti preoccupare riferirò che hai chiamato.»

    «Perché non hai voluto parlargli?» chiese dopo aver riagganciato.

    «Non mi andava, lo farò domani... forse» risposi evasivamente.

    Ma l'indomani pioveva, una pioggia leggera e persistente che non accennava a diminuire, e le previsioni meteo non promettevano niente di buono neanche per i giorni seguenti.

    Così, Sandro decise di anticipare il rientro a Milano senza chiedere il nostro parere e, soprattutto, senza lasciarmi il tempo di salutare Andrea.

    Una settimana dopo il rientro dalle vacanze il postino suonò alla nostra porta per recapitare un pacchetto, senza mittente, indirizzato a me.

    Ero davvero sorpresa, continuavo a guardarlo con curiosità ma non mi decidevo ad aprirlo.

    «Beh, non lo apri?» chiese Betty, più curiosa di me.

    Anniuii, procedendo lentamente a scartarlo, e intanto mi domandavo chi lo avesse mandato. All'interno trovai una specie di gomitolo di carta e un foglio ripiegato in quattro. Sempre lentamente cominciai a scartocciare quel goffo gomitolo, fino a rivelare il contenuto che guardai con meraviglia: una bella conchiglia.

    Presi il foglio e lo aprii con una calma che fece agitare Betty.

    «E allora, voi muoverti?! Che c'è scritto? Chi lo manda?»

    «Andrea» risposi dopo aver letto la firma.

    «Leggi a voce alta, per favore.» Betty stava proprio perdendo la pazienza.

    «Dunque, dice: Ciao Bea, come stai? Io sto bene come spero di te, a parte il livido che mi è rimasto dopo il pugno che mi hai dato. Non sapevo che stavi cercando le conchiglie, volevo solo avvicinarmi a te per invitarti a prendere un gelato sulla terrazza mare.

    Ero un po' arrabbiato per come mi hai trattato ma adesso mi sta passando. Mi è dispiaciuto non salutarti quando sei tornata in città. Ci vediamo l'anno prossimo?

    Ti ho mandato questa conchiglia sperando sia simile a quella che stavi per raccogliere, anche se so che non sarà mai quella che volevi tu.

    Quest'anno, molto probabilmente cambierò scuola, perché i miei vogliono mandarmi in un collegio in Svizzera. Dicono che sono un po' asino e non mi applico, dicono che ho sempre la testa tra le nuvole e non tra i libri, e poi mi prendono in giro facendomi arrossire, dicono che penso solo a te, ma credimi, non è vero, o meglio sì, qualche volta ti penso, perché sei Bea, sei mia amica, la mia amica del mare e tu sai che a me il mare piace tanto.

    Posso telefonarti? Perché l'ultima volta che l'ho fatto ho avuto l'impressione che non avessi voglia di parlarmi, l'ho capito sai? Ci vediamo, Andrea.»

    «Ahi, ahi. Qualcuno si sta innamorando...» dichiarò Betty sorridendo.

    «Non dire stupidaggini. È solo un amico e io per lui sono solo l'amica del mare. L'amore è per i grandi» risposi arrossendo mentre ripiegavo la lettera. «Lo chiamerò per ringraziarlo» aggiunsi.

    Presi la conchiglia e la misi sul comodino vicino a una foto che mi ritraeva con mamma e Betty scattata quell'anno a Follonica. Riposi la lettera nel cassetto, mentre il cuore continuava a battermi all'impazzata.

    Andrea era figlio dell'avvocato Angelantonio Bianchini, nostro vicino di ombrellone ai bagni Olimpia, nonché mio compagno di giochi: castelli di sabbia, corsa delle biglie, bocce da spiaggia, schizzi con l'acqua, scorribande in tandem per le vie della cittadina e lunghe chiacchierate e discussioni... Ridevamo e litigavamo in continuazione, come cane e gatto, ma eravamo inseparabili.

    Ci eravamo conosciuti quattro anni prima proprio ai bagni Olimpia e ogni anno ci ritrovavamo sempre lì; lui aveva già compiuto tredici anni, mentre io non ne avevo ancora dieci.

    Mia madre, casalinga di buone maniere, con una forte passione per le soap opera ma saggia e amorevole mamma, provava un senso di riverenza nei riguardi dei Bianchini, tanto da alimentare spontaneamente occasioni di dialoghi frivoli, che puntualmente terminavano con la passeggiata serale sul lungomare o a cena con l'avvocato Bianchini, la moglie Ambra e quell'imbranato di Andrea.

    «Non è un imbranato» continuava a ripetere Betty quando appellavo Andrea in quel modo, «è solo un po' remissivo nei tuoi riguardi. Sei tu, invece, che ti comporti con esuberanza nei suoi confronti e lui si adegua per non contraddirti e non litigare. Si vede chiaramente che tiene molto alla tua amicizia.»

    In effetti con lui mi sentivo sicura, a mio agio, libera di dire e fare tutto quello che pensavo senza pormi problemi di alcun genere. Io, che tendenzialmente me ne stavo volentieri per conto mio e non amavo molto socializzare, con lui mi comportavo completamente all'opposto.

    Non si può dire che non lo lasciassi prendere iniziative, solo che se le condividevo mi stava bene, altrimenti si doveva fare a modo mio.

    Durante quell'ultima estate insieme provò persino a baciarmi.

    Stavamo passeggiando fianco a fianco in riva al mare; era quasi ora di cena ma non ci decidevamo a rientrare, eravamo presi da una delle nostre solite infinite discussioni. Non ricordo di preciso l'argomento ma doveva essere divertente per Andrea, perché improvvisamente si fermò mettendosi di fronte a me sfoderando il suo mitico sorriso. Prese il mio viso tra le mani e mi baciò sulla bocca, un bacio tenero e innocente, come quello che si danno i bimbi all'asilo, ma mi colse di sorpresa. Proprio non me l'aspettavo.

    Istintivamente indietreggiai di un passo, provando una strana sensazione di panico.

    «Ma che fai?» chiesi stupita.

    «Volevo darti un bacio» si giustificò.

    Continuava a sorridere con aria innocente, come se per lui fosse la cosa più naturale al mondo baciarmi.

    Chissà quante ragazzine al mio posto avrebbero contraccambiato quel bacio invece di reagire come feci io.

    Non nego che Andrea fosse un bel ragazzino per la sua età, apprezzavo molto la sua compagnia, il suo carattere gentile e altruista, il suo modo di farmi ridere o di spiegarmi le cose… Insomma, stavo bene quand’ero con lui, ma non ero assolutamente pronta a trasformare la nostra amicizia in qualcosa di diverso; fu quello il motivo per cui mi arrabbiai molto per un semplice bacio.

    Avevo sempre pensato che se due ragazzi arrivano a baciarsi, significa che sono innamorati e io ero completamente impreparata e atterrita all’idea che succedesse proprio a noi due di innamorarsi. Per me, l'amore era una cosa da grandi e a quattordici anni non lo ero di certo, grande.

    «I baci se li danno i fidanzati. Ti ho forse detto di essere la tua fidanzata?» risposi scontrosa, lasciando che la parte  più agguerrita di me prendesse il sopravvento.

    Non rispose, rimase immobile a fissarmi, cercando di capire se pensavo davvero quello che stavo dicendo.

    «Bene, quindi non ci riprovare, intesi?» lo ammonii con tono deciso.

    Andrea diventò serio dopo il mio rimprovero.

    «Come vuoi» si limitò a rispondere con una leggera alzata di spalle, infilando le mani nelle tasche dei suoi bermuda. «È meglio rientrare adesso, si è fatto tardi» aggiunse, e silenziosamente ci avviammo, sempre fianco a fianco, verso le rispettive abitazioni.

    Mantenne la promessa e per il resto delle vacanze non provò più a baciarmi.

    Allora non sapevo che, più in là negli anni, avrei desiderato disperatamente che mi baciasse... e non solo!

    CAPITOLO 3

    Annalisa Colombo, mia madre, è sempre stata una sognatrice a occhi aperti e malata di ottimismo, che curava con massicce dosi di false speranze, subendone puntualmente gli effetti collaterali: cocenti delusioni.

    Quello fu l'ultimo anno che andammo a Follonica; poco dopo essere tornati a Milano, Sandro ruppe il fidanzamento con mamma. Ma lei non si perse d'animo.

    Infatti, durante l'inverno successivo iniziò una relazione con un tipo che io e Betty reputavamo alquanto strambo per il suo modo educato e cordiale di porsi. Era indubbiamente un bell’uomo, sulla quarantina e dall’aspetto signorile, alto di statura, con folti capelli castani, occhi verdi, naso pronunciato e un bel sorriso sincero.

    Teo, diminutivo di Teodoro, era un professore di lettere all'Università e amava molto il suo lavoro. Parlava poco e solo se interpellato, tanto da sembrare schivo; in realtà era solo un uomo molto riservato, oltre che generoso e altruista.

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