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Imperator. L'ultimo eroe di Roma antica
Imperator. L'ultimo eroe di Roma antica
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E-book887 pagine13 ore

Imperator. L'ultimo eroe di Roma antica

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Info su questo ebook

C’è stato un tempo in cui i vessilli di Roma sfidavano il vento annunciando al mondo intero l’avvento di un dominio immortale. Ora quel tempo è finito e i confini della città eterna sono stati oltraggiati da torme di barbari. In un impero ormai disgregato e corrotto, tra le immagini lascive di feste decadenti e storie di ordinaria corruzione, si staglia la figura di Giulio Valerio Maggioriano, pronto a consacrare la sua intera esistenza al riscatto di Roma. Imperator per acclamazione e quasi contro la sua volontà, Giulio Valerio Maggioriano dovrà lottare contro i sussulti di un’epoca malvagia. Intorno a lui – amici, nemici o infidi cospiratori – ci sono alcuni tra i più grandi personaggi del V secolo d.C.: l’ambigua Galla Placidia, il prode Ezio, il devastatore Attila, l’astuto Genserico, il potente papa Leone Magno, la seducente Licinia Eudoxia. Scelto da Roma e dal destino, Giulio Valerio Maggioriano sarà chiamato a condurre una battaglia senza esclusione di colpi. Una lotta all’ultimo sangue combattuta nel cuore dell’impero, in un romanzo capace di fondere mirabilmente la passione della letteratura con il rigore della storia.

«Le scorrerie dei barbari lungo la penisola, il sacco di Roma, la lotta per la conquista del potere, quarant’anni raccontati in prima persona da uno dei protagonisti di quel periodo turbolento: Giulio Valerio Maggioriano, l’ultimo imperatore che tentò di salvare Roma.»
Antonio Di Pierro, Il Venerdì di Repubblica

«Agile e avvincente, Castelli non fa solo divulgazione. Scolpisce i personaggi con finezza psicologica e verosimiglianza storica.»
Domenico Zazza, Secolo d’Italia


Giulio Castelli

romano, narratore e saggista, è cultore e studioso di storia medievale e tardoantica. Giornalista professionista, ha coordinato i servizi culturali di due quotidiani e ha condotto trasmissioni radiofoniche. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo il romanzo Il fascistibile e il pamphlet Il leviatano negligente e, con la Newton Compton, Imperator, il romanzo che narra l’ascesa di Giulio Valerio Maggioriano e Gli ultimi fuochi dell'impero romano.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854125353
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    I enjoyed this book, but I must warn the reader that I was interested in this age and the main character, Majorian, before starting.It is an account of the events of the second quarter of the 5th century in the Western Roman Empire, as seen throught the eyes of Julius Valerius Maiorianus, a young Roman senator that follows the military path. He is the witness of the wars with the barbarians and of the power struggle within the Roman court.The main events recalled are the battle of the Catalaunian Plains and the Sack of Rome

Anteprima del libro

Imperator. L'ultimo eroe di Roma antica - Giulio Castelli

I

ANNO DOMINI 419

Mi accorsi di essere innamorato di Domiziana, almeno come può accadere a un bambino di sei anni, durante la villeggiatura ad Atina. Come posso descrivere la mia sorella adottiva? Quando guardo il cammeo che porto sempre con me mi pare di avere dimenticato l’espressione del suo sguardo. Eppure i suoi occhi erano grandi e iridescenti. Mi sembrava di vederli anche nel buio.

Domiziana conosceva tutti gli angoli più segreti della villa e ci guidava nel labirinto dei magazzini o a vedere i ghiri che ingrassavano nelle loro gabbie. La villa era un grande edificio rettangolare con un colonnato corinzio che abbelliva la facciata principale e quattro torri agli angoli. All’interno, il secondo dei peristili, vastissimo, racchiudeva un giardino. Era là che io, Domiziana e Vito, il figlio della mia matrigna, ci avventuravamo nelle nostre esplorazioni tra le felci intorno al ruscelletto che andava a gettarsi in una lunga piscina.

Una sera avevo approfittato dell’assenza di Vito e le avevo chiesto se voleva essere la mia fidanzata. Avevo respirato profondamente e avevo parlato tutto d’un fiato. Domiziana mi aveva squadrato. Aveva aggrottato la fronte.

«Non siamo un po’ piccoli?», aveva osservato con una certa serietà. Avevo replicato che piccola era Onilia, la sorellina minore, e che noi potevamo già considerarci quasi adulti. Comunque, proposi, potevamo intanto provare a darci un bacio.

«Stai scherzando?», aveva detto lei come una principessa offesa. «Io devo ancora decidere».

«Come sarebbe a dire?»

«Quale regalo di fidanzamento mi puoi dare?».

Rimasi a bocca aperta. Non avevo pensato a regali di sorta.

«Silvestro mi ha promesso una capretta», disse Domiziana con crudeltà. Silvestro era il figlio del capo dei nostri buccellari e aveva due anni più di me. E poiché io non avevo la forza di replicare, aggiunse: «Poi c’è Vito che mi darà un porcellino d’India».

«E a Vito chi glielo dà il porcellino?», chiesi io indispettito.

Domiziana fece spallucce. Preso dallo sconforto le mostrai un bel ciottolo levigato che avevo raccolto sulle rive del Melfa. Era bianco con venature verdi. Ero sicuro che fosse rarissimo e prezioso.

«Che vuoi che me ne faccia di un sasso?». Domiziana aveva i capelli neri raccolti in due bande intorno alle orecchie. Con la luce del giorno i suoi occhi erano ambrati. In quel momento l’adoravo ma, purtroppo per me, non sapevo che regalo farle.

«Quando mi darai qualche cosa di bello, allora io ti darò un bacio», tagliò corto lei.

Mi rendevo conto che, comunque, dovevo anticipare Vito. Sapevo che il mio fratellastro non avrebbe lasciato nulla di intentato. Pensai a una lucertola viva, poi a un’anfora piena di gamberi di fiume e infine a un cestino colmo di bacche di rosa canina. Ma ero sfiduciato. Domiziana avrebbe guardato i miei doni, avrebbe alzato un sopracciglio e li avrebbe giudicati inadeguati.

Alla fine ero spazientito. «Quando sarò grande diventerò un famoso condottiero e tu rimpiangerai di esserti fidanzata con uno come Silvestro o magari con Vito e non con me».

«Quando sarò grande io», replicò Domiziana, «sarò dedicata a nostro Signore Gesù e sarò molto più importante di uno stupido condottiero». Poi le sembrò forse di essere stata troppo severa e aggiunse: «Però potresti raccogliere un po’ di fichi gialli. Non credo tu sia capace di arrampicarti sull’albero. Ma quello sarebbe un regalo... ecco, un regalo da fidanzato».

Passai il resto del giorno a raccogliere fichi dorati. Poi mi misi in un angolo del giardino, scartai quelli che non mi sembravano abbastanza belli e sistemai i prescelti in un cestino intrecciato con le foglie più fresche. Soltanto allora decisi di raggiungere la mia sorella adottiva che giocava con una bambola sotto il porticato. Domiziana esaminò i fichi e quindi decise di assaggiarne uno. Sembrò soddisfatta.

«Sì», ammise, «è buono».

«E il bacio?»

«Te lo darò dopo che li avrò mangiati tutti. Potrebbe essercene qualcuno amaro. Sai, il fidanzamento è una cosa da grandi».

«Lo so», feci io un po’ irritato e un po’ impaziente. «Sbrigati, però».

«Io mi sbrigo, ma non troppo, altrimenti mi può venire il mal di pancia».

La guardai desolato. «Ma allora», domandai, «quando mi darai il bacio?»

«Non lo so. Domani o dopodomani. Vedremo. Dipende anche da come sarà il porcellino d’India di Vito».

Presi il cestino e lo gettai a terra. I frutti più maturi si schiacciarono sul pavimento.

«Sei uno stupido», disse Domiziana a denti stretti. «Sei proprio un bambino. Non sarai mai un fidanzato».

«E tu non sarai mai consacrata a nostro Signore».

Domiziana mi fece una boccaccia mentre io le tiravo i capelli. Lei graffiava e mordeva. Io l’avevo presa per un polso e tentavo di torcerle un braccio. Ma a un tratto risuonò la voce di Apollonio, il nostro precettore: «Giulio Valerio, Domiziana, venite subito qui!».

Era un ordine imperioso che non lasciava margine a repliche. Il precettore ci afferrò per i gomiti e ci trascinò quasi di peso nel vestibolo. Lo guardai da sotto in su e mi sembrò pallidissimo.

«Non volevo farle male», piagnucolai.

Ma Apollonio non mi degnò di alcuna attenzione. C’erano uomini trafelati che stavano parlando con i buccellari. Tutti mi parevano presi da una grande eccitazione. E improvvisamente vidi che correvano qua e là, mettevano i catenacci alle porte e rinchiudevano gli animali. Venivano a genuflettersi davanti alla mia matrigna che era apparsa sotto il porticato. Teneva per mano Vito mentre il fattore le indicava l’orizzonte.

Atina distava non più di cinque miglia e nel cielo terso si vedevano fumi come quelli delle stoppie. Ma non era la stagione delle stoppie. Sentii ripetere che le case della città stavano bruciando. Eppure lo spettacolo non mi faceva paura. Anzi, mi sembrava molto divertente.

L’incendio durò per molte ore. Alla sera tutto il cielo era rosso. Il vento portava il fumo. Ricordo i servi che giravano da un punto all’altro dell’aia come se avessero perduto la memoria. Nessuno sembrava badare a noi bambini, ma io ero curioso, volevo sapere quello che accadeva e più tardi, quando ci fu detto che dovevamo partire per raggiungere mio padre, mi sembrò una notizia bellissima.

«Stiamo fuggendo?», chiesi tutto eccitato.

Apollonio fece un’espressione buffa. «Tu credi che ci sia qualcuno capace di costringerci a fuggire?».

Così salii sulla carrozza che si mise a correre nel cuore della notte. Gli incendiari erano disertori – ausiliari barbari dell’esercito – e si aggiravano nei dintorni. Per questa ragione la mia matrigna aveva ritenuto troppo pericoloso rimanere nella villa. E poiché mio padre con il grosso delle nostre guardie del corpo si trovava in una tenuta più a settentrione, aveva deciso di raggiungerlo.

La piccola spedizione era guidata da Apollonio ed era preceduta da una staffetta che avrebbe dovuto segnalare se la via era libera. Seguivano come scorta cinque o sei buccellari.

Arrivammo senza fare brutti incontri al ponte sul Melfa dove, però, Apollonio giudicò poco prudente passare. Ci dirigemmo così verso un boschetto di noccioli per trovare a valle un punto adatto al guado. Il fiume era in secca e la cosa sarebbe stata semplice se non fosse stata notte e se avessimo potuto usare le torce. Alla fine, comunque, avevamo appena raggiunto l’altra sponda quando uno dei cavalieri battistrada tornò indietro al galoppo, ma invece di smontare di sella ci passò davanti per andare a ruzzolare sul greto.

Per quanto sforzi faccia, non ricordo bene quello che seguì. Ci fu una tremenda confusione. La notte era senza luna. Rannicchiato con i miei fratelli nella carrozza sentivo soltanto i rumori. Rumori che non dimenticherò mai. Grida rauche, voci strozzate, rantolii, urla disumane. La matrigna implorava i beati martiri, mentre Apollonio, un po’ ridicolo nel ruolo di guerriero, aveva impugnato una lunga spada che reggeva a stento con entrambe le mani.

Seguì uno strano silenzio. Eravamo immobili e terrorizzati quando una orribile faccia sudata di barbaro apparve tra le cortine di velluto della carrozza. Si mise a sghignazzare prima di ritrarsi. Poi, uno alla volta, anche altri barbari infilarono la testa dietro la tenda per sincerarsi della loro fortuna.

Venimmo portati in quello che era stato il foro di Atina. Il loro capo si chiamava Wolferico. Con una torcia illuminò per bene i suoi prigionieri. Dopo gli occhi spiritati, le facce rosse di vino e i capelli impomatati di burro rancido che avevamo visto affacciarsi su di noi, Wolferico non sembrava tanto spaventoso. Ci scrutò per bene, poi in un discreto latino chiese ad Apollonio chi eravamo.

Il precettore si guardò intorno come cercando aiuto. Alla fine mormorò: «La signora Adeodata e i figli del nobile Donnino».

Il barbaro sembrò per un attimo incredulo. Si voltò verso uno dei suoi aiutanti e pronunciò qualche parola in una lingua gutturale. Poi disse: «Tu menti. Donnino è nascosto nella sua villa a quattro miglia da qui».

Apollonio aveva un’aria impacciata ma sapeva quello che io allora ignoravo. L’unica possibilità che aveva di preservarci dalle violenze era quella di dimostrare che eravamo ostaggi buoni per un ricco riscatto. Era spaventato a morte, ma tentava di conservare un po’ di dignità. Un retore, sembrava si chiedesse, può temere la morte come un comune mortale? Seguì una pausa che mi sembrò lunghissima.

«Ma questa è proprio la verità», disse con un tono apparentemente calmo. Wolferico, da parte sua, si limitò a puntargli la spada allo stomaco e, in quel momento, io gridai: «È vero, è vero, siamo noi!». E subito dopo, anche la mia matrigna, che fino a quel momento era sembrata lontanissima da quelle volgarità, assorta nelle sue preghiere, intervenne. Ricordo la sua voce un po’ atona: «Lascialo stare», disse. «Non ti ha mentito. Sono Adeodata, la moglie di Donnino. Ti chiedo di lasciarci liberi e ti prometto che non sarai punito per quanto hai fatto».

Il barbaro non si preoccupò affatto di quelle parole. Valutò la sua interlocutrice, fece uno strano sorriso e, con un cenno del capo, si ritirò. I suoi uomini staccarono i muli dalla carrozza e ci indicarono l’edificio della municipalità.

Rimanemmo nell’atrio per molte ore. Poi venne un’alba già autunnale. Wolferico entrò scortato da alcuni dei suoi. Afferrò Apollonio.

«Servo», disse, «raggiungi Donnino ovunque egli sia e digli che se vuole riavere vivi sua moglie e i suoi figli deve caricare su un carro venti libbre d’oro e lasciarlo al terzo miglio sulla strada per Formia, vicino al vecchio tempio di Cerere. Noi verremo domani notte a ritirare il carro e la mattina seguente Donnino troverà la sua famiglia sana e salva qui nell’aula dei decurioni».

Poi, dopo avere squadrato Apollonio, aggiunse: «Sarai seguito dai nostri due migliori arcieri. Non ti perderanno di vista fino al momento in cui incontrerai i servi di Donnino. Questo nel caso che ti venisse in mente di tradire noi e il tuo signore».

Apollonio fece per rispondergli. Ma la sua bocca si aprì e si chiuse senza articolare suoni.

«Hai qualche cosa da obiettare?», chiese il barbaro.

Il mio precettore stava schiumando di rabbia. Io ormai lo conoscevo bene. Ma non rispose. Si limitò a fare un cenno di diniego con la testa.

Allora Wolferico aggiunse: «Fatti dare un segno di riconoscimento dalla tua padrona e parti subito. Voglio che arrivi prima dell’ora quarta».

La mia matrigna scrisse poche parole su una pergamena. Appena Apollonio fu partito, Wolferico le disse: «Signora, metto a guardia e a protezione della tua persona e dei tuoi figli questi due guerrieri che sono come miei fratelli. Se qualcuno osasse molestarvi, essi lo impediranno e qualsiasi tua protesta mi sarà trasmessa».

Credo di ricordare ancora quella voce. Era tranquillizzante, o almeno così mi parve. E poi, a me piacevano i pennacchi e le frange colorate che i barbari mettevano in mostra, le borchie che stavano sempre a lucidare e i loro canti malinconici. Quando venne giorno decisero di portarci in un luogo riparato dagli alberi. Forse temevano l’assalto improvviso di una coorte di soldati. Uno dei nostri due guardiani mi lasciò giocare con l’elsa della spada. Prese a dirmi che la sua era una spada magica. Ogni plenilunio diventava d’oro e riluceva illuminando tutta la foresta.

«Nella foresta ci sono soltanto gli animali feroci e le streghe», lo interruppe Domiziana.

«Questo lo credi tu», fece il barbaro con la sua voce cavernosa. Rimase con gli occhi chiusi come se vedesse gli esseri che andava descrivendo. Nella foresta c’erano nani vestiti di pelliccia che abitavano nelle cavità dei tronchi e fate che uscivano dal profumo dei fiori e incantesimi che tramutavano tutti gli esseri viventi in cristallo di rocca. Nella foresta c’era anche un gigante suonatore di corno che chiamava a raccolta gli eroi caduti in guerra. Il guerriero parlava di un’altra musica dolcissima che ammalia i viandanti e li attira sul fondo di un lago. Il lago è magico, naturalmente, e in esso tutte le cose non sono altro che lo specchio del mondo. Poi raccontava di una montagna la cui vetta era sempre nascosta da nuvole di ghiaccio.

Forse oggi faccio un po’ di confusione nel ricordare, ma quelle descrizioni mi erano sembrate così meravigliose che in quei momenti avrei avuto perfino il coraggio di allontanarmi dalla matrigna per poterle ascoltare ancora. La foresta era lì, intorno a me. Poco importava se era soltanto una macchia di noccioli e se vicino non c’era un lago magico ma un pantano pieno di libellule e se invece della montagna inaccessibile c’era un poggio per metà uliveto e per metà vigna. Anzi, quando scoprii che al margine del boschetto c’era un minuscolo tabernacolo votivo con la sua colonnina e la statuetta di un nume tutelare, pensai appunto a qualche cosa di strabiliante. Invece non era altro che una divinità silvestre. E qualcuno gli aveva spezzato anche il naso e bucato gli occhi per esorcizzarne il demone.

Mi addormentai, stanco di tante novità ed emozioni. Sognai le cose incantate che avevo ascoltato. Il guerriero era biondo, quasi albino, aspetto che terrorizzava la nutrice. «Vengono dal paese dove i bambini hanno i capelli da vecchio», diceva, e si faceva il segno della croce. Oppure: «Sono esseri maledetti inviati per mettere alla prova la nostra fede». La nutrice si ritraeva non appena un barbaro si avvicinava, mentre la matrigna fingeva indifferenza. Ma ne seguiva le mosse con la coda dell’occhio.

Come dice Pietro, il mio consigliere e migliore amico, tutto questo episodio è stato probabilmente contaminato da sensazioni provate in anni molto posteriori. E se ci rifletto devo ammettere che è difficile poter ricordare certi particolari. Alcune cose, tuttavia, sono sicuro di averle viste davvero. Per esempio, i due guardiani che con una freccia spezzavano un ramoscello di sambuco. Certo, Pietro sostiene che non potevo sapere quale ramoscello essi volessero colpire. Ma Pietro è un inguaribile scettico che non si guadagnerà mai il Paradiso.

La prigionia durò due giorni. Poco prima dell’alba del terzo giorno, come convenuto, i barbari ci riportarono nel palazzo dei decurioni che era stato bruciato soltanto per metà. Atina era deserta. Si udivano cani abbaiare in lontananza e si vedevano avvoltoi roteare nel cielo. Fummo lasciati che albeggiava e neppure due ore più tardi uno scalpitio di cavalli annunciò la salvezza. Mio padre in persona apparve alla testa di un drappello di soldati.

Ho raccontato più volte questo episodio a Pietro. Non perché sia importante in sé, quanto per analizzare qualche cosa di apparentemente semplice nel tentativo di scoprirvi eventuali complessità. Sono convinto che gli schemi siano necessari ma anche di quanto essi possano rivelarsi ingannevoli. È una delle contraddizioni del mondo. Così è sempre difficile comprendere che cosa lega i seviziati ai loro seviziatori e che cosa respinge i liberati dai loro liberatori.

Dopo esserci rifocillati, partimmo in direzione della villa di mio padre. Il riscatto era stato pagato come Wolferico aveva preteso. In quei due giorni i disertori avevano torturato e ucciso decine di cittadini di Atina. Ovunque, nelle campagne, si trovavano corpi di contadini.

A un tratto, Apollonio si sporse su di me come per impedirmi la visuale e la stessa mossa fece la mia matrigna con Domiziana e Vito. Ma il precettore non fece in tempo. Ai bordi della strada che portava alla via Casilina erano appesi strani fantocci. Wolferico e i suoi compagni non erano andati troppo lontano. Un distaccamento di cavalleria li aveva sorpresi in una strettoia lungo la valle. Io li vedevo trapassati dalle lance e infissi sui tronchi degli alberi, come i messaggi attaccati con gli spilli nelle tabelle di legno. Wolferico aveva il capo semimozzato che pendeva da un lato. Accanto a lui era il guardiano dai capelli albini. Forse lui aveva raggiunto il suo gigantesco suonatore di corno.

Quello di Atina fu il mio primo incontro con la guerra, dalla quale mi sarei allontanato di rado durante tutta la vita. Pietro sostiene che la guerra è utile per far comprendere quanto male c’è nel mondo e far sì che gli uomini aspirino alla Città di Dio. Ma io non sono affatto sicuro che parli sul serio. Soprattutto la citazione dell’opera del beato Agostino di Ippona mi lascia perplesso perché so quanto poco gli scritti di quel santo vescovo ispirino il mio amico.

II

Vado spesso alla ricerca del primo ricordo. È un gioco che mi è stato insegnato proprio da Pietro nelle lunghe serate prima di una giornata importante. Abbiamo appena finito di predisporre le cose da fare l’indomani, di discuterne i particolari, di tentare di prevedere le conseguenze delle nostre azioni. Ed ecco che ci abbandoniamo nel triclinio ad attendere la notte. Beviamo vino e miele, Pietro legge alcuni versi da lui composti, recitiamo la preghiera del vespro. Poi ci inoltriamo nei luoghi meno accessibili della memoria. Per uscire dal presente annebbiamo la vista fissando un punto immaginario molto al di là di uno degli oggetti che ci circondano.

La mia città natale è Alessandria d’Egitto. Ma ci sono nato per caso. Mio padre a quell’epoca era incaricato di controllare le esportazioni verso l’Occidente. Ci si trovava bene, eccezion fatta per il problema della lingua. Laggiù il latino viene parlato soltanto dai soldati e da qualche funzionario, mentre tutti biascicano un greco bastardo con la pronuncia dei copti che assomiglia a un gargarismo.

A mia madre Alessandria piaceva poco. Le sembrava troppo calda e troppo polverosa. Aveva trascorso la sua adolescenza sulle rive del Danubio, in una cittadina piena di fango e di escrementi di cavalli, ma circondata da prati a perdita d’occhio. Suo padre comandava infatti le legioni di stanza a Budapest ed era uno degli spagnoli del seguito di Teodosio. Aveva conosciuto il suo futuro marito (che vi si trovava come ispettore annonario) mentre ascoltava un concerto del famoso organo idraulico che pare sia l’unica cosa davvero interessante di quel luogo. E là, tra provinciali un po’ zotici e barbari idolatri, era stato combinato il matrimonio. Due famiglie della classe curiale proteggevano con la loro buona fortuna i giovani Elena e Donnino, come dal medaglione d’avorio che porto sempre con me: i miei genitori con i volti adolescenti e parecchio imbelliti, sotto angeli che recano ghirlande in mezzo a un gregge di agnellini.

Ad Alessandria la mia famiglia aveva acquistato un precettore per me. Si trattava appunto di Apollonio. Era uno scrivano di Malta che, prima di essere venduto dal tribunale per una questione di debiti (ma lui sosteneva di essere stato raggirato da un esattore imbroglione), aveva insegnato in una scuola di retorica. A me Apollonio faceva impressione soprattutto per il suo enorme naso. Una proboscide che gli cadeva sul labbro superiore. Aveva anche foltissime sopracciglia nere a compensare i pochi capelli.

Come tutti i precettori aveva le sue manie. Per esempio, era irremovibile sulle belle copie. «La forma rivela la diligenza», aveva l’abitudine di ripetere. «Devi mettermi nella condizione di apprezzare lo sforzo che fai per presentarmi bene il tuo lavoro. La bella copia è come il bel vassoio preparato da un cuoco».

Naturalmente pretendeva anche rispetto e talvolta mi infliggeva punizioni. Ma la sua severità era, come dire, un po’ distratta. Accadeva, per esempio, che dimenticasse il tipo di punizione o il suo motivo. Allora si metteva a tergiversare e poi fingeva di essere clemente per non fare la figura dello stupido. Ogni tanto si incantava a metà di una frase e si accorgeva di non ricordarsi più di che cosa stava parlando. Oppure usciva improvvisamente dalla stanza come preso da chissà quali pensieri senza ricordare che la lezione non era finita. Una volta si era alzato di scatto dal suo scranno dimenticandosi di avere incrociato i piedi sotto il tavolo ed era finito lungo disteso sulla stuoia.

Per quanto avessi già subìto in alcune occasioni il suo frustino (quando mi ero messo a ridere sgangheratamente di fronte a qualcuna delle sue stranezze), ero abbastanza orgoglioso di avere uno schiavo. Già a quell’epoca gli schiavi erano diventati rari e soltanto vescovi e senatori ne possedevano in un certo numero.

Come a tutti quelli che non hanno nulla da decidere, ad Apollonio piaceva moltissimo raccontare. La storia di Ipazia, per esempio, la conosceva bene. Aveva uno strano modo di rievocare quei fatti. E ora mi sono quasi convinto che, in fondo, lui sia stato un po’ innamorato di Ipazia. L’amore di un uomo sfortunato, poco attraente e ridotto in servitù, per una gran dama.

Era stato lui a convincere mia madre ad andare a sentire le lezioni di filosofia. Credo fosse l’anno 413, poco prima della mia nascita. In quegli anni la scuola neoplatonica era ancora molto attiva e i miei genitori non abitavano lontano dalla casa di Ipazia che era di fronte al Faro. Si erano scambiati visite da buoni vicini e Ipazia aveva anche preparato un oroscopo per me quando aveva saputo che mia madre era incinta. Al momento del parto Ipazia ci aveva mandato il suo medico, un taumaturgo di tale valore da essere visto con sospetto dai fedeli. Ogni cosa si era svolta con grande ordine. Il medico aveva fatto preparare i decotti, aveva fatto bollire due volte l’acqua e si era preoccupato di fare esercitare la mamma nella respirazione.

«L’aria, l’acqua e il fuoco», aveva ripetuto alle donne che lo aiutavano, «sono gli elementi fondamentali di ogni cura». E poi le erbe. Il suo aiutante portava con sé un bauletto dove ogni essenza era catalogata e tenuta in bottigliette chiuse con la lacca.

A sentire Apollonio, i miei non ignoravano che ad Alessandria la gente non aveva troppa simpatia per i filosofi. Di Ipazia si diceva che fosse una maga. È certo, comunque, che i neoplatonici disprezzavano i giochi del circo e si mostravano un po’ troppo indifferenti alle cose che li circondavano. E anche il santo vescovo Cirillo, nelle sue omelie, aveva spesso qualche cosa da dire contro di loro.

Un pomeriggio io stavo giocando con l’acqua di una fontanella nel peristilio di Ipazia. Provavo a catturare lo zampillo che scaturiva dalle fauci di un delfino. Una bimbetta della mia età mi stava a guardare con una certa invidia. Era Domiziana, la figlia adottiva della padrona di casa.

«Siamo fortunate ad avere figli», aveva detto Ipazia a mia madre. «Io ho tanti discepoli, ma la scuola ormai non è più quella di una volta. La gente è volubile e si fa suggestionare facilmente. I giovani studiano la filosofia per imparare argomentazioni che un giorno potranno sfruttare per diventare vescovi. Almeno i figli...».

Anche quel dialogo era stato ricostruito per frammenti da Apollonio. Forse era stato un po’ diverso ma credo che il mio precettore non ne tradisse il senso. La scena lui la descriveva in modo abbastanza nitido.

I miei genitori frequentavano Ipazia ma non avevano le sue stesse idee. Lei era un’ellenista mentre mio padre e mia madre erano fedeli al Credo niceno. Mio padre, però, era incuriosito dalla capacità dei filosofi di avventurarsi nella matematica, disciplina che lo ha sempre interessato più di ogni altra insieme con la geografia.

Una domenica del 415, al termine della eucaristia nella basilica di San Marco, mio padre venne avvicinato da un giovane diacono. Il patriarca lo voleva vedere.

«Nobile Donnino», esordì il vescovo Cirillo, «non sono molte le occasioni che abbiamo di incontrarti perché ti sappiamo preso dagli urgenti impegni del tuo alto ufficio».

Quell’accenno alla scarsa frequentazione preoccupò mio padre che, come a scusarsi, accennò un inchino. Cirillo aveva una quarantina d’anni ed era patriarca proprio dall’epoca della mia nascita. Fece sedere mio padre su uno scranno davanti a un grande tavolo di porfido. Nella stanza non c’erano altri mobili. Soltanto rotoli di pergamena, papiri e volumi nelle nicchie lungo le pareti. Un mosaico rappresentava il patriarca Atanasio che combatteva contro due idre. Le idre avevano i volti dell’eretico Ario e dell’apostata Giuliano.

«L’augusto Teodosio II, che Dio lo protegga, è convinto che tutto il mondo sia ormai purificato da démoni e da idolatri», disse Cirillo, «ma nella sua generosità pecca di ottimismo. Noi sappiamo che non è così».

A mio padre il discorso pareva strano, ma il vescovo aveva un’espressione rassicurante.

«Ho scritto recentemente all’augusto», aggiunse Cirillo, «e gli ho indicato i problemi della nostra città. Ci sono ancora troppi eretici, troppi ebrei e troppi adoratori degli antichi idoli».

«È quanto sostiene anche l’augusto Onorio», disse mio padre a quel punto. Era un’osservazione banale ma sufficiente a ricordare al vescovo che, comunque, lui non dipendeva dall’imperatore d’Oriente ma da quello d’Occidente.

«Certamente», tagliò corto il patriarca. «Ma il vero problema è individuare questi nemici. Spesso sotto apparenze innocue si nascondono insidie molto pericolose».

«Alludi a qualche cosa di preciso?», chiese mio padre.

Cirillo allargò le mani e guardò in alto come per chiedere al Signore pazienza e illuminazione. «Nobile Donnino», disse, «non si tratta di allusioni purtroppo. Ecco perché abbiamo bisogno dell’aiuto di tutti gli uomini di buona volontà. Di tutte le personalità eccellenti. Insomma, i pastori chiamano a raccolta i loro agnellini se il lupo si avvicina».

Mio padre a quel punto chiese chi era il lupo. Era un uomo prudente anche da giovane ma i giri di parole lo irritavano un po’. Temeva sempre di perdere il proprio tempo. «Le ore passano», aveva l’abitudine di dire, «e non ne abbiamo tante a disposizione durante la vita. Cinquecentomila più o meno». Aveva il piacere dei numeri.

«Il lupo?», si domandò Cirillo. «Di lupi ne vediamo tanti, sotto fogge disparate. Ma io credo che le insidie maggiori vengano da chi non si dichiara apertamente nemico della Chiesa, ma che pretende vi siano spazi, per così dire, a lato della fede, come se la verità non fosse una sola. Che immagina la fede come una parte della conoscenza e che perciò non debba necessariamente escluderne altre. Insomma, che la fede è una cosa e la sapienza un’altra. Così facendo non si rinnega apertamente il Verbo ma lo si relega in un angolo».

«A che cosa ti riferisci, in particolare?», tentò di capire mio padre un po’ allarmato.

Il patriarca sorrise. Aveva un aspetto mansueto e soltanto le mani che afferravano il bracciolo del suo scranno rivelavano la tensione. «Se vuoi un esempio del discorso che sto facendo, lo puoi trovare molto vicino a te. Mi è stato riferito che tua moglie, la nobile Elena, frequenta la scuola di filosofia e che voi intrattenete rapporti di cordialità con alcuni esponenti di quella scuola».

Mio padre si irrigidì sulla sedia. «Santo vescovo, né mia moglie né io abbiamo offeso in nulla la vera Fede. La nostra conoscenza con Ipazia è dovuta soltanto alla vicinanza. Abitiamo vicini, questo è tutto».

«Già, Ipazia», fece Cirillo come se stesse riflettendo. «Ho saputo che pochi giorni fa lo stesso spettabile prefetto augustale, uomo di cui tutti apprezziamo la bonomia, si era recato da lei per ascoltarne un parere. C’erano decine di carrozze davanti a quella residenza. Ma occorre ricordare che si tratta di una donna molto tenace nei suoi errori. Una donna superba che crede di poter fare a meno di Dio».

«È una studiosa. Non compie alcuna azione contro la Chiesa».

Cirillo si alzò e prese ad andare avanti e indietro nella stanza. «Vedi, Donnino, questo sembra a te. Ma i giudizi sulle questioni di fede è meglio che voi potenti li lasciate a noi umili pastori di anime. Noi crediamo che persone come Ipazia siano molto insidiose se non contrastate. Ricordi Giuliano, il dannato apostata? Sulle prime anche lui era sembrato un filosofo. La gente diceva: un tipo eccentrico, un po’ vago. Ma poi? Per questo motivo noi diciamo: non dare confidenza a questi falsi predicatori...».

«Veramente», lo interruppe mio padre, «con Ipazia io parlo soltanto di matematica».

«Matematica? Ma tu saprai come il Maligno usi anche argomenti innocui per raggiungere i suoi scopi. E, poi, lasciacelo dire: perché perdere tanto tempo con cose inutili come la matematica quando siamo chiamati a compiti ben più elevati? Perché non occuparci piuttosto della nostra anima che è immortale?»

«Posso concordare con te che la matematica serva poco a salvare l’anima», mormorò mio padre, «ma il mio compito è fare calcoli e la matematica è un ottimo strumento di lavoro».

«Sì, sì, certo», fece il patriarca comprensivo. «Ma crediamo anche che tu abbia capito le nostre preoccupazioni e che farai di tutto per alleviarle».

Quel colloquio finì così. Cirillo regalò a mio padre una reliquia del beato evangelista Marco perché mi accompagnasse per tutta la vita e mio padre se ne tornò a casa con il cuore in tumulto. Si sentiva un po’ umiliato ed era anche preoccupato. A mia madre ordinò che smettesse subito di andare alle lezioni di Ipazia.

«Ma come faccio?», esclamò lei. «Che scusa posso trovare?».

Per il senso pratico di mio padre quella non era una difficoltà. Mia madre era al settimo mese di gravidanza e aspettava mia sorella Onilia.

«Già», obiettò lei, «ma è proprio il medico di Ipazia che mi visita».

«Be’, gli dici che ti senti stanca e rimani in casa. Insomma, l’ultima cosa che voglio è attirarmi l’inimicizia del vescovo. Puoi immaginartelo: lui farebbe sapere la cosa a Costantinopoli e poi la notizia arriverebbe subito a Ravenna. Non ho intenzione di essere motivo di contesa tra i due governi».

«Non ti sembra un po’ vile comportarsi così?», chiese mia madre.

Lui scrollò le spalle con quell’aria indisponente che ogni tanto era capace di assumere. «Quante possibilità abbiamo noi di vincere sul patriarca in una questione del genere? Ebbene, mia cara: nessuna. E allora, se contesa ci deve essere, la lascio a chi ha più forza di noi».

La contesa cui alludeva mio padre fu molto breve. Di fronte alle improvvise scuse dei miei genitori Ipazia probabilmente capì. Poi, pochi giorni dopo, un informatore avvertì il comandante dei vigili che c’era molta rabbia nei quartieri più poveri e che molti mercanti ebrei spaventati avevano già lasciato Alessandria.

«Sono stati visti in giro eremiti giunti dal deserto», disse l’ufficiale, «e anche strani individui. Sembra che siano amici del Lettore. Si teme una sommossa».

«Che dice la gente?», aveva chiesto mio padre.

«Voci contraddittorie. C’è chi parla di un complotto degli ellenisti per uccidere il santo monaco. Come Nostro Signore Gesù, accolto il giorno delle Palme e sacrificato una settimana più tardi».

A mio padre il paragone tra il Lettore e Nostro Signore era parso un po’ azzardato. L’ipotesi che qualcuno volesse uccidere il monaco gli sembrava poi un’assurdità.

«Credo che sarà opportuno far chiudere tutti i magazzini del porto», osservò.

L’ufficiale fu d’accordo. Mio padre incontrò il suo collega che lavorava al servizio del governo d’Oriente e insieme disposero che fosse raddoppiata la guardia ai silos del grano destinato a Roma e a Costantinopoli. Tornato a casa non disse niente a mia madre, ma scrisse un biglietto a Ipazia invitandola a tenere chiusa la scuola per qualche giorno. Lo affidò ad Apollonio che poco dopo tornò con la risposta.

«Ti ringrazio», c’era scritto. «Terrò conto del tuo consiglio. Domani concluderò le lezioni sulla Triade Intelligibile. Subito dopo partirò per il Delta. Me ne resterò là a studiare e a meditare».

Ipazia, però, non fece in tempo a raggiungere la sua casa di campagna. Il giorno seguente Apollonio non aveva voluto perdersi quell’ultima lezione. Era un pomeriggio d’autunno, la stagione era mite, non ancora fresca e non più rovente. La lezione, in quei casi, si teneva in un ampio peristilio adorno di busti dei grandi pensatori della scuola platonica. Le loro barbe marmoree stavano lì a mostrare una specie di astrazione fuori del tempo. Gli studenti erano seduti per terra su stuoie di papiro e gli invitati avevano a loro disposizione scranni d’ebano. Ipazia era stata particolarmente brillante, ricordava Apollonio, poi il racconto si interrompeva.

Come è noto, Ipazia, terminata la lezione e uscita dalla scuola, era stata aggredita da una folla guidata dagli eremiti. A quel tempo erano almeno cinquecento i monaci mendicanti per le vie di Alessandria. La sua lettiga era stata rovesciata e il suo tentativo di fuga fu inutile. Venne raggiunta e uccisa a bastonate. Il suo corpo straziato fu fatto a pezzi. Apollonio, che aveva assistito alla scena senza poter fare nulla, aveva però avuto l’intuizione di correre subito alla casa della filosofa. Si fece consegnare la piccola Domiziana e fuggì più velocemente possibile. Poco dopo la casa venne invasa. Nell’atrio volumi e pergamene furono accatastati e dati alle fiamme. Intanto gruppi di energumeni sfasciavano le statue a colpi di mazza mentre altri si accapigliavano contendendosi vesti e coppe e tutti gli oggetti che potevano essere rubati. Poi il fuoco avvolse ogni cosa.

Arrivato a casa, Apollonio narrò con cautela l’accaduto a mia madre. Omise le parti più orribili dell’uccisione. Ma, proprio in quel momento, un corteo vociante passò davanti alla nostra villa. La mamma volle guardare nonostante il mio precettore tentasse di impedirglielo. Non so che cosa vide. I sostenitori del Lettore procedevano in una orrenda processione. Brandivano i resti del corpo di Ipazia come labari formati da ganci di macelleria e inneggiavano al monaco.

Mia madre chiuse la finestra e si aggrappò alla maniglia. Ma non riuscì a restare in piedi. Quando fu mandato a chiamare il medico greco nessuno lo trovò. Era scomparso, nascosto chissà dove. Una levatrice fu in grado di far nascere mia sorella Onilia, ma la sua nascita precedette soltanto di poche ore la morte di mia madre.

La mamma morì per una emorragia che non fu possibile arginare. Nei giorni seguenti, mentre la nostra famiglia era chiusa nel lutto, il patriarca Cirillo deplorò la violenza e pronunciò un’omelia sulla virtù cristiana del perdono. I benpensanti si mostrarono scandalizzati. L’inchiesta, però, si era arenata davanti alla generale omertà. Gli stessi ellenisti avevano protestato senza troppo clamore. Temevano per la loro vita. La scuola di filosofia rimase chiusa per qualche mese. Le autorità cittadine avevano spiegato che si volevano evitare nuovi disordini. E, in seguito, gli studiosi presero l’abitudine di riunirsi quasi in segreto evitando di farsi notare. Poi, uno alla volta, emigrarono ad Atene.

III

Pochi mesi più tardi anche noi partimmo da Alessandria. Lasciammo in quella città la tomba di mia madre che non sono più riuscito a visitare. Mio padre già prima di partire dall’Egitto aveva ottenuto la qualifica di «onorabile» e stava adoperandosi per avere il titolo di «chiarissimo» ed entrare in Senato. E, appunto per facilitare la propria ascesa, aveva accettato un incarico simile a quello di Alessandria, ma questa volta a Cartagine. Si trattava di una promozione, perché dirigere l’esportazione del grano proprio nella città che ne era il principale centro di smistamento era di fatto una carica più importante di quanto risultasse dalla scala gerarchica. Poi si era risposato con una signora di campagna, figlia di un proprietario della Sabina. Un matrimonio di convenienza, tra un vedovo con tre bambini piccoli e una vedova, Adeodata, che aveva a sua volta un figlio, Vito.

Trascorremmo nella provincia d’Africa quattro anni, ma i miei primi ricordi certi credo risalgano soltanto alla primavera del 418. A quell’epoca Cartagine era una città bellissima, sebbene io fossi troppo piccolo per apprezzarlo. Templi, teatri, chiese, biblioteche, terme, palestre, abbagliavano la vista con i loro marmi colorati nella luce di maggio. Durante il giorno spirava dal mare una brezza rinfrescante mentre di sera un vento più tiepido veniva dall’interno. Era ancora una città intatta, una delle poche dell’Occidente a non essere stata toccata dai barbari al punto che non aveva neppure le mura e l’abitato non era racchiuso entro un perimetro. Si espandeva proprio come le città di una volta (neppure tanto tempo fa se si pensa che le mura della stessa Roma hanno meno di duecento anni) e sembrava sul punto di strappare una veste troppo stretta.

Era piena di folla e senza spazi vuoti. Verso il porto si vedevano granai a perdita d’occhio e poi depositi e cantieri. Decine di navi erano alla fonda e turbe di facchini caricavano le anfore di grano e scaricavano prodotti che venivano da altre province. C’erano vetri smaltati e pecore vive che arrivavano dalla Gallia, utensili di metallo dalla Spagna e prosciutti dalla Fiandra. Ma c’erano anche le mercanzie provenienti da Costantinopoli, da Alessandria, Tessalonica ed Efeso. Più rare, invece, le navi da Ravenna ad eccezione delle biremi veloci che recavano i corrieri imperiali.

Mio padre frequentava il teatro, dove recitavano istrioni famosi come il comico Mascula, oggi confessore della fede per non avere abiurato di fronte alle minacce di morte degli eretici. La vita di Cartagine era gaia e i costumi molto licenziosi.

Ricordo una passeggiata con Apollonio. A un tratto fummo circondati da un gruppo di stranissime donne con il viso coperto di belletto.

«Bel filosofo», si era messa a gridare una di loro al mio precettore, «prenditi uno svago. Conosco tutte le arti di Venere e anche quelle di Pan!».

Tutte si erano messe a ridere un po’ sguaiate e Apollonio aveva affrettato il passo tirandomi per il braccio.

«Rètore», si mise a gridare un’altra, «porta anche tuo figlio che gli insegno io qualche cosa che non troverà mai sui libri».

Naturalmente ero troppo piccolo per capire che cosa offrissero le donne da strada. Ma Apollonio mi dette uno strattone: «Andiamo, su, non perdiamo tempo».

«Guarda», sillabai io, «sono coperte di piume come le galline...».

Un secondo strattone mi avvertì che il mio precettore stava per perdere la pazienza. «Andiamo via, ho detto», fece Apollonio.

Nel frattempo il gruppo variopinto si dimenticò di noi. Erano sopraggiunti due marinai greci e questi uomini-donna, perché di quello si trattava, presero a richiamarli con moine e schiocchi della lingua. Io mi misi a ridere. Quegli uomini si muovevano come femmine ed erano uguali a femmine nel viso, nel trucco e nelle parrucche.

I marinai risposero con qualche parolaccia nella loro lingua e tirarono dritto. Subito dopo apparve una signora che si prese una bella razione di boccacce. Poi fu la volta di un prete che finse di non vedere mentre due di questi buffi individui sollevavano il gonnellino di piume e gli mostravano il sedere.

Quella fu la mia prima conoscenza con Cartagine. E non fu un caso straordinario. Infatti in tutte le province d’Africa a quell’epoca sembrava che la gente volesse soltanto sperimentare nuove stranezze. Gli spettacoli erano audaci, i banchetti si trasformavano spesso in orge. Il vino di datteri scorreva a fiumi. Circolavano storie che non sto a raccontare sui rapporti carnali tra uomini, donne ed eunuchi.

Nel tentativo di fare concorrenza agli spettacoli profani, il vescovo Aurelio aveva moltiplicato i riti religiosi. E, infatti, quelli che non si interessavano a un certo tipo di divertimenti erano ferventi devoti. Ma non sempre erano credenti nella vera Fede. Oltre ai niceni si incontravano eretici di tutti i tipi. I pelagiani, per esempio, erano seguaci di un bizzarro britanno del Galles di nome Morgan fuggito qualche anno prima da Cartagine in Egitto e i suoi amici si aspettavano che tornasse da un momento all’altro. I donatisti erano tipi poco raccomandabili sempre al centro di tutte le risse. Poi c’erano molti manichei che se ne stavano chiusi nelle loro chiese a cantare e a digiunare. Quanto agli adoratori degli antichi dèi, pochi ammettevano di esserlo, ma c’era da supporre che alcuni frequentatori degli spettacoli e del circo non avessero molto a che fare con Nostro Signore. Piuttosto conoscevano ogni segreto degli aurighi. La Casa dei Cavalli con i suoi ottanta celebri purosangue ritratti sul mosaico del pavimento era sempre affollata da scommettitori e da intenditori.

La carica che aveva più importanza nella città era infatti quella di assessore ai giochi. Per il resto, quanto accadeva nel mondo interessava poco alla gente. La notizia che a Ravenna l’augusto Onorio aveva preso come collega Costanzo III, secondo marito di sua sorella Galla Placidia, non aveva suscitato alcuna emozione. Soltanto quando i banditori avevano annunciato che alla stessa Galla Placidia era stato conferito il titolo di augusta la cosa era stata oggetto di qualche malignità. Le faccende del Sacro Palazzo servivano soltanto per immaginare che vi accadessero cose turpi. Tutti a Cartagine sussurravano, per esempio, delle strane tendenze che l’imperatore avrebbe avuto per sua sorella, diceria che mi ha sempre trovato un po’ scettico.

Gli affari di Stato erano oggetto di malevolenze perché in quella città ben pochi amavano i dinasti e, caso mai, preferivano il loro governatore Bonifacio. Per quanto io fossi soltanto un bambino, ricordo per esempio le messe in suffragio dell’imperatore Arcadio nella basilica di San Cipriano. I principali cittadini si soffermavano davanti all’atrio a scherzare e a complimentarsi l’un l’altro per una bella toga o per un’acconciatura che pur rispettando l’occasione non togliesse alcunché alla bellezza delle signore.

A Cartagine un posto che mi piaceva erano le terme di Antonino in fondo al lungomare. Soprattutto mi attiravano le grandi cisterne che si trovavano subito dietro l’edificio dove si poteva giocare a nascondersi. Oppure il colle dietro l’anfiteatro. Tra alcune abitazioni modeste c’era un tempietto semidiroccato una volta dedicato a Esculapio.

«Ecco», mi aveva detto Apollonio, «in questo punto, quasi seicento anni fa, gli antichi punici si gettarono nel fuoco piuttosto che arrendersi a noi Romani».

Non aveva detto altro, ma io non ero tanto impressionato dalle fiamme che divoravano quei nemici di una volta. Chiesi: «Quanti sono seicento anni?». A quell’ora non si udivano rumori. Apollonio non mi aveva risposto. Credo che anche per lui fosse difficile spiegare a un bambino le profondità del tempo e dello spazio. Sembrava incantato ad ascoltare il vento che si insinuava tra le colonne e i capitelli scoperchiati. Poi mi aveva indicato le case che scendevano fino al mare. Il porto, visto così dall’alto, assomigliava a un sigillo con il suo anello.

Era passato qualche anno dal nostro trasferimento a Cartagine quando, con i miei fratelli, fui portato da Adeodata a Ippona a rendere omaggio al vescovo Agostino. Veleggiammo per tre giorni lungo la costa. Sostammo per le notti a Biserta e a Tabarca. Vedevamo in lontananza la grande montagna della Megerda ricoperta dalla foresta che scende fin quasi sul mare. La sera del terzo giorno arrivammo a Ippona dove alcuni diaconi ci aspettavano sul molo.

Il vescovo Agostino ci ricevette il mattino seguente. A quell’epoca aveva sessantasette anni e stava scrivendo il diciottesimo volume della Città di Dio. Ci facemmo largo tra la folla scortati da un drappello di guardie. Le autorità municipali di Ippona gli avevano messo al fianco una scorta permanente. Doveva impedire che i fedeli per impossessarsi di qualche lembo del suo abito lo travolgessero con la loro devozione come era già accaduto qualche volta. Il sant’uomo ci obbligò a fare due giri della basilica in ginocchio e poi ci esortò alla preghiera.

Io mi guardavo intorno. C’erano tante candele accese che l’interno della chiesa sembrava un firmamento stellato. Il vescovo aveva incominciato a predicare e Vito si mise a tirar fuori dalle tasche della tunica pezzi di legno e noci.

«Occorre digiunare», disse Agostino. Ma dal nostro banco, nel settore riservato ai maschi, venne uno strano rumore. Era Vito che aveva schiacciato una delle sue noci. Per fortuna nessuno se ne accorse.

«Evitate le congiunzioni carnali se volete liberare lo spirito nella sua purezza», disse ancora Agostino. «E ricordate che è la concupiscenza a trasmettere il peccato originale». Poi il vescovo si era messo a citare passi della Bibbia e delle profezie. Aveva ripetuto nella sua omelia che Roma si era identificata con Babilonia e si era meritata l’ira divina. Questa si era manifestata attraverso i barbari di Alarico.

Si era anche portato le mani alle orecchie. «Non sentite», aveva esclamato, «il rumore dell’impero che come un uadi in piena corre impetuoso verso la Fede? Rispettate i divieti. Non imitate i peccatori. E se proprio siete indotti nel peccato abbiate sempre la forza di pregare e di credere. Se siete peccatori, se siete egoisti, se fate elemosine senza generosità, ricordate almeno di pensare a voi stessi come piccole creature che credono nella gloria di Dio e della sua Chiesa».

«La mamma dice che Cartagine è piena di peccatori», aveva detto quella sera Vito nel cortile della locanda che ci ospitava. «E che finirete tutti col diventarlo, perché Apollonio è un idolatra».

«Apollonio non è un idolatra», avevo replicato io.

Vito allora si era messo a mostrarci tutta una serie delle cose che sapeva fare. La creta con il fango mischiato all’orina, una collana di scarafaggi infilati con gli spilli e quella che chiamava la polvere di denti.

«Basta andare dal garzone di un dentista», disse, «e puoi avere tanti denti quanti ne vuoi. Poi li pesti in un mortaio...».

«Ma fa schifo!», protestò Domiziana.

Vito storse la bocca. «Tua sorella è una donnicciola», mi disse. «Quando torniamo a Cartagine ti farò vedere la corsa dei passeri».

«E che cosa sarebbe?»

«Si prendono un po’ di passeri nel nido e si spennano. Così sbattono le ali ma non riescono a volare. Ma se butti un po’ di miglio davanti a loro si mettono a correre come polli. È molto buffo».

La storia dei passeri senza ali fu troppo per Domiziana. Si mise a dire che non voleva più vedere Vito e che dovevo mandarlo via. Ma non era facile. Lui era più grande e più forte di me e si mise a ridere quando gli dissi di andarsene.

«Così, ti fai comandare da lei?»

«Domiziana ha ragione. Non vogliamo più starti a sentire».

«Io parlo quanto mi pare». Poi si aprì davanti e incominciò ad annaffiare con uno schizzo incredibilmente lungo la bambola snodabile di Domiziana che se ne stava appoggiata al muro come se fosse una bambina vera.

La cosa straordinaria di Vito era che riusciva con grande naturalezza a trasformarsi. Era perfetto, quasi lezioso, quando sua madre lo presentava alle amiche o ai preti, mentre diventava uno dei bambini più maleducati che avessi mai conosciuto in altre occasioni. Ricordo che rimasi come paralizzato mentre Vito finiva di bagnare la bambola. Poi Domiziana guardò il suo giocattolo tutto inzuppato e si mise a piangere disperata mentre io mi avventavo su Vito. A separarci arrivò un diacono ma non in tempo per evitarmi un brutto pugno sul naso.

Fui punito con pane e acqua, mentre Vito dapprima fu obbligato a lavarsi i denti con un unguento che lo disgustava e poi si buscò una buona dose di bacchettate. Ma, ugualmente, due giorni dopo, risaliti a bordo della nave, pur stringendo i denti per il dolore, si pavoneggiava come un vincitore. Quello fu il nostro primo confronto. Il primo di una lunga serie.

Rientrammo a Cartagine. Io un po’ umiliato per non essere riuscito a difendere la mia sorella-fidanzata e la mia matrigna ormai sicura che la fine del mondo era vicina e che bisognava prepararvisi da buoni cristiani.

Seduto nel peristilio, prima dell’ora vespertina, mentre le rondini inanellavano voli intorno al tetto del porticato, mio padre respirava profondamente. Era l’inizio di ottobre e Adeodata gli parlava dell’imminente apocalisse. Per la verità non sembrava affatto che fossimo prossimi al termine di tutte le cose, ma la matrigna spiegava come fosse ingannevole il mondo e come tutti, anche noi che ci credevamo buoni, eravamo meritevoli di punizione. Io speravo che, se il giudizio universale doveva proprio esserci, almeno avvenisse dopo il mio fidanzamento con Domiziana.

Mio padre obiettava ogni tanto con un’aria un po’ distratta. Era bruno di carnagione con gli occhi sempre un po’ arrossati e una voglia sul collo. Una strana macchia che talvolta sembrava scomparire. Aveva una specie di manìa per l’ordine. Teneva le sue carte divise ed etichettate. Diceva che solo l’ordine materiale lascia spazio alla fantasia e non le permette di trasformarsi in sfrenatezza. Ma non era un uomo noioso. Aveva sempre qualche cosa da raccontare e mi pareva che in lui ci fosse spesso un piccolo mistero da svelare.

Poi Adeodata si mise a insistere sul fatto che tutti eravamo peccatori destinati a espiare e mio padre replicò che quelle erano le idee dei circoncellioni. Ci fu una breve discussione tra loro. Poi mio padre tagliò corto: «Sono le cose che vanno predicando quei banditi».

«Ma tu non puoi dire che il beato Agostino è un circoncellione», protestò lei.

«Lui no. Ma bisogna stare attenti a non vedere il peccato ovunque. Altrimenti si fa il gioco di quei criminali».

In Africa, a quel tempo, i proprietari agricoli erano in grande fermento. Si lamentavano di non essere difesi. Le bande dei circoncellioni con i loro crocifissi di legno e la pretesa di farsi chiamare santi perquisivano le fattorie. La scusa era di controllare se ci fossero idoli nascosti ma in realtà derubavano la gente e predicavano l’odio contro il governo. Poi c’erano anche i nomadi del deserto che compivano improvvise razzie. E poi i braccianti fuggiti dalle tenute che si confondevano con gli uni e con gli altri.

Le cose non erano così gravi come venivano dipinte, ma per i ricchi e per i senatori era di moda mostrarsi preoccupati e protestare contro l’indifferenza dei ministri di Ravenna. Facevano a gara nel costruire torri intorno alle loro ville. Fortificavano le fattorie e perfino le stalle e i pollai. Poter esibire un gran numero di guardie del corpo era segno di denaro e di potere e così molti coloni preferivano darsi a quel tipo di lavoro piuttosto che coltivare la terra. D’altra parte i contadini erano ostili a qualsiasi iniziativa municipale. Loro parlavano una lingua diversa, il dialetto punico o la lingua aspirata dei beduini. Le città erano il simbolo dell’oppressione. Se dal deserto arrivavano i predoni era in città che i proprietari si rifugiavano e nelle città i preti, con il loro perfetto latino, erano considerati gli alleati e i portavoce dei latifondisti.

Era curioso, dunque, sentire mio padre accusare sua moglie di diffondere le idee dei circoncellioni. Ma a quel tempo non ero in grado di rendermi conto della stranezza. In genere quelle conversazioni precedevano la preghiera del vespro. Se il tempo era buono, tutti i servi venivano convocati a loro volta nel peristilio. Si cantavano le lodi a Dio. I cori accarezzavano le nostre orecchie di bambini. Come mi piacevano le funzioni! Adoravo le litanie e le voci dei diaconi a metà strada tra la giaculatoria e il canto. Mi piacquero fino al giorno in cui andammo alla funzione della Sesta Domenica.

Tutti i fedeli erano passati a ricevere la cenere che il vescovo Aurelio cospargeva sul loro capo. Li ammoniva a proposito di quello che sarebbero diventati un giorno. Poi il diacono Quodvultdeus incominciò a parlare.

Ero troppo piccolo per capire la predica di Quodvultdeus. Ma ora, a distanza di tanto tempo, sono in grado di ricostruirla grazie ad alcune parole che mi sono rimaste impresse nella memoria. Il diacono era un grande oratore. Aggressivo, con un tono di voce che cambiava all’improvviso, capace di additare i pubblici peccatori. Era temuto e amato. Non a caso, anni dopo, sarebbe diventato vescovo e poco più tardi un indomito resistente contro la violenza degli eretici. Quodvultdeus disse in sostanza che le lotte del mondo non riguardavano i cristiani e che la Chiesa pretendeva l’ossequio dell’augusta famiglia. Se l’impero aveva una ragione di esistere era perché il maggior numero possibile di uomini raggiungesse la verità e la salvezza.

«È inutile che vi affanniate intorno alle vili cose terrene», tuonava Quodvultdeus dall’altare. «È inutile che i potenti cerchino di assoggettare i deboli e che i deboli cerchino di ribellarsi ai potenti. È inutile che i giusti tentino di imporre il rispetto della giustizia umana. Pregate, piuttosto, e fate atto di contrizione e amate il prossimo vostro come il Cristo ha amato voi, altrimenti la punizione terrena che i barbari hanno inflitto all’orgoglio di Roma vi sembrerà una delizia al confronto con quanto vi accadrà nella vita eterna».

Ricordo che la voce di Quodvultdeus diveniva roca, la gola gli si riempiva di catarro e lui era costretto a sputare. Si sputava tra le mani che poi asciugava in un panno di lino.

«Sputo sulla carne», tuonava e agitava i pugni. «Sputo sui desideri e sui peccati. Sputo sui sensi. Che io possa perderli tutti questi strumenti di perdizione se mi inducono in colpa».

Quodvultdeus concluse la sua predica minacciando l’arrivo degli angeli sterminatori per punire Cartagine corrotta. Poi ci fu la benedizione e subito dopo la funzione finì. Uscimmo dall’oscurità della chiesa odorosa d’incenso e di cera, appena illuminata dalle torce che adornavano le navate. Il Redentore mi dette una ultima severa occhiata dal mosaico sopra l’altare prima che io raggiungessi la scalinata.

Fuori c’erano stormi di gabbiani che volavano verso il mare e le nuvole passavano basse. Filavano verso settentrione sospinte dal vento di scirocco. Ma le nuvole, nonostante fossero grigie, non mi sembravano minacciose. L’aria profumava di timo. Apollonio mi propose di andare a vedere i navicularii, i marittimi che erano incaricati di trasportare il grano. Cantavano ritornelli volgari mentre controllavano un carico di colossali anfore.

«Questo per consolarci un po’», disse con l’aria di chi non era affatto spaventato dalla minacce di Quodvultdeus.

Poi camminammo in direzione delle saline fino al tempio di Giunone Celeste, lo stesso che all’epoca dei Punici era stato dedicato alla dea Astarte. Il grande edificio era deserto. Le sue porte sbarrate con assi di legno inchiodate. Seguii Apollonio sotto un piccolo colonnato con capitelli eleganti appena intaccati dal tempo. Qui il mio maestro conosceva un passaggio per penetrare nel cortile interno. Arrivammo fino a un punto dove, in mezzo all’erba selvatica, era la statua di un idolo. Forse era una divinità minore, una ninfa, non so dire. Quello che invece ricordo è come i seguaci della vera Fede le avessero mozzato il naso e le avessero bucato gli occhi di marmo, esattamente come era accaduto al piccolo lare nel boschetto di Atina. La dea volgeva il suo sguardo cieco verso il mare, si illuminava e poi rientrava nell’ombra a seconda dello scorrere delle nuvole. Gli occhi bucati sembrava ci guardassero un po’ enigmatici tra i fiori di cardo e i rottami di cocci.

Dapprima Apollonio rimase zitto come se stesse pensando a qualche cosa di estremamente lontano. Poi disse che le cose del mondo vanno e vengono come quelle nuvole che correvano sopra di noi. Era una frase abbastanza ovvia ma io rimasi a bocca aperta a guardarlo. Le parole di Apollonio esprimevano una serenità che era come il canto di una ninna nanna. Oggi rifletto sul fatto che, forse, Apollonio alludeva a tempi lontani e diversi, a un futuro che non era quello immediato che stiamo vivendo oggi, ma a quello che sarà il destino degli uomini.

La buona società di Cartagine, da parte sua, non sembrava affatto preoccuparsi della fine di tutte le cose. Ruotava intorno al proconsole Bonifacio, il conte d’Africa. La città era piena di funzionari e ogni giorno un sorvegliante in capo doveva riferire al consiglio municipale a proposito della pulizia delle strade e dei giardini, dell’ordine pubblico e del funzionamento dell’acquedotto che convogliava le acque fin dalla lontana valle delle Cicogne. A Cartagine erano convinti che la loro avesse la dignità di terza città dell’impero dopo Roma e Costantinopoli e guai a dire in giro che Alessandria o Antiochia o Milano erano più ragguardevoli. E guai a dire che Cartagine era noiosa (cosa peraltro falsa). La gente si gustava la vita, si inghirlandava di fiori in ogni occasione e spendeva fortune per i profumi rari e per gli abiti eleganti.

Il palazzo del governatore era nella città alta, non lontano dall’anfiteatro. Un giorno mi ci recai con la famiglia. Bonifacio era un uomo corpulento, alto, con un naso dritto e le narici tanto larghe che lasciavano vedere ciuffetti di peli. Il conte mi fece avvicinare e mi appoggiò una mano tra i riccio

li. Disse: «Io ho conosciuto tuo nonno, sai?». Era vero. Aveva incontrato il padre di mia madre all’epoca del grande Teodosio, credo. «Hai i capelli fulvi come i suoi», aggiunse Bonifacio. «Fulvi come quelli di un leoncino. Sarai anche tu un condottiero, da grande?».

Affibbiai due colpetti sul piede di Domiziana, mentre Bonifacio mi sorrideva. In quell’istante, comparve un servo con un vassoio di pasticcini di mandorle e datteri e io potei gustarmi il mio piccolo trionfo su Vito.

Alla fine di quell’anno ci trasferimmo a Roma. Lasciai l’Africa con dispiacere. Pensavo a questo e alle cose che non avrei mai più rivisto mentre le scogliere di capo Bon scomparivano all’orizzonte e il nostromo dava ordine ai rematori di riposarsi. Vennero issate le vele e la biremi puntò la prua verso settentrione.

IV

A Roma andammo ad abitare nella casa che era stata di mio nonno paterno. Una residenza ampia e comoda, ben riscaldata d’inverno e fresca d’estate. Era sul monte Celio, non lontana dalla dimora degli Anici, in una zona abitata quasi esclusivamente da senatori. A quel tempo la capitale del mondo appariva abbastanza deprimente. I romani non si erano ripresi dopo il saccheggio di Alarico anche se tutti fingevano di averlo dimenticato come un episodio insignificante. Alcune grandi famiglie avevano preferito rimanere a Cartagine dove erano sfollate. Anche l’augusto Onorio non aveva alcuna voglia di risiedere sul Palatino. Era venuto nel 417 per pochi giorni e aveva autorizzato una serie di restauri. Aveva detto che gli emigrati in Africa avrebbero fatto bene a tornare, ora che nessun pericolo minacciava l’Urbe. Lui però era ripartito per Ravenna.

Al confronto con Cartagine e Alessandria, a mio padre la città sembrava troppo vasta e semideserta e, inoltre, gli era stato abbastanza difficile inserirsi nel giro di inviti delle grandi famiglie. La mia matrigna aveva preso a frequentare la nuova chiesa titolare sul clivo di Scauro. Era dedicata ai beati Giovanni e Paolo ed era stata appena inaugurata. Mio padre però non si trovava a suo agio. Secondo lui il clima non era salubre, l’aria malsana.

«Con il vento sembra che tutta l’iperborea venga a gelarti le ossa», si lamentava, «ma quando cala si sentono i miasmi delle paludi».

Proprio per sfuggire al clima di Roma la mia matrigna aveva voluto trascorrere alcune settimane nella villa di Atina e avevamo rischiato che quel soggiorno fosse fatale. Poi passarono quattro anni. Nostro padre aveva fatto piantare nel giardino di casa cipressi e lauri. Adeodata coltivava le rose che si arrampicavano sulle colonne. Aveva donato un ex voto alla chiesa dei beati Giovanni e Paolo. L’ex voto era in mosaico su lamine d’oro. Vi si vedevano elmi e spade e, per fortuna, un santo martire da dietro una nuvola protendeva la sua mano caritatevole.

Quella estate morì l’augusto Onorio. Non lasciava figli e poiché due anni prima era morto anche suo cognato Costanzo III mentre Galla Placidia era stata esiliata a Costantinopoli, fu Castino, il comandante dell’esercito, ad avere in mano il governo. Fu subito chiaro che Castino non aveva fretta di richiamare a Ravenna la famiglia imperiale e infine fu deciso che un nuovo augusto, non appartenente alla dinastia teodosiana, sarebbe stato eletto dal Senato.

Venne scelto un ex prefetto del pretorio che allora era capo della burocrazia. Si chiamava Giovanni, aveva una cinquantina d’anni e sembrava animato da buone intenzioni. Ma era anche incapace di comprendere quanto gli accadeva intorno. Pietro osserva che la sua fuggevole ascesa alla porpora aveva provocato un grave vuoto nella burocrazia e un altrettanto grave danno alla politica.

La cerimonia dell’elezione avvenne in dicembre e Giovanni fu perfetto, almeno nella forma. Proprio come un antico quirite. Quanto a Castino non lo perse di vista un istante. Come ringraziamento, il primo

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