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Egitto, Grecia e Palestina: Magia sacra e Spiritualità
Egitto, Grecia e Palestina: Magia sacra e Spiritualità
Egitto, Grecia e Palestina: Magia sacra e Spiritualità
E-book514 pagine8 ore

Egitto, Grecia e Palestina: Magia sacra e Spiritualità

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Info su questo ebook

Due grandi autori Steiner e Schurè, dimostrano la profonda connessione spirituale della nostra epoca moderna con l'Egitto  e perché è importante studiarne la  civiltà, la profonda saggezza, la straordinaria conoscenza delle leggi cosmiche e i miti.
Come, nel ritmo naturale delle epoche, la cosiddetta terza epoca post-atlantidea (egiziana) sia rispecchiata dalla quinta (presente) epoca. In questo senso, oggi è particolarmente rilevante guardare l'antico Egitto con occhi nuovi. L'evoluzione della civiltà occidentale è stata profondamente influenzata dai miti egizi attraverso i misteri greci.
A causa di altre influenze, tuttavia, questa eredità è degenerata: il pensiero è mummificato e il mito è quasi scomparso. Di conseguenza, è importante ravvivare il seme della bontà che ci è stato trasmesso dall'antico Egitto.          
Attraverso la vera immaginazione, abbiamo il compito di rinnovare la conoscenza umana delle forze creative in natura, come gli egiziani hanno tentato attraverso il mito di Osiride-Iside e i greci attraverso il mito di Demetra.
Il testo entra nelle esperienze delle iniziazioni egiziane, negli elementi di anatomia e fisiologia occulte, nelle fasi di evoluzione della forma umana. Offendo un punto di vista originale su queste importanti civiltà.
 
LinguaItaliano
Data di uscita30 giu 2020
ISBN9788869375460
Egitto, Grecia e Palestina: Magia sacra e Spiritualità
Autore

Édouard Schuré

(geb. 21. Januar 1841 in Strassburg; gest. 7. April 1929 in Paris) war ein französischer Schriftsteller und Theosoph. Seine Bekanntheit gründet sich heute vor allem auf sein 1889 erschienenes Hauptwerk «Les Grands Initiés» (Die Grossen Eingeweihten), in dem er versuchte, eine hinter verschiedenen Philosophien und Religionen der Menschheitsgeschichte liegende esoterische Geheimlehre darzustellen.

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    Anteprima del libro

    Egitto, Grecia e Palestina - Édouard Schuré

    MATERIA

    ​DEDICA

    ALLA GIOVINEZZA LIBERA

    Nel corso d’un viaggio in Oriente, il pellegrino di questo libro ha voluto gettare uno sguardo nel mistero del passato e dell’avvenire umano, che si riassume nel mistero della vita.

    Egli lo ha tentato per tre diverse vie.

    Sotto il cielo d’Egitto, a Menfi e a Tebe, innanzi alla grande Piramide, innanzi alla sacra Iside e alla Sfinge immemoriale, egli ha veduto ergersi, nella luce e nella maestà del deserto, i simboli parlanti dello Spirito eterno, dell’Anima del Mondo e del Verbo creatore che genera tutti gli esseri e le metamorfosi loro.

    Colà dimorano le Idee Madri che hanno la chiave dell’ Intelli­genza.

    In Grecia, a Olimpia, sull’ Acropoli, ad Eleusi, egli ha visto queste Idee, incarnate in uomini e in dei, mostrargli gli eroici occhi, l’umana tragedia e la celeste istoria di Psiche. Le ha vedute lot­tare fra loro, morire e rinascere, perdersi e ritrovarsi, stringere infine quella catena d’oro di cui parla Omero e che unisce la terra al cielo.

    Colà dimorano le melodiose Forze che hanno la chiave della Bellezza.

    In terra Santa, ai santuari dei Profeti e del Cristo, si è im­merso nel mistero, del Dolore e della Morte, donde scaturisce il segreto delle resurrezioni e delle gioie immortali. Sotto il loro brivido, egli ha sentito la grande Armonia che congiunge le anime, i popoli e ì mondi. Colà dimorano le Forze divine che hanno la chiave dell’Amore.

    Egli dedica questi ricordi alla giovinezza libera che, come lui, cerca la verità con sincero e risoluto cuore, in tempi dì decom­posizione sociale, nei quali sembra depresso in tutti il nerbo della volontà, nei quali il Danaro, il Piacere e il Desiderio sono i soli idoli rimasti in piedi sulle rovine dell’Ideale, dell’Arte e della Fede. Più felice di lui, che non avrà potuto essere che un pellegrino dai lunghi percorsi e dalle brevi stazioni, possa essa un giorno vin­cere nell’arena della vita, dopo aver contemplata la Verità in quel santuario, ove non si penetra che per la triplice porta dell’ Intelligenza, della Bellezza e dell’Amore!

    ​PREFAZIONE

    Col mio libro su I Grandi Iniziati , io rendevo, or son nove anni, una prima testimonianza alla esoterica verità santa ed immemoriale, onde io non sono che il più umile rappresen­tante. Con i Santuari d’Oriente io reco una seconda pietra per l’edificazione del Tempio, al quale architetti potenti ed abili operai, coscientemente o incoscientemente, lavorano oggi in ogni paese.

    Questa verità, misconosciuta sempre dalle autorità ufficiali dell’insegnamento occidentale (la Chiesa e l’Università), non è stata mai compresa se non da pochi. Quanto alla folla, essa non l’ha neppure sospettata. Eppure essa è di tutte le età. Giacché, per la sua natura, essa non risiede nella conoscenza dei fatti mate­riali, benché essa sola li illumini, li ordini e li esplichi con so­vrana chiarezza. Essa ha origine nelle profondità dell’Anima, nella intellettuale contemplazione delle Idee Madri e nell’energia della Volontà applicata alla vita spirituale.

    Essa si manifesta in diverso grado nei Messia che hanno fondato le grandi religioni, nella tradizione occulta propriamente detta e nei filosofi capiscuola; i quali, tanto in India quanto in Grecia e nei tempi moderni, hanno tradotto, sminuzzato e quasi sempre offuscato la luce in­teriore con l’insegnamento dialettico. Questa verità essenziale, centrale e superiore, è dunque l’anima vitale di tutte le grandi religioni, la sintesi delle loro successive rivelazioni, l’origine di ogni scienza ed il suo fine. E poiché essa scaturisce contempo­raneamente dalla sorgente mutevole, l’Anima, e dalla sorgente immutevole, lo Spirito universale, essa è sempre diversa nella forma e sempre identica a sé stessa nel contenuto. E la dottrina segreta anch’essa concorda nei suoi punti essenziali, sia che la si scopra presso i bramini, o presso i sacerdoti egizi, o in Pitagora, o nello Zohar del Rabbino Simeone ben Jochai, o nel cabalista Enrico Kunrath, o nel povero ciabattino Giacobbe Boehme, o in Luigi Claudio di St. Martin, il filosofo sconosciuto del XVIII secolo, o in Fabre d’Olivet, questo accademico perse-guitato come ideologo da Napoleone I, profondo erudito e meraviglioso pensatore, affatto misconosciuto e disprezzato si dai suoi colleghi che dai suoi suc­cessori.

    La tradizione esoterica, sia scritta che orale, ha attraversato ininterrotta i secoli. Ma non si riallaccia e non si rinnova che in virtù dello sforzo continuo e dell’inspirazione personale di coloro che ne formano la catena. Ogni nuovo sviluppo dell’umanità ne esige per suo conto un adattamento appropriato e come una più larga irradiazione.

    Appunto in tale pensiero io ho tentato, nei miei Grandi Iniziati, una prima sintesi della storia delle religioni, dall’ India fino al Cristo e dal Cristo fino ai tempi attuali e futuri. Ciò feci con forze e luci insufficienti, ma con la chiara visione del fine che perse­guivo e l’assoluta fede nella sua necessità ineluttabile. E poiché il mio libro scoteva a un tempo e Chiesa e Università nelle loro dottrine stabilite, non me ne potevo aspettare che o la congiura del silenzio o la ostilità dichiarata. Pure, contro la mia aspettativa, trovai qua e là, anche in quelle alte sfere, una benevola curiosità.

    Come serbar rancore a quei rappresentanti diretti o indiretti della scienza o della religione ufficiali, perché la loro simpatia s’accom­pagnava spesso ad un sorriso indulgente o canzonatorio, quando il loro incontestabile interesse attestava la loro mentalità libera e aperta? Ma una cosa, sopra tutto, ricompensò la mia audacia: il generoso entusiasmo che una eletta schiera di giovani manifestò pel mio tentativo. Furono anche le numerose voci di anime fra­terne che, nel loro silenzio, avevano sofferto le mie sofferenze e combattuto le mie battaglie. Da lungi e da presso, quegli amici sconosciuti mi asserirono che il mio libro aveva reso loro la forza di sperare, il coraggio di agire e quella intima fede che rende fecondi i cimenti e sopravvive alle disfatte.

    Tuttavia, fra i lavori e le lotte che gli anni seguenti mi riser­vavano, un disegno si delineava: vedere coi miei propri occhi quell’Oriente nel quale io avevo così lungamente vissuto col pensiero; ritrovare, nei suoi santuari in rovina o ancora in piedi, le tracce e i simboli parlanti dell’antica verità; evocare nei suoi templi anche gli uomini e le azioni che, altra volta, l’hanno fatta vivere e re­gnare sulle anime: tale era ormai il mio sogno ardente. Un giorno questo sogno divenne irresistibile desiderio.

    Tre paesi mi attiravano come le tre grandi fonti, non solo della tradizione occulta dell’Occidente, ma ancora di tutta la nostra vita intellettuale ed artistica, morale e sociale: l’Egitto, la Grecia e la Palestina.

    In questa etnica trinità, l’Egitto mi appariva, d’allora, come l’Arca dei Principi universali, come il modello di quella ontologia sacra, altrimenti potente che non quella delle nostre filosofie sco­lastiche ed astratte. Giacché solo l’Egitto, nel suo verbo di pietra, ha saputo parlare il linguaggio dell’eternità.

    Partii. Il risultato di questo viaggio di sei mesi oltrepassò di molto la mia aspettativa. Sull’ardente terra di Ermete, sotto il limpido cielo di Pallade, nella profetica e dolente città del Cristo, le verità da me intravedute come in sogno nel nostre brumoso Occidente divennero per me una splendente realtà.

    Essenza del passato e sogno dell’avvenire, la triade di Tebe, Eleusi e Gerusalemme, venne, ai miei occhi, a riassumere la or­ganica unità della Scienza, dell’Arte e della Religione nella vita integrale.

    I Santuari d’Oriente son sorti da quelle profonde impressioni e da questa idea.

    Sì, mi dicevo, riprendendo sul mare la via della Francia, l’an­tica saggezza racchiude i segni e le chiavi dell’avvenire. Ma non sono che chiavi e segni, non già l’avvenire. Le stelle non fanno spirare il vento che gonfia la vela del navigante e non gli mo­strano la sua meta. Questa meta risiede nella sua coscienza e nella sua volontà, ma gli astri gli servono da punti di riscontro e da guida per trovarla. A noi il trovare la nostra.

    La tradizione esoterica occidentale è, come la nostra religione esteriore, giudaico-cristiana. L’abolizione della Chiesa, se ciò fosse possibile, sarebbe la più nefasta delle opere. Solo gl’insensati e gl’ignoranti possono vagheggiarla. Ma, confessiamolo, la Chiesa ossificata, indurita ed ottenebrata non è oggi che un governo po­litico, senza fede creatrice e senza vita radiosa. Essa domina an­cora sulle anime timorate, ma non regna più sugli spiriti liberi. Essa, ora, non governa che le coscienze che non sanno più riflet­tere e le volontà che non sanno più volere. Da che deriva ch’essa conservi tuttavia un’autorità che a tutti s’impone? Deriva dal fatto ch’essa, in grazia della sua tradizione, è in possesso dei simboli della più antica saggezza. Aggiungiamo che questa tradizione e questi simboli, interpretati ed applicati con criteri nuovi e vera­mente universali, la condurrebbero ad un rinnovamento radicale e completo del suo spirito, del suo dogma e del suo organamento. Ora essa, di per sé stessa, non vi si deciderà mai. Il suo potere le basta. Essa battezza, marita, seppellisce, fa della politica: che altro le occorre? Fintantoché un movimento spiritualista indipen­dente e di portata trascendentale non pervaderà il mondo laico, la Chiesa non abbandonerà né uno jota del suo dogma, né un articolo del suo potere.

    Ma supponiamo che la classe più elevata del mondo laico, e, a capo di essa, l’Università, che è il cervello pensante del mondo attuale, tenga il seguente discorso: «Infedele alla sua missione, la Chiesa non ha saputo adattare le verità del mondo interiore e del mondo divino ai bisogni della umanità moderna. Voi tutti, capi e dignitari della Chiesa, mancate a questo dovere, malgrado le ammirevoli virtù e le aspirazioni generose di gran numero di sacerdoti pensatori e la fervente fede di migliaia di anime semplici che da voi attendono il pane di vita. Ebbene, queste verità noi le applicheremo alla scienza, all’arte e alla organizzazione sociale, e vi dimostreremo così, mediante la nostra religione laica, che possiamo fare a meno di voi». Il giorno in cui un nucleo influente ed autorevole parlerà in tal guisa ed agirà in conseguenza, la Chiesa, spaventata e minacciata nel suo potere spirituale, sarà costretta a trasformarsi da capo a fondo. Ma, fino ad allora, essa sorriderà, disprezzerà e governerà le anime inerti con aridi dogmi.

    Combattere, da un lato, l’ateismo che si nasconde sotto la maggior parte delle dottrine universitarie come principio d’anemia e veleno mortale; svolgere, in ogni opera, la vita dell’Anima e la scienza dello Spirito; — dall’altro, fugare l’intol-leranza e la domi­nazione romana della Chiesa, affinché possa costituirsi la Chiesa veramente universale; tale dovrebbe essere il duplice programma e l’azione concorde di tutti coloro che pensano, che sanno e che vogliono la salvezza. La crescente disgregazione di cui l’Europa attuale ci offre lo spettacolo e che si ripercuote in Francia in ma­niera spaventosa, ha, per causa primordiale, questo duello fra Scienza e Religione, rappresentate dalla Università e dalla Chiesa- Lotta accanita, senza uscita possibile, essendo gli avversari di uguale forza; lotta che si accende non solo nelle nostre istituzioni, ma, sotto diversa forma, in ogni coscienza, paralizzando le anime, effe­minando i caratteri.

    Che noi lo vogliamo o no, noi camminiamo sempre sotto il segno di Mosè e del Cristo. Ma è l’ora di ampliare questa tradi­zione mediante una nuova sintesi del cristianesimo e dell’ellenismo, compresi entrambi nelle loro profondità esoteriche e nelle loro applicazioni viventi. Ora ciò non è possibile che con i principi ontologici, i quali, sotto una forma o l’altra, furono le forze diret­trici di tutti i profeti e di tutti gl’inspirati.

    Ecco la Verità che lo spirante secolo XIX dovrebbe trasmet­tere al XX, affinché esso si levi armato e proceda alla conquista dell’avvenire.

    Questa grande opera è il segreto delle future generazioni. Mio compito era di presentirla e di chiamarla, non già di compierla. Se ormai son deciso a non parlare ai miei giovani fratelli che mediante il verbo dell’arte e attraverso il trasparente velo della poesia, io rendo con questo libro diretto e supremo omaggio alla Luce, la quale mi ha consentito di non disperare, in tempi di disperazione, e di rivivere la vera vita, la vita completa, in tempi di dissoluzione e di morte.

    Edoardo Schuré.

    Parigi, Marzo 1898.

    ​SANTUARI D’ORIENTE

    EX ORIENTE LUX!

    (PROLOGO IN MARE)

    A bordo del Sagalien. Fine dicembre 1892.

    Ex Oriente lux! Chi dunque ha pronunziato per il prima questa frase evocatrice di aurore e di pensieri?

    Fu Gioacchino di Fiore, il visionario del XII secolo, alla let­tura del Vangelo di S. Giovanni, nel suo convento in Calabria? Fu il cabalista Raimondo Lullo, curvo sul testo ebraico dello Zohar, nel suo ritiro nell’isola Maiorca? Fu Pico della Mirandola, innanzi ad un manoscritto di Omero o di Platone, sulle serene colline di Firenze? Quando scaturì questo grido che risuona come appello di crociati, di pellegrini o di re magi? Venne da un eroe, da un saggio o da un folle? In verità, nulla ne so. Ma involon­tariamente lo ripeto anch’io, mentre i fari elettrici del porto di Marsiglia, il verde, il rosso ed il bianco, girano ed impallidiscono nel crepuscolo. Ancora una fuggevole visione dell’alta collina di Notre Dame-de-la-Garde, dell’isola e del castello d’If, e poi questo lembo di Francia si annegherà nella nebbia di dicembre. Il cuore si serra un istante.

    Un pungente vento di tramontana soffia sul ponte. Il bastimento beccheggia e rulla maestosamente al largo. Eccoci in pieno mare; tutti discendono nelle cabine. Non si vede più che l’onda ed il vasto orizzonte liquido. È questa l’ora delle austere riflessioni.

    La luce viene d’Oriente! Questa parola racchiude più sensi. È certo che il cammino generale della razza bianca, che attual­mente domina il globo, procede contrariamente a questo, e cioè da oriente ad occidente. Da tre secoli, la civiltà, varcando l’Atlan­tico, è passata in America. Ma l’Europa è pur sempre il cervello dell’umanità. E appunto in questo cervello febbrile e nevrotico si accendono le grandi lotte della coscienza moderna e l’avve­nire si elabora. La situazione è grave in questo scorcio di se­colo. Il turbamento del pensiero corrisponde al malessere univer­sale e noi ci troviamo come alla vigilia, se non di grandi cataclismi, almeno di dolorose trasformazioni sociali e religiose. Tuttavia, non mai la solidarietà morale e spirituale dell’umanità è stata più visibile.

    Il pensiero non fa il giro del mondo soltanto materialmente col cavo sottomarino; una specie di vita comune si è stabilita fra tutti i popoli e tutti i continenti. Il flusso e riflusso del pen­siero va d’Europa in America e d'America in Europa. Da quando l’umanità bianca, nel suo cammino in avanti, ha fatto il giro del globo scoprendo il Nuovo Mondo e ritrovando l’Asia, sua antica madre, dall’altro lato del Pacifico, essa ha avuto una più chiara idea della sua missione, del suo moto ciclico e della sua unità. Da quel momento le venne anche la nostalgia delle sue origini ed ha esclamato: Ex Oriente lux! Se Shelley diede all’amante del suo Prometeo Liberato il nome di Asia, ciò non fu per finzione poetica, ma per intuizione. Senza saperlo, ma appassionatamente, noi cerchiamo in questa culla delle nostre razze, delle nostre scienze e delle nostre arti, della nostra civiltà e della nostra reli­gione, la chiave dei nostri destini. Giacché, definire esattamente l’origine di una cosa è determinarne lo svolgimento e la fine.

    Questo moto di ritorno alle proprie origini del pensiero mo­derno è al tempo stesso un istinto sociale ed un’aspirazione reli­giosa. Consciamente o inconsciamente l’uno non va disgiunto dall’altra. Socialmente, è uno sforzo dello spirito verso l’unità organica di tutta l’umanità planetaria. Religiosamente, questa invo­cazione all’ Oriente è un sospiro dell’anima verso l’unità intellet­tuale e spirituale, corrispondente e condizionale dell’armonia sociale, verso la sintesi religiosa e filosofica, che non è possibile se non con tutti gli elementi del passato e del presente.

    Ed ecco forse perché il motto: Ex Oriente lux! ritorna alla mia memoria all’inizio di questa traversata che deve condurmi in terra d’Egitto. Oh, senza dubbio, i santuari d’Oriente sono, da secoli, alcuni deserti, altri muti! Se essi hanno parlato nel volgere dei tempi e ciascuno a sua volta, ciò avvenne perché il concorso della scienza e di gerarchiche volontà vi facilitarono l’inspirazione ai fedeli ed ai credenti dei diversi culti. Le vere rivelazioni sono soltanto quelle che vengono di dentro. Certo, io credo al di là, all’Invisibile, allo Spirituale. Vi credo filoso­ficamente, perché esso è il sustrato, la ragione e la leva dell’Uni­verso; vi credo psichicamente, perché senz’esso l’anima resta inesplicabile sia nella sua essenza che nei suoi fenomeni. Questo verbo dello Spirito e della Verità parla in differenti guise all’ar­tista, al poeta, al saggio ed al santo. Ma, tanto a costoro che alla più umile creatura amante e pensante, esso non parla che per la via del suo senso interiore. E tuttavia, neanche il genius loci dei Latini è una vana parola. Pietre squadrate, monumenti, simboli immutabili, razze che portano lo stigma religioso del pas­sato, e, sopra tutto, quest’anima diffusa e fluida che respira nelle cose e le armonizza, non sono essi tutti validi aiuti per risve­gliare questo senso interiore? A mia volta, e dopo tanti altri, io vorrei consultare i più vetusti santuari del mondo, donde sorsero le Idee Madri delle quali l’umanità ha vissuto e con le quali oggi noi dobbiamo comporre un insieme nuovo, risalendo il più pos­sibile, come necessita nelle grandi crisi, all’origine della verità eterna. Forse, da questi santuari, ricostruiti con una visione più limpida, noi potremo, come da osservatori ben situati, gettare uno sguardo più vasto e più chiaro sul mondo attuale d’Oriente e d’Occidente. Ma, in questa corsa, non anticipiamo giudizi; affidiamoci al genio dell’ora, e, senza perder di vista lo scopo, abbandoniamoci all’onda delle nuove impres-sioni...

    Nell’alba grigia abbiamo costeggiato la Corsica invernale, bar­ricata di scogli, angolosa e selvaggia, con le sue spalle d’acciaio e le sue cime nevose, l’isola della vendetta e di Napoleone. Al mat­tino seguente, fra le isole di Lipari e di Stromboli, soffia il primo vento di Levante. L’aria è divenuta calda e carezzevole. Il mare s’è quietato; le piccole onde hanno assunto un colore indaco iridato di gola di colombo. Ci avviciniamo all’isola sovrana che forma il perno del grande bacino mediterraneo, centro d’eruzione vulcanica e centro di evoluzione incivilitrice. Giacché quest’ isola fu il primo legame fra la Grecia e l’Italia e il primo focolare della rinascenza sotto Federico II. Di già si delinea all’orizzonte, in tratti arditi ed oscuri, la ricca, indipendente, audace Sicilia, sotto strie di nuvolaglie sulfuree. Un paesaggio alla Salvator Rosa: linee su linee, valli su valli, forme vulcaniche e tormentate; il tutto dominato da un’alta montagna, contrafforte settentrionale dell’Etna. I suoi fianchi di lava son ricoperti di neve e sembrano ghiacciai. Dal fondo dei neri abissi sorgono fumaiole bianche che s’inar-gentano al sole, simili a capigliature ondeggianti, e finiscono col confondersi nella scia aerea delle nubi spumose, corona di Baccante che il vento dal largo ghermisce. Essa è attraente e fantastica, cupa e luminosa, sorridente e minacciosa al tempo stesso, questa Sicilia lontana, veduta passando dal basti­mento che vola. Immagine riassuntiva della terra feconda e terri­bile nel suo slancio di fuoco e nel suo parto prodigioso, madre dell’idillio e protettrice dei facili amori, frequentata da Afrodite e dalle Muse, ma cara anche alle dee sotterranee, Demeter e Persefone. Le sue spiagge han visto nascere Teocrito e morire il grande Eschilo esiliato. Infine, fu essa la patria del misterioso Empedocle, poeta, filosofo, ingegnere e fisico, che regnò su Agri­gento e che la leggenda, forse perché egli era troppo grande per la storia, ha precipitato nell’Etna. È l’isola dei Titani e della natura titanica, ove l’Etna si solleva in crateri di fuoco, ove la terra e il cielo s’incontrano in un bacio possente.

    Volto verso questa terra greca che tanto m’è cara e che vor­rei toccare, ho tanto pensato all’antica Sicilia ed il battello ha filato così rapidamente, che ho potuto vedere appena l’incante­vole stretto di Messina, il grazioso capo Faro con le sue chiare case ed il suo fortino, appena anche la costa d’Italia. Una barca a vela, mossa da Reggio con un sol passeggero, urta quasi il nostro piroscafo, e, come un gabbiano, si culla sulla sua scia.

    La punta dello stivale italiano è rude e montuosa. Tuttavia, innanzi alla sua rivale, essa si adorna con civetteria. Le sue gole e i suoi burroni sospingono le loro città come bianchi ciottoli fino al limitare delle onde. Tutte sembrano voler immergere i loro piedi in questo bel mare amico e familiare, per cercarvi la vita, la luce e la gioia, e guardare curiosamente, e non senza invidia, l’opulenta e fiera Sicilia, e Messina, coricata come una gran dama indolente fra le sue foreste di aranci. Andiamo alla deriva lungo l’altro lato del triangolo. Quattro o cinque capi si perdono come fini merletti, quali sciarpe diafane, nella nebbia dorata della sera. Giacché già fugge, la Sicilia; sparite sono le sue città sotto la vegetazione lussureggiante. Ora soltanto l’Etna profila il suo ampio triangolo sull’orizzonte con la grande linea che ascende da Catania alla punta del cono. Come un’aquila di color viola cupo, una nube oscilla sulla sua cima. Il fumo del vulcano forma alla sua sommità un grande pennacchio orizzontale che si pro­lunga indefinitamente nell’aranciata luce del tramonto. Addio, Grecia ed Europa!

    Andiamo da poppa a prua e volgiamoci verso Levante. Giac­ché il bastimento, lanciato nel vasto mar Ionio, fila verso l’Egitto, e la mezzaluna sale in un cielo d’opale.

    Non si è conosciuta una donna, si dice, se non la si è vista andare in collera; non si conosce il mar Ionio se non si è pro­vata una delle sue belle furie. La dea Anfitrite si è arresa al mio segreto desiderio. Essa è pur rimasta completamente donna fin dai tempi di Ulisse. Il suo sorriso di Circe non presagiva nulla di buono. Tutta la notte il vapore si è agitato. Stamattina, grandi solchi d’un azzurro cupo rasentano i suoi fianchi e ben presto tutto il mare scatenato ribolle come piombo fuso. A mezzogiorno i flutti si gonfiano, il vento soffia nell’alberatura; le ondate spaz­zano lo scafo. In questa tempesta, sembra di veder torcersi e di sentir ruggire tutti i mostri della favola: Cariddi e Scilla, la Gor­gone e la Chimera. Verso sera, i cavalloni son divenuti vere montagne le cui cime sorpassano i fianchi della nave e la spruzzano d’acqua. Si vedono quattro o cinque marosi, uno dietro l’altro, avanzarsi contro la prua, mobili fortezze dai merli di spuma che crollano sul ponte. Sotto tutto il frastuono, risuona una nota bassa fondamentale: il brontolio dell’abisso che sale. Notte fonda ora; nella tenebra nulla più che una continua trepidazione dell’acqua e dell’aria, un solo muggito del cielo e del mare com­misti nella grande caldaia. In lontananza, l’oceano è negro come la pece. Lungo l’orlo del bastimento, montagne di schiuma passano sibilando con bagliori di lampi. I loro spruzzi turbinosi sferzano il cassero del capitano e le gabbie dell’albero maestro. L’enorme piroscafo danza come un burchiello. Non è più il soffio di un mare o di un continente, ma la convulsa anima della terra intera che si respira a pieni polmoni nell’uragano.

    Maestoso è il bastimento, che s’impenna, si tuffa e s’impenna di nuovo, ma prosegue con calma nella tempesta. La campanella dell’ufficiale di guardia squilla chiaramente e sembra la voce dell’atomo cosciente fra gli elementi scatenati. Munita della sua bussola interiore, non persegue l’anima anch’essa un misterioso fine attraverso la vita terrena?

    Eccomi rannicchiato nella mia cabina. Ma il rotolio delle ca­tene, il frastuono infernale della macchina, il battito accelerato dell’elica, m’impediscono di dormire. Apro a caso il mio Omero e capito sul naufragio d’Ulisse: «Un gran fiotto, precipitandosi su di lui, spaventevole, capovolse la zattera». L’accorto Odisseo, che ha sfidato gl’incantesimi di Circe e tutti i mostri marini, sta per morire. Ma, fosforescente di candore, con una stella in fronte, la dea Leucotea emerge dall’abisso: « Prendi questa pic­cola benda immortale, distendila sul tuo petto e non temere più né il dolore né la morte. Allorché tu avrai raggiunto la riva, tu la getterai lungi da te nel cupo mare, volgendo altrove la faccia ». Quanti viaggiatori, ai tempi dell’antico Egitto, son venuti, dopo i naufragi della vita, a cercare sulla riva del Nilo «la piccola benda immortale» che Ulisse riceve dalle mani della figlia di Cadmo! L’hanno essi trovata? I saggi di Alessandria sostenevano che solo a Orfeo ed a Pitagora arrise tal sorte. La scienza con­temporanea nega l’esistenza del primo ed ha volto le spalle al secondo. Eppure uno creò l’Olimpo e l’altro la filosofia. Felici coloro che possono dare tali prove della propria esistenza! Ma son pochi quelli che hanno fatto parlare Iside; quante volte essa è rimasta muta! Che importa? Cerchiamola sempre.

    La tempesta s’è calmata oltre Candia, e, alla quinta mattina, ci risvegliamo in faccia ad una costa piana, velata da una tenue acqueruggiola. Sotto questo diafano velo, che il sole d’Egitto già attraversa, una città bianca appare in un madore orientale: Alessandria.

    ​L’EGITTO MUSSULMANO

    IL CAIRO E LE SUE MOSCHEE

    Allah akbar. (Corano)

    Il Cairo e i suoi bazar. La Ghawazzi.

    Musiche notturne.

    Prima di penetrare nell’antico mondo egiziano, è indispensa­bile gettare un’occhiata sul mondo mussulmano che ne forma l’at­tuale soglia ed il vivente ornamento. Il primo piano del quadro deve essere necessariamente questo. D’altra parte, da tempi immemoriali, i Semiti e tutte le razze erranti del deserto costitui­scono la sostanza etnica nella quale si foggiano i fenomeni storici e religiosi dell’Oriente. Con questa polvere umana i conquistatori hanno plasmato popoli e i profeti religioni.

    La strada ferrata che da Alessandria conduce al Cairo divide in due parti il lago Mareotide, vasta laguna che riflette i voli degli uccelli acquatici; penetra poi in un mare di verdi biade, solcato da canali infiniti e popolato da villaggi di fellah costruiti d’argilla e ammassantisi come formicai. Attraversando un ponte di ferro si domina un istante il Nilo dalle rive evanescenti. Al­cune dahabié dormono fra le canne, come una sfilata di cigni. Poi, di nuovo, l’immensità del Delta con la sua vegetazione verdeggiante. Di tanto in tanto una processione di fellah, di asini e di cammelli, si profila sulle dighe a perdita d’occhio. Dopo circa tre ore si vede sorgere una foresta di cupole e di minareti dominata dalla cittadella con la catena arabica nello sfondo: è il Cairo.

    Malgrado la vastità, la ricchezza e l’eleganza del quartiere europeo, dove si sbarca, l’impressione immediata prodotta dalla capitale egiziana, dai suoi abitanti e dal suo movimento, è quella di una Babele africana, di un pandemonio della vita mussulmana. L’occhio è abbagliato da un formicolio di rossi fez, di turbanti azzurri, verdi, bianchi e gialli, di caftan e di cuifièh multicolori. L’udito è ferito da un miscuglio stridente di tutte le lingue d’Europa, d’Africa e d’Asia. Quale vertigine di suoni e di co­lori! Quale varietà di pennami e di linguaggi umani! Sembra di entrare in una uccelliera tropicale. Fra tutti questi gridi, tutto questo ciarlio, tutto questo brusio, dominano le rudi e gutturali note dell’arabo, quest’antica lingua del deserto, barbara e raffinata al tempo stesso, le cui vocali hanno ruggiti di leone e le con­sonanti si scontrano con tintinnio di lame o con fremiti di strumenti a corda. Un largo viale ornato d’alberi conduce al centro del quartiere franco, nel parco di Ezbekièh. Questo giardino, di tropicale splendore, sembra richiamare la fantasia di un ca­liffo, con i suoi sicomori e le sue mimose gigantesche, che specchiano le incantevoli chiome in un pigro stagno, accanto ad alberi dell’India dai rami cadenti come trecce. Eccoci al focolare del nuovo Cairo e della colonia europea, che, con l’industria e il lavoro, ha dato al paese una nuova esistenza. Tuttavia, in apparenza, nel vedere gli abitanti che brulicano in queste larghe strade inselciate e polverose, l’onda della vita mussulmana sommerge questo tenue strato di vita occidentale. Qui, fatalmente, l’Europeo si orientalizza. Ogni facciata di al­bergo è preceduta da un tenda multicolore, innanzi alla quale si pavoneggia un insieme di rastaquouères e di Americani. Essi guardano stupiti per intere giornate la fiumana dei pas­santi in una beatitudine che rassomiglia al kief. Lo straniero che si getta in questo torrente comincia con l’essere sommerso in un vortice di razze. In pochi minuti egli vedrà passare Abis­sini di alta statura, drappeggiati di bianco, dai fini e maestosi lineamenti; Nubiani color caffè, con labbra grosse e sensuali; fellah, in camicia azzurra,

    vivaci e beffardi; Armeni, in turbante nero, gravi come monaci; bei Siriani flessuosi, con grandi oc­chi brillanti; Persiani aristocratici e disdegnosi; Cofti rabbuiati; Ebrei dallo sguardo umile e penetrante; fieri Arabi e Beduini cenciosi. S’egli si ferma, s’egli ha l’aria di esitare un solo istante, sarà preda d’uno sciame d’insetti umani. In un batter d’occhio sarà circondato da una decina di interpreti, vestiti di seta e d’oro come pascià, che lo assaliranno in sei lingue con magnifici gesti. Al tempo stesso, una dozzina di asinai si pre­cipiteranno verso di lui con le loro bestie e con quelle facce tanto graziose e impertinenti, mentre si sentirà dolcemente pren­dere per i piedi da piccoli lustrascarpe, moretti dai musi scim­mieschi e dal sorriso festevole e

    canzonatorio.

    E sempre si precipita nell’Ezbekièh il fiume umano, il poli­cromo carnevale. Una frotta di Levantini galoppa su begli asini da! pelo lucido. Le carrozze sono tirate da magnifici cavalli arabi che scalpitano sotto la frusta dei cocchieri mori. Talvolta passa, sul suo cavallo berbero, un pascià magro e triste come una mummia, chiuso nel suo grigio soprabito del Nizam. Poi, passa l’harem di qualche grande personaggio, che procede in diverse vetture. Le principesse, velate alla turca di mussolina bianca, che spesso lascia trasparire i loro lineamenti languidi come in uno specchio appannato, fanno errare curiosamente sulla folla i loro grandi occhi di gazzelle stupite e le loro pupille vibranti di vaghi desideri. Si direbbe che quelle camelie delicate ed opulente, uscite un istante dalla loro calda serra, respirino avidamente i venti dell’aperto.

    Le vetture dell’harem son seguite da due eunuchi a cavallo, negre facce patibolari, e precedute a dieci passi da due sais. Questi splendidi corridori abissini hanno le gambe nude, il busto chiuso in un giaco ricamato, che splende come un’aurea corazza. Col pettorale al vento, essi agitano i bastoni emettendo acute grida. Larghe maniche di nivea bian­chezza ondeggiano sulle loro spalle e li fanno rassomigliare a coleotteri scintillanti o a geni alati che appena sfiorino il suolo. E intorno intorno, in un lungo fremito, si scosta la folla dei moretti, dei fellah, dei cavalieri, come se il carro della voluttà, del potere e dello splendore terrestre fosse passato in una nube di polvere.

    Ma tutto ciò non è che il risucchio della vita mussulmana mista all’onda europea. Penetrando nel quartiere arabo, ci si trova nel suo vero centro di ebollizione. Nella stretta via del Musici si agita e s’intreccia una inestricabile matassa di uomini, di cavalieri, di cammelli e di asini. I colpi di frusta dei cocchieri schioccano, le monete dei cambiavalute tintinnano, il grido dei caffettieri ambulanti risponde a quello dei venditori di nar­ghilè, i limonai si scontrano con le cucine ambulanti, i turbanti verdi si urtano, ingiuria-ndosi, coi turbanti gialli. Si beve, si mangia, si compra, si vende. In questa calca, donne avvolte nel barko nero e nell’habara di seta guizzano come pipistrelli senza che nessuno abbia l’aria di accorgersene.

    Le povere fellahine portano i loro bimbi a cavalcioni sulle spalle. I cani abbaiano, gli asini ragliano, i cammelli grugni­scono, gli uomini gridano, e, cosa meravigliosa, ognuno trova la sua strada senza ferire il vicino. Questa massa umana ras­somiglia ad un mostruoso polipo, da ogni tentacolo del quale spunta una testa e le cui fibre palpitano in una sensazione con­vulsa. La scintilla della vita morale scaturisce qui dall’infimo grado dell’umana miseria. Gli storpi e i ciechi tentano di de­stare la pietà con apostrofi veramente commoventi: Anà déf Allah wan nebi, « Io son l’ospite di Dio e del Profeta »; e sem­bra duro rispondere con la frase evasiva degli avari: Allah y! a tits! « Dio t’aiuti! », invece di tender loro la piastra desiderata.

    Lasciamoci spingere dal torrente fino alle viscere della città africana, nel labirinto dei bazar. Fra gl’interstizi delle stuoie tese fra i tetti, una luce bieca penetra nelle viuzze tortuose, tappezzate di bottegucce che rigurgitano di tutto il lusso dell’Oriente. Qui, grandi magazzini di mobili scolpiti e incrostati di madreperla in uno sfarfallio di luce bianca; là scintillano ramerie lavorate, vassoi, vasi, anfore; innumerevoli lampade, enormi, in bronzo lavorato e traforato, pendono dal soffitto come dagli aggetti delle moschee; gl’incensieri si ergono simili a minareti evocanti un sogno d’Alhambra, mentre gli operai lavorano in fondo alle officine e centinaia di martelli percuotono il metallo. I mercanti di tappeti sono i grandi padroni di casa e vi ricevono con una cortesia piena di dignità nei loro saloni ad ampi divani, pieni delle meraviglie di Smirne, della Persia e del Cachemire. Continuate la vostra passeggiata, abbagliato e turbato da tutta quella fantasmagoria di arte decorativa. Ecco le lane ammucchiate e le sete diffuse. Nella viuzza, i mercanti dispiegano sotto i vostri occhi sciarpe tentatrici. Uno sguardo dato al mercante o alla mercanzia e siete perduto : vi chiudono il passag-gio, vi drappeggiano e vi adornano delle loro ricchezze, con sguardi adescanti e sorrisi d’ammirazione, mentre un monelluccio, sbucato non si sa donde, vi presenta una tazza bol­lente del più squisito caffè arabo. Se non siete uno zotico, comprerete la dozzina. Sotto i tarbusch e i turbanti di tutti quei mercanti, indolentemente accoccolati nella penombra delle loro botteghe, vi sono occhi che vi spiano come una preda: siete la

    mosca che passa fra tutte quelle tele di ragno. Si rasentano montagne di selle arabe, portici di pantofole dalle forme più stravaganti. Talvolta, su di un laido mucchio di anticaglie, sete preziose si mescolano ad ignobili cenci ed incisioni parigine del 1830 ammuffiscono su icone bizantine. Sotto il fosco lucci­chio dei trofei, dei fucili, dei pugnali, delle lame incrostate di pietre preziose, si abbozza una rapida visione dell’epopea sara­cena; sotto il fruscio delle trine, dei zibellini, delle piume di struzzo, il tepido soffio dell’harem vi sfiora la guancia. Poi, on­date di profumo vi soffocano: muschio, sandalo, benzoino e zénzero. E il mercante griderà: «Fiori di Litrea! profumi del paradiso!». E il mercante dirimpetto mostrerà una boccetta d’olio di rosa dicendo: «La rosa era una spina, ed è fiorita dal sudore del Profeta! ». E fra i venditori di frutta vicini sarà una continuazione di queste gaie metafore e di offerte allettatoci : «Aranci dolci come il miele! — I meloni consolano l’afflitto! — Il Signore alleggerirà i panieri! ».

    Deliziosa e innocente maniera, dopo tutto, di comprendere il commercio fra un popolo eternamente fanciullo! Per l’Euro­peo, il commercio è un freddo calcolo, una sapiente specula­zione, il rude guadagno d’ogni giorno. Per l’Orientale, per l’Arabo sopra tutto, è, a tutta prima, una pigrizia contemplativa; è anche un’avventura, un gioco d’astuzia e di sorpresa, illustrato con un racconto delle Mille e una notte. Senza dubbio, egli cercherà di sfruttare il suo cliente più che sia possibile e pelerà oltre il verosimile il compratore ingenuo ed entusiasta. Ma voi non calcolate nulla la sua fatica, la sua eloquenza e l’illusione datavi? Il mercante di tappeti che, durante tutto un pomeriggio, avrà dispiegato innanzi a voi mezzo magazzino e vi avrà ven­duto dei miracolosi parati dell’India o della Persia, che forse vengono da Parigi, non vi avrà men perciò fatto fare un viag­gio dal Cachemire a Teheran ed avrà arredato, sotto i vostri occhi, palazzi degni d’essere illuminati dalla lampada di Aladino. Tutto ciò non è nulla? E quel profumiere, che vi ha venduto a peso d’oro essenza di rosa o di gelsomino in una boccetta striata d’oro, ha, nel corso di un’ora, dal fondo di quello specchio persiano incorniciato di eleganti pitture, evocato tutto l’harem di Mehemet-Alì. Infine, il gioielliere che ha venduto a così caro prezzo ad una donna turca un preteso diamante di Golconda o un rubino di Giamschid, l’ha convinta ch’esso aveva una ma­gica virtù; ma, suggestionandola, le ha dato la fede; e il dia­mante attrarrà e il rubino brucerà. Affari, politica, passioni umane, tutta la vita materiale, se non fu trasfigurata dalla co­scienza dell’anima e della sua meta divina, fu mai altra cosa se non un sogno, una illusione e un inganno? Nei bazar del Cairo, si ha la esacerbata sensazione di questo miraggio ingannevole della grande Maia dei sensi. Perciò se n’esce con una specie di vertigine e di malinconia, quando si ha la sventura di non essere nè un economista, nè un appassionato collezionista di gingilli.

    Ma, dall’alto di un minareto, la stridula voce di un muezzino richiamante alla preghiera della sera cade in questo formicaio umano; il sole che tramonta indora i musciarabì delle case mo­resche, il cui silenzio di sogno si libra come una siesta perenne sul frastuono della via: i bazar si chiudono bruscamente, la notte cade e in breve la città del commercio si trasforma in città del piacere. Nelle viuzze, i piccoli caffè arabi accendono i fanali e le lanterne veneziane rosse e gialle: voci nasali modulano la loro gaiezza in tono minore, in una bizzarra successione di se­mitoni : gamme di flauti svolazzano per l’aria, accompagnate dal brontolio del tarabuk. I viali di acacie delle passeggiate Mehemet-Alì ed Ezbekièh risuonano dell’incessante galoppare degli asini cavalcati da Europei o da Orientali, di ritorno dai loro af­fari o recantisi a qualche festa. Le bestie galoppano, punzec­chiate dagli asinai che le seguono al grido ripetuto di: Ha! ha! come se corressero al sabba.

    Attirato da strane musiche, sono entrato per caso in un caffè, situato all’estremità di una via oscura, ai confini del quartiere mussulmano. In fondo alla sala si eleva un tavolato grossola­namente ornato di tappeti e di stoffe. Quattro o cinque danza­trici son sedute su di un divano. L’orchestra si compone di un tarabuk, vaso di terra ricoperto di pelle a guisa di tamburo, di una chitarra, di un mandolino e di un cantante. Il monotono martellio del tarabuk costituisce il basso fondamentale di questa selvaggia orchestra. Quando il suonatore di mandolino ha piz­zicato un po’ sulle sue corde un motivo arabo, la voce mugo­lante del cantante a sua volta lo intona, e lo stesso motivo si ripete freneticamente fino a che non cominci una nuova melodia. Si è definita la musica turca « le crisi di una gaiezza straziante ».

    I canti arabi sono talvolta una languida fantasticheria che si culla negli avvolgimenti dei successivi semitoni : queste melodie in minore ondeggiano eternamente incerte fra la gioia e la ma­linconia. Ma, quando si tratta come ora di motivi di danza, ci si ricorda della definizione della musica turca. Sono semi­brevi furiose con quarti di tono di raffinata selvatichezza. Si direbbe un desiderio esasperato che gira come uno scoiattolo nella sua gabbia o come un dannato nella sua prigione di carne. Si ha l’impressione del trasporto d’ira nella passività.

    Ma ecco un ritmo rumoroso, a tre tempi, imperioso e affan­noso come il battere del polso di un febbricitante. E, sul tavo­lato, si avanzava la ghawazzi o danzatrice, che imita l’autentica danza africana conosciuta fra noi sotto un nome spiacente e troppo significativo. In Europa se ne vedono appena attenua­zioni o deformazioni che non la rendono ne men laida ne più morale. Ballata nell’ambiente originale, s’illumina del suo vero significato; diventa il fenomeno patologico di una razza in de­cadenza, la rivoltante immagine di una specie di slogatura della figura umana che ha luogo allorché l’istinto la signoreggia. La danzatrice è vestita di uno jelik ricamato, ricoperto di placche metalliche, che fanno al suo seno una specie di corazza. La gonnella è striata di larghe fasce gialle verticali a forma di foglia di cactus. I suoi talloni battono a tempo il pavimento al tintinnio dei crotali di rame ch’essa agita con le braccia incur­vate. È eretta; ma, cosa strana, le tre parti del corpo, la testa, il petto ed i fianchi non si mettono in moto che successiva­mente ed isolatamente. Prima del resto, la testa si muove oriz­zontalmente ed automaticamente da destra a sinistra e da sinistra a destra, come la testa di un serpente che si risvegli. Poi, i seni si animano allo stesso movimento vibratorio senza che il resto del corpo vi partecipi. Infine, i fianchi cominciano ad agitarsi per loro conto. Allora è una inesprimibile e sapiente varietà di oscillazioni e di movimenti circolari di anche e di reni, ai quali la testa della danzatrice assiste in una gelida immobilità. Si di­rebbe che tutta la coscienza sia passata nei muscoli inferiori del corpo per eseguirvi questa ginnastica folle.

    Si pensa ai versi di Marziale sulla danza delle figlie di Gade: Vibrabunt sine fine prurientes lascivos docili tremore lumbos.

    Poi, la intensa vertigine risale dai fianchi alla testa e ridiscende dalla testa ai fianchi appesantendosi e ognor più precipitando. Talvolta qual­cuno degli spettatori arabi si alza, getta la testa indietro, emette un formidabile Hà! di ammirazione, poi, gravemente, si asside di nuovo. Finalmente la ghawazzi, spossata, rallenta i movimenti. Nella sua mimica, la stanchezza sembra succedere alla violenza delle sensazioni. Porta una mano alla testa, che inchina lieve­mente. È la schiava che domanda grazia al padrone. Ma il pub­blico grida: Ancora! Ancora!

    Provavo uno stupore misto a pietà innanzi a quella disgre­gazione della figura umana per un volontario ritorno all’anima­lità. O Tersicore, pensavo, sacra Musa dell’euritmia e della beltà vivente, quante sono state le tue avventure nel mondo! Gli uomini han potuto dunque travisarti ed avvilirti a tal segno? Non parlo di ciò che fosti in alcuni santuari egizi, greci ed indù, ove seppero condurti all’espressione dei più sublimi sen­timenti mediante una specie di estasi religiosa ed un’arte oggi perduta ; penso solo a ciò che sei nella tua spontanea manife­stazione, nella tua gaiezza grave o violenta, sia fra i popoli no­madi o villerecci che fra l’intelligente splendore delle avanzate civiltà. Povere

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