Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Canzone di campane
Canzone di campane
Canzone di campane
E-book219 pagine3 ore

Canzone di campane

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Nell'ultimo romanzo (Canzone di campane, 1911), Lemonnier svolge l'intima vicenda familiare in un'affascinante e diafana Bruges immersa ora nelle nebbie novembrine ora nelle foschie di una mite estate.

Quale chimerica immaginazione possedevamo, insieme, noi due! Avevamo una sorta d’anima fatta di fiabe, nelle quali riapparivano forse le fantasticherie di tutte le antiche fanciulle della famiglia. Ci avevano, del resto, narrato tanti racconti di fate, che s’era finito a vivere in una specie di piccolo mondo incantato con le principesse e i principi Gentili, mondo che non avrebbe potuto certamente insegnarci il senso pratico della vita. Si aggiunga che avevo acquistato una vista singolare, per mezzo della quale quel che può vedere con l’occhio interiore una povera piccola cieca come Luce diventava quel che io stessa, con i grossi occhi grigi, vedevo, benché, molto spesso, non esistesse se non come illusioni ed apparenze…
A nove anni compiuti, soltanto, avevo incominciato a leggere, ma con tanta poca inclinazione che, per incoraggiarmi, la signorina Pinsonnet, la governante francese che allora avevamo, mi fece leggere, o, piuttosto, sillabare tutto quel che poté trovare di racconti meravigliosi. Ignorai, così, scrupolosamente, la grammatica, l’aritmetica e la geografia; ma, in compenso, avevo già fatto il giro di tutti i reami abitati da prìncipi Amati, da prìncipi Arguti, da prìncipi Fatali e Fortunati, senza contare le Belle dormenti nel bosco, le Belle chiomadoro, la principessa Fior di pisello e tante altre, ch’erano le più belle principesse del mondo.


Camille Lemmonier, Canzoni di campane

Camille Lemonnier
(Ixelles, 24 marzo 1844 – Ixelles, 13 giugno 1913) è stato uno scrittore, giornalista e poeta belga di lingua francese. Narratore particolarmente fertile, nel 1881 scrisse Un maschio (Un Mâle), la sua opera più celebre, in stile impropriamente definito in Italia come verista. Il romanzo fu lodato da Zola e Flaubert, due esponenti di spicco della corrente naturalista.
LinguaItaliano
EditorePasserino
Data di uscita24 set 2020
ISBN9788835899426
Canzone di campane

Correlato a Canzone di campane

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Canzone di campane

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Canzone di campane - Camille Lemmonier

    2020

    Prefazione del traduttore

    Canali grigi, quasi stagnanti, vie agoniche appena baciate, come in un sospiro, da un raggio di sole, lunghe teorie di beghine oranti, casette linde di un laicato semireligioso, cieli plumbei cui fanno corteo rintocchi lenti, melanconici, tristi di campane, rispondentisi nei crepuscoli dall’una all’altra torre, dominati talora, in trilli e gorgheggi improvvisi, dalla musica argentina e profonda dei «carillons»: ecco Bruges la Morte , «cliché» letterario cui la poesia di Georges Rodenbach e, più ancora, il pathos del suo omonimo romanzo hanno dato cittadinanza mondiale. Il poeta, giunto al simbolismo attraverso la parnassiana Jeunesse blanche , tutt’altro che priva d’influenze baudelairiane, aveva in sé i germi di tutte le tristezze, in sé e nel suo duro destino, che doveva così rapido rapirlo alla vita:

    Nous sommes tous les deux la tristesse d’un port,

    Toi, ville! toi ma soeur douloureuse qui n’as

    Que du silence et le regret des anciens mâts;

    Moi, dont la vie aussi n’est qu’un grand canal mort!

    Con la coscienza di un simile sovrastante destino, donde nasce questo stato d’animo, che si riflette in tutta la poesia del Rodenbach, quella storia dell’inconsolabile vedovo, che nell’atmosfera di Bruges trova l’esatta corrispondenza con il proprio dolore, doveva sorgere spontanea nello spirito del poeta, tanto più che egli si proponeva, son parole sue, di «evocare una città, la città come un personaggio essenziale associato agli stati d’animo, che consiglia, dissuade, determina ad agire». Ma quell’atmosphère brugeoise , che il Rodenbach ha creato con Bruges la Morte (la trama passionale ha un’importanza del tutto relativa) è un’atmosfera soggettiva, in quanto più che altro riflette, con sottigliezze e minuzie di miniatura, la città quale il poeta la vedeva con quei suoi occhi, cui già l’ombra d’una sorte ineluttabile sovrastava.

    Charles Guérin stupiva che vi fosse chi, dopo Rodenbach, osasse parlare di Bruges, tanto il «cliché» rodenbachiano aveva avuto fortuna e si presentava anche a spiriti sottili e a mentalità non comuni come definitivo. Perché il poeta aveva compiuto un miracolo: quello di rendere oggettivo il soggettivo, di permeare di un fascino tale la propria triste malinconica visione da riescire a far vedere soltanto attraverso il velo di questa visione stessa. Aveva dato un’anima non solo ai personaggi, ma anche e specialmente alle cose. Donde l’osservazione verhaereniana che il romanzo del Rodenbach dava le impressioni che avrebbero avuto nel mondo, se avessero potuto pensare, le pietre le acque gli alberi.

    Ma era, in realtà, una soggettiva impressione di tristezza e di silenzio, d’estasi malinconica di fronte alle cose che sono state e più non sono. In Rodenbach, cioè, trovava espressione il misticismo passivo delle Fiandre, la rassegnazione cristiana, l’inane contemplazione dei vinti. Pur nella vita fortunata e festeggiata di Parigi, accarezzata dalla gloria e dalla fama, il poeta non poteva dimenticare il proprio destino. Aveva, in verità, cercato di dimenticarlo al suo primo giungere a Parigi, quando scriveva i versi, poi ripudiati, di La Mer élégante e de L’Hiver mondain , e si mostrava nei salotti un conversatore vivo, finemente paradossale; ma doveva subito ritornare nostalgico ai paesaggi della giovinezza, alla terra degli avi, che ricordava nelle sue melanconiche elegie, nelle quali, non espressa ma pur sempre presente, era la fatalità del morbo che doveva atterrarlo. Donde il tono claustrale, se così si può dire, dell’opera sua, la visione acutissima delle «cose morte», l’incapacità di coglier la vita nel gelo dell’inverno, di scoprire quella vita che vince anche la morte.

    Pensate, per contro, ad un Rodenbach, che dei caratteri nativi avesse ereditato tutti gli elementi di energia, di fattività, sia pur congiunti al misticismo e alla tendenza al sogno e al fantastico, sì da impersonare il classico fiammingo esuberante di sangue e di vita, buon mangiatore, eccellente bevitore, atto alla mercatura ed agli affari, con gusto artistico, magari squilibrato, ma pur sempre irresistibile, in pace col buon Dio e non per questo del tutto sordo alle tentazioni del Diavolo: avrebbe, un fiammingo di simile natura, potuto imaginare una Bruges la Morte , creare un’atmosphère brugeoise del genere rodenbachiano, una Bruges che solo vive di cose morte, che riflette, stanca e sonnolenta, un’agonia di secoli nelle acque grige dei suoi canali morti?

    Perché solo il temperamento di un Rodenbach poteva effondersi nel canto sconsolato delle sere sui «vieux quais», poteva inebriarsi di tedio nei giorni di pioggia, immaginare che

    Comme un drapeau mouillé qui pend contre sa hampe,

    Notre âme, quand la pluie éveille ses douleurs,

    Quand la pluie, en hiver, la pénètre et la trempe,

    Notre âme, elle n’est plus qu’un haillon sans couleurs

    Comme un drapeau mouillé qui pend contre sa hampe!

    Egli poteva ritenere che tutta la vita di Bruges stesse nel suono delle campane, visto e sentito in quanto ha di mesto e di nostalgico, e non intravvedere né meno lontanamente che

    Quand ses cloches et ses bourdons fidèles

    Sonnent et sonnent,

    Toute la campagne est vibrante d’elle;

    Et les chemins et les sentiers des horizons,

    Au bruit tonnant des sons profonds,

    Et les routes des hameaux

    Et des plages et des villages,

    Et les eaux mêmes des canaux

    Semblent marcher d’accord,

    A travers le pays qu’elle s’adjuge,

    Vers cette gloire en cendre et or:

    Bruges!

    L’anima attiva, tutto movimento, aspirazione verso il futuro di un Verhaeren, di una sensibilità ben diversa da quella rodenbachiana, istintivamente era portata a reagire contro l’atmosfera di una Bruges città morta, e a trovar pur nel suono delle campane quando un senso eroico, come nei versi or citati, quando il pretesto per un’apostrofe che, sollevando lo scampanìo al di sopra della trita cotidianità stagnante, fosse incitamento ad una vita nuova:

    O chants de bronze et d’or, qui éclatez sans nombre,

    Sur les tracas mesquins et les desseins futiles,

    Et les pauvres soucis et les soins infertiles,

    Des minimes cités qui se meurent dans l’ombre,

    Quand donc vos sons puissants et clairs publieront-ils

    Quelle âme neuve et profonde

    Emeut le monde?

    Émile Verhaeren, fiammingo autentico, integrale, pur esso legato al suolo natio con tutte le fibre, ma pieno di vitalità e di slancio, può un attimo solo subire il fascino delle cose morte; ma non può non volere che, dalla morte, rinasca la vita:

    Les bras des longs canaux que le couchant fait d’or

    Serrent près du beffroi, comme autour d’un refuge,

    Toute la gloire ancienne et dolente de Bruges.

    La ville est fière, et douce, et grande par la mort.

    Mais néanmoins, toujours, monte vers la lumière

    Le rectiligne élan de sa beauté guerrière

    Et son bourdon réveille un trop vivant écho

    Pour éternellement pleurer sur un tombeau.

    Bruges écoute au loin les flots chanter aux grèves

    Et Bruges se souvient et veut ressusciter.

    Voici le chemin d’eau vers son port souhaité

    Et les vaisseaux d’orgueil pour embarquer son rêve.

    E il poeta delle «forze tumultuose», il poeta delle Fiandre eroiche d’ieri e di quelle che, nell’oggi, ricalcano le glorie del passato, il poeta cioè di «tutta la Fiandra», se non creava un nuovo «cliché» letterario, se alla noia degli oziosi o alla fiacchezza dei letterati non dipingeva una Venezia del Nord, dove anime tristi d’innamorati potessero andare a morire di languori e di melanconie, faceva però sgorgare il canto dal cuore stesso della sua razza, e cantava la vita là dove era passata la morte, liberava dalle ceneri del passato i semi dell’avvenire.

    Non loro coetaneo – Rodenbach e Verhaeren erano entrambi nati nel 1855 – ma di dieci anni maggiore, Camille Lemonnier non ha punto alcuno di contatto col Rodenbach, ma si apparenta invece al Verhaeren, pur battendo altre vie ed avendo una diversa sensibilità artistica, per la sanità fisica e l’ardore della vita, oltre che per il carattere etnico di gran parte dell’opera sua.

    Lemonnier fu l’animatore di quella letteratura belga di lingua francese, che alla letteratura di Francia ha dato contributi assai più vasti, più vari e più fondi d’una semplice provincia letteraria, perché con il mondo artistico d’Émile Verhaeren, del primo Maeterlinck e dello stesso Lemonnier ne ha arricchito il patrimonio di una diversa sensibilità e di voci nuove ed autoctone. Erede di Charles de Coster – che alla moderna letteratura belga dette l’ammirabile epopea: La Légende et les aventures héroïques, joyeuses et glorieuses d’Ulenspiegel et de Lamme Goezdzak au Pays des Flandres et Ailleurs , vero poema nazionale di tutto un popolo – al Lemonnier soprattutto si deve se la generazione sua e quelle che la seguirono seppero far rinascere all’arte una terra, che sembrava irrimediabilmente impantanata nella mediocrità aurea dei traffici e dei commerci.

    Brabansone per parte di padre e fiammingo dal lato materno, Lemonnier rappresentò fisicamente e moralmente quella sintesi, che il Brabante rappresenta nella nazione belga. «Colorito acceso sotto una capigliatura di un rosso ardente, – così lo descrisse Maurice des Ombiaux, il più profondo narratore di Wallonia – collo taurino, narici frementi, occhi avidi, tutto rivelava in lui la forza abbondante e generosa di una meravigliosa salute, di una natura ricca, di una razza giunta alla sua piena fioritura. L’essere fisico dava l’impressione di portare in sé tutte le audacie e tutti i coraggi. Lasciava pensare ai nostri antichi comunali, la cui violenza selvaggia, scatenata dalle campane a martello delle torri, non si spegneva che in ondate di bel sangue rosso». Ebbe, pertanto, unitamente a questi tratti fisici, anche le qualità fondamentali dei fiamminghi: comprensione del misticismo, che si riflesse negli entusiasmi onde tessè la sua vita, senso del colore e dell’imagine; ma nel tempo stesso egli fu latino, non solo per il senso squisito della forma, ma anche per i caratteri fondamentali della sua mentalità, aperta ad ogni corrente d’idee, curiosa d’ogni cosa nuova, sempre pronta a prodigarsi.

    L’opera sua non ebbe la risonanza europea che ebbe l’opera d’Émile Verhaeren o di Maurice Maeterlinck, né godette della snobistica fama che circondò il nome di Georges Rodenbach. Se pur ebbe una rinomanza parigina assai larga, egli fu soprattutto ed è rimasto una celebrità tipicamente belga. Perché nel Belgio la sua opera acquistava veramente in pieno il proprio significato, aveva il dovuto risalto, anche quando perdeva d’universalità. La mobilità del suo spirito, che in letteratura non lo fece mai schiavo di una maniera o di una scuola, e dette sovente all’opera sua l’apparenza di ricalco o d’abbandoni a posizioni del momento, troppo spesso, forse, lo spingeva a calcare terreni che non erano suoi. Per questo, una parte non indifferente della sua vastissima attività letteraria, mentre da un lato non arricchì per nulla la letteratura francese, né potrà restar viva in quella belga, tuttavia servì a diffondere nel Belgio idee e correnti letterarie che hanno servito a sprovincializzarne, se la brutta parola è permessa, la letteratura. Mentre, cioè, appetto all’universale la sua opera si smarriva e cadeva, faceva entrare l’universale nel limitato, portava l’eco del mondo nel piccolo Belgio.

    In realtà, Lemonnier è essenzialmente un narratore belga: i tipi che ha creato, i tipi vivi e che resteranno tali per sempre, sono tipi di un carattere etnico e di una psicologia inconfondibili. Dal romanzo che lo rivelò in pieno, Un Mâle (Alphonse Daudet gli scriveva, dopo la pubblicazione di quest’opera potente: «Venite, vedrete in casa mia Flaubert, Goncourt, Zola: voi siete della famiglia»), all’ultimo gruppo dei suoi romanzi: Le Vent dans les Moulins, Comme va le Ruisseau, Le petit Homme de Dieu, La Chanson du Carillon , tutta la parte viva della sua opera è quella che rappresenta, con uno stile pittoresco, ricco di vocaboli, di nerbo e di rilievo, gli uomini della sua patria, sia nei loro istinti animaleschi, sia nel loro anelito verso l’infinito, verso Dio, verso il regno della fantasia e del sogno. Ammiratore ardente del passato della sua patria, evocatore potente degli usi e dei costumi della gente di Fiandra e di Brabante, è tuttavia un uomo legato al presente e tutto teso verso l’avvenire. È l’antitesi viva, completa, totale dello stato d’animo rodenbachiano, perché Lémonnier non è né un malato né un contemplatore ma un uomo d’azione, anche allora che del contemplatore pare voglia assumere l’estatica apparenza.

    Ecco qui, in netto contrasto con Bruges la Morte , il ciclo ultimo dei suoi romanzi testé ricordato, ecco questa Chanson du Carillon , che s’è dovuta nella nostra lingua sminuire in Canzone di campane. Tra le due diverse opere non c’è possibilità di confronti: diversa la fonte d’ispirazione, diverso lo stato d’animo onde sono nate, opposte addirittura le nature dei due artisti: eppure nel romanzo del Lemonnier c’è, evidente e in pieno risalto, tutto il fascino della vecchia Bruges, della Bruges dei beghinaggi, dei morti canali, del Lago d’amore, c’è tutta l’atmosfera tradizionale della città dei granduchi d’Occidente; ma non ne sgorga un senso di malinconia, non ne nasce un fascino di cose morte. È una Bruges che rivive, una Bruges che si risolleva dalle ceneri del passato, che si rinnova e, meglio ancora, rinasce, come sfondo e nel tempo stesso protagonista di una vicenda che è un poema di delicatezza, di vita semplice, umile e quasi puerile; ma un poema sano, suggestivo e confortante, che apre l’anima al sogno e alla speranza.

    È, in altre parole, il poema che poteva scrivere soltanto chi dei fiamminghi caratteri nativi avesse ereditato tutti quegli elementi di energia e di fattività, congiunti al misticismo spontaneo e alla tendenza al sogno e al fantasticare, cui più sopra si accennava in contrasto col carattere del Rodenbach. E in contrasto, appunto, con la morta Bruges del troppo famoso romanzo rodenbachiano si è giudicato non vano offrire ai lettori italiani questa Canzone di campane di Camille Lemonnier, anche per la più realistica rappresentazione che dà di Bruges, pur restando in una atmosfera di sogno, nel tempo stesso che, tradotta, arricchirà la letteratura nostra di un’opera di bellezza, cui non potrà non sorridere il consenso delle più larghe correnti di pubblico.

    G. L.

    I

    Quale chimerica immaginazione possedevamo, insieme, noi due! Avevamo una sorta d’anima fatta di fiabe, nelle quali riapparivano forse le fantasticherie di tutte le antiche fanciulle della famiglia. Ci avevano, del resto, narrato tanti racconti di fate, che s’era finito a vivere in una specie di piccolo mondo incantato con le principesse e i principi Gentili, mondo che non avrebbe potuto certamente insegnarci il senso pratico della vita. Si aggiunga che avevo acquistato una vista singolare, per mezzo della quale quel che può vedere con l’occhio interiore una povera piccola cieca come Luce diventava quel che io stessa, con i grossi occhi grigi, vedevo, benché, molto spesso, non esistesse se non come illusioni ed apparenze...

    A nove anni compiuti, soltanto, avevo incominciato a leggere, ma con tanta poca inclinazione che, per incoraggiarmi, la signorina Pinsonnet, la governante francese che allora avevamo, mi fece leggere, o, piuttosto, sillabare tutto quel che poté trovare di racconti meravigliosi. Ignorai, così, scrupolosamente, la grammatica, l’aritmetica e la geografia; ma, in compenso, avevo già fatto il giro di tutti i reami abitati da prìncipi Amati, da prìncipi Arguti, da prìncipi Fatali e Fortunati, senza contare le Belle dormenti nel bosco, le Belle chiomadoro, la principessa Fior di pisello e tante altre, ch’erano le più belle principesse del mondo.

    Bisogna dire che, attraverso tutti gli spostamenti continui cui ci obbligava il genio di babbo, la signorina Pinsonnet avrebbe avuto assai da fare per insegnarci altre cose... Babbo era un uomo straordinario, che trovava regolarmente il modo di rovinarsi col danaro che gli rendevano le proprie invenzioni. Non fummo mai più poveri di come ci trovammo dopo il milione che gli rese la scoperta di una saldatura a freddo nell’acqua. Il milione, è vero, fu inghiottito dall’impianto d’un’officina, nella quale l’acqua del mare, aspirata da potenti sifoni, doveva procurargli una decantazione d’oro equivalente al prodotto d’una California. Nessuno di noi seppe mai, e altri neppure, che accadde di questa invenzione.

    No, non si può dire che babbo mancasse d’idee; ma queste ci costavano care. Un giorno, mamma vendette, in una sol volta, quattro delle sue fattorie fiamminghe, per procurargli il danaro necessario a trasformare una cascata in energia elettrica per illuminazione (economica) di non ricordo quale città svizzera, energia che doveva anche fornire

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1