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Io sono mia: Donne e Centri Antiviolenza, storie di rinascita
Io sono mia: Donne e Centri Antiviolenza, storie di rinascita
Io sono mia: Donne e Centri Antiviolenza, storie di rinascita
E-book204 pagine3 ore

Io sono mia: Donne e Centri Antiviolenza, storie di rinascita

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Cos'è un Centro Antiviolenza? Come funziona e chi lo attraversa? Chi sono le donne che lavorano al suo interno e coloro che invece vi si rivolgono? Nati in Italia tra la fine anni '80 e i primi anni '90, oggi quasi tutte le città italiane ma anche i piccoli Comuni vedono questi Centri protagonisti di un'azione di prevenzione e tutela delle donne, fondamentale dal punto di vista sociale. Tuttavia, sono ancora deboli la considerazione politica e la presa di coscienza collettiva sul problema della violenza contro le donne, che è poi la manifestazione più brutale di una sottocultura di dominanza maschilista e patriarcale. Luca Martini percorre un’indagine in diverse Regioni d'Italia, attraversando nove Centri della rete D.i.Re - Donne in Rete contro la violenza, per capire come operano queste realtà e chi sono le donne che vi si rivolgono. E lo fa tramite le parole delle "sopravvissute" e delle operatrici-attiviste che hanno seguito le loro storie, accompagnandole in percorsi di rinascita, ritorno alla vita, fuoriuscita dalla violenza. La prefazione è affidata ad Antonella Veltri, presidente di D.i.Re.
LinguaItaliano
EditoreCapovolte
Data di uscita11 dic 2020
ISBN9788894418989
Io sono mia: Donne e Centri Antiviolenza, storie di rinascita

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    Anteprima del libro

    Io sono mia - Luca Martini

    tutti.

    Mi hanno insegnato a pensare a me come la protagonista della mia vita

    Vivere Donna – Carpi

    Le voci: Gianna, Mimma, Alice, Elena, Susanna¹

    Quello con le operatrici del Centro Antiviolenza Vivere Donna di Carpi è un appuntamento che parte da lontano, ormai più di tre anni fa. Tanto ci è voluto per riuscire a realizzare questo incontro cui mi approssimo con un grandissimo carico di emozioni.

    Tutto è definito con precisione; la data e l’ora, il luogo esatto. Infatti, quando arrivo all’indirizzo concordato, il Centro non c’è.

    La struttura è in realtà lì vicino, in un edificio che accoglie altri uffici e servizi, in un’ampia area commerciale che rende molto più semplice tutelare la privacy delle donne che, varcando l’entrata principale, si stanno dirigendo al Centro.

    L’ufficio principale è accogliente e relativamente piccolo, come capita di frequente nelle strutture inserite in contesti cittadini.

    Vivere Donna

    «La storia del Centro – racconta Gianna – comincia nel 2006 già allora facevo parte dell’UDI [Unione Donne Italiane, NdA] che all’epoca stava conducendo un’indagine sui femminicidi nell’area di Modena. Ero parte anche di uno sportello di un’associazione di counseling a Carpi che si rivolgeva agli adulti che vivessero situazioni di disagio, in senso ampio».

    «Proprio in quel periodo, tra Novi e Carpi si consumarono due femminicidi. Il Comune di Carpi anche in virtù di questi drammatici eventi aveva invitato istituzioni e associazioni operanti nel sociale, tra cui l’associazione di counseling di cui facevo parte, a presentare dati disponibili sul fenomeno della violenza contro le donne. Noi ci eravamo da tempo accorte che molte donne che si rivolgevano al nostro sportello, circa la metà delle utenze, durante i colloqui rivelavano situazioni di violenza agita nei loro confronti. Tra l’altro, tra tutte le associazioni e tutte le istituzioni coinvolte, fummo le uniche a presentarci con dei dati; in quegli anni i servizi e le forze dell’ordine, nonché il Pronto Soccorso, non differenziavano ancora i casi di violenza. Da qui l’idea di creare a Carpi un punto di ascolto antiviolenza. Insieme a Odette, presidente dell’UDI di Carpi, ci siamo attivate per trovare le risorse necessarie. Contemporaneamente in quella stagione la Fondazione Cassa di Risparmio di Carpi erogava, su base progettuale, fondi a sostegno delle fragilità e situazioni di disagio, così mettendo insieme il mio essere femminista e il saper fare dell’UDI ci siamo focalizzate ulteriormente sul fenomeno della violenza agita contro le donne e insieme ad alcune donne dell’UDI e ad altre socie sono stata tra le fondatrici di Vivere Donna».

    «Con il supporto dei Centri Antiviolenza di Bologna, Modena e Nonantola di Reggio Emilia abbiamo cominciato a formarci e a comprendere cosa si dovesse fare per aprire un Centro; abbiamo ottenuto il finanziamento presentando un progetto specifico come UDI e con i primi soldi abbiamo aperto uno sportello di ascolto. Siamo nel 2008. Abbiamo lanciato un bando per cercare donne che partecipassero a questo progetto e ci hanno risposto profili di tutti i tipi. C’erano anche donne molto giovani che non conoscevano né il Sessantotto né il femminismo, io ne ricordo una in particolare che sosteneva che la violenza colpiva in modo quasi identico anche gli uomini. Col tempo lo sportello di ascolto ha iniziato a camminare con le proprie gambe, è diventato un soggetto autonomo con tanto di statuto trasformandosi in un Centro a tutti gli effetti».

    «Attualmente – prosegue Gianna – siamo in ventisette fra operatrici e socie, e copriamo un comprensorio territoriale che si chiama Unione delle Terre d’Argine; inoltre grazie a una convenzione ci coordiniamo con le forze dell’ordine, il Pronto Soccorso, il consultorio e altri soggetti coinvolti nell’affrontare la violenza contro le donne, in modo che tutti questi attori abbiano il più possibile una metodologia uniforme nell’affrontare i casi di violenza. Proprio l’Unione Terre d’Argine ci ha messo a disposizione un appartamento da adibire come struttura a indirizzo segreto. Inoltre, sempre in forza di questa convenzione, gestiamo gli sportelli di ascolto nei comuni di Novi, Campogalliano e Soliera. L’affluenza a questi sportelli non è tanta perché i comuni sono molto piccoli e le donne non si espongono all’interno di un territorio così limitato per timore di una loro riconoscibilità».

    «Nel 2017 abbiamo avuto 130 accessi di cui 71 donne al primo accesso», mi spiega Mimma quando chiedo quante donne siano passate per il Centro. «A ottobre 2018 siamo a circa una sessantina di nuovi accessi, comprendendo anche quelli telefonici. Presso la struttura a indirizzo segreto abbiamo setti posti letto. Ci sono operatrici volontarie dedicate esclusivamente alla struttura che gestiscono anche una reperibilità h24. La maggior parte delle donne che si rivolgono al Centro sono italiane e il grosso si colloca nell’età tra i trenta e i cinquant’anni».

    «Il lavoro – riprende Gianna – qui si basa prevalentemente sul volontariato, anche se grazie ai finanziamenti della Legge sul femminicidio da tre anni a questa parte possiamo retribuire, seppur in forma minima, tre operatrici che hanno un contratto part-time. Questo purtroppo è quanto possiamo permetterci al momento».

    Vivere Donna affronta in questa prospettiva una difficoltà comune a molti Centri. L’età media relativamente bassa, intorno ai quarant’anni, delle operatrici è figlia dell’entusiasmo di quante hanno aderito alla missione del Centro e, in parte, dello sforzo molto complesso di creare una seppur minima retribuibilità a favore delle figure più giovani. Molte delle attiviste traggono il loro reddito dalla personale pensione e rimane sempre scoperto il problema di poter offrire a tutte le altre un’entrata, a fronte delle tante ore spese presso il Centro. Nel tragicamente consueto disinteresse generale, resta un onere del Centro ricomporre il rompicapo di poter garantire anche una prospettiva in ottica professionale a quante necessitano di una entrata economica da poter affiancare alla propria professionalità e al proprio entusiasmo. Non c’è prospettiva di continuità senza riuscire a contemperare i due aspetti. E infatti, anche le attiviste/operatrici contrattualizzate e retribuite, spendono al Centro e per il Centro molte più ore di quanto formalmente previsto. Di nuovo, su base meramente volontaria.

    «Senza la passione e la motivazione nessuna di noi sarebbe qua», osserva Alice, una delle attiviste più giovani e coinvolte del Centro. «La retribuzione, anche se minima, ci aiuta per il semplice fatto che ne abbiamo bisogno per vivere. I fondi da cui attingiamo saranno disponibili fino al 2019, poi si riaprirà l’incertezza per il nostro futuro. Io come le altre non posso concepirmi lontano da questo contesto, ma naturalmente non posso negare la frustrazione di un futuro caratterizzato da una costante precarietà che di fatto è la misura del menefreghismo con cui il modello politico culturale italiano in generale affronta tutta la tematica della violenza contro le donne. Poi a livello locale le cose possono andare meglio. Per esempio, anche per questo appartamento nel quale siamo ora e che è la sede operativa del Centro Antiviolenza non paghiamo fortunatamente alcun affitto, grazie a una convezione col Comune. Però tutte le utenze sono a carico nostro».

    Quindi, come a ogni latitudine italica, il lavoro del Centro fa molto comodo a tutte le istituzioni, specie nell’ottica dell’ospitalità in emergenza per le donne, ma la disponibilità a supportare concretamente il suo operato è ridotta al lumicino. Di qui la necessità per le attiviste di dedicare molto altro tempo, sempre su base volontaria per partecipare a bandi, per organizzare cene o altre attività per la raccolta fondi.

    Chiedo allora del rapporto con la politica locale. «Il rapporto c’è ed è già un segnale non trascurabile», spiega Alice. «La convenzione per l’utilizzo gratuito dei due appartamenti non è scontata. Inoltre, ormai gli eventi per la giornata del 25 novembre sono concordati con noi dal Comune che poi li sostiene con il patrocinio, e questo è sicuramente un bel riconoscimento alla nostra competenza. È purtroppo meno fluido il lavoro svolto nelle scuole. Per dire, realtà storiche come Modena, Reggio Emilia e Bologna da anni organizzano eventi di ampio respiro nelle e con le scuole, con la partecipazione non solo delle classi ma anche delle loro famiglie e i rispettivi Comuni le supportano. Qui invece accade che il Comune partecipa agli stessi bandi collegati alle attività con le scuole e poi manda il suo personale a condurre gli incontri, relegandoci a un ruolo molto marginale, quasi di mera presenza. Questo per noi è molto frustrante perché di nuovo ci restituisce l’idea che dove c’è gratuità allora si delegano noi e il nostro lavoro: le nostre competenze fanno comodo. Quando invece c’è la possibilità di agire delle iniziative finanziate, allora scatta una competitività e la nostra esclusione diventa giustificabile».

    «In questa prospettiva – interviene Gianna – abbiamo però riscontri molto positivi dalle studentesse e dagli studenti. Se è vero che per noi, per effetto dell’esclusione di cui si parlava prima, non è sempre possibile entrare nelle scuole, è però vero che i ragazzi e le ragazze dei comitati studenteschi ci cercano per assemblee d’istituto o autogestioni».

    Rimane, nel rapporto con il tessuto sociale locale, la difficoltà ad affrontare la tematica della violenza facendolo in modo diretto. In questo senso vanno le parole di Elena. «L’uso della parola antiviolenza allontana e purtroppo crea una distanza. Ti cito questo caso. Sul nostro stesso piano c’è anche un consultorio, ci sono donne che a volte sbagliano porta e suonano il nostro campanello. Quando chi di noi apre e dice che noi siamo un Centro Antiviolenza quasi sempre accade che queste donne facciano un passo indietro, ma direi piuttosto un balzo indietro, e si affrettino a dire che loro con la violenza non c’entrano nulla. Meglio così ovviamente, ma è evidente la presa di posizione, di distacco, nei nostri confronti. C’è ancora tanto da fare nella percezione del lavoro del Centro Antiviolenza, della sua missione e del ruolo anche sociale. Ma anche semplicemente capire cosa fa, su cosa può attivarsi».

    «Eppure – osserva Alice – non perché sono parte in causa, ma sarebbe così interessante si capisse all’esterno anche come siamo organizzate. Abbiamo un gruppo che si dedica allo sportello lavoro, uno dedicato al fundraising, uno per la formazione/prevenzione e un altro per la comunicazione».

    «Riconoscimenti al nostro lavoro ne abbiamo comunque – interviene Gianna – perché le nostre attiviste da due anni tengono un corso di formazione per operatori e operatrici del Pronto Soccorso. Per me sapere che la Regione Emilia-Romagna ci considera competenti a formare del personale sanitario e socio-assistenziale sulla tematica della violenza agita contro le donne, oltretutto pagando in modo equo le nostre attiviste per questa attività di formazione, ebbene tutto questo per me è una soddisfazione immensa. È un attestato di stima per noi come Centro Antiviolenza e per queste attiviste più giovani e un segnale forte nei confronti di una politica locale che invece tende più ad escluderci che a coinvolgerci su un tema dove noi siamo molto preparate. E io vorrei aggiungere che loro, Alice, Elena e le altre attiviste più giovani del Centro questa cosa dei riconoscimenti nei loro confronti non la raccontano mai e invece è molto importante specie quando l’attestato ti arriva da ambiti politici così importanti».

    Torno sul punto espresso in precedenza da Elena; nel momento in cui, nei loro interventi o nelle loro attività si cita la parola violenza, le posizioni dei loro interlocutori, istituzionali o meno, si irrigidisco. Analogamente questo accade davanti a termini quale Centro Antiviolenza, attivista, sino allo spauracchio peggiore ci possa essere: femminista.

    «La reazione negativa noi la notiamo spesso – racconta Elena – perché al solito c’è una mescolanza tra ignoranza su ciò che il femminismo possa essere e la sua stereotipizzazione. Quindi ci dobbiamo sempre confrontare con i soliti odiosi preconcetti delle femministe odiatrici di uomini e via dicendo. Lo scenario credo sia sempre il medesimo a ogni latitudine, purtroppo. Quindi non si percepisce il nostro impegno nella lotta per il diritto all’uguaglianza o la lotta alla possibilità di riappropriarsi della propria vita da parte della donna offesa dalla violenza. Questo è estremamente stancante anche perché ogni volta noi dobbiamo ripartire dalle basi, spiegando allo sfinimento come stiano invece le cose».

    «Alla base del nostro lavoro – prosegue Elena – ci sono ovviamente motivazione e formazione, ma lo strumento strategico è l’ascolto. Oggi io penso, facendo un ragionamento generale, ci siano tante donne che dedicano un’ora a donne che ne hanno bisogno, mentre credo ci siano purtroppo troppi pochi uomini che dedicano un’ora a uomini che ne avrebbero necessità per risolvere i loro problemi nelle relazioni affettive di genere. Anche questa è una misura della disparità in atto nell’azione di contrasto alla violenza maschile contro le

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