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Ho detto no: Come uscire dalla violenza di genere
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Ho detto no: Come uscire dalla violenza di genere
E-book152 pagine2 ore

Ho detto no: Come uscire dalla violenza di genere

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Info su questo ebook

Antonella, Francesca, Stefania, Yvette, Clara, Luisa, Mara. E Francesco. Otto storie di rinascita, di cambiamento. Storie di donne che ce l’hanno fatta a vincere la violenza, sono riuscite a uscire dall’angolo, a riprendersi la propria vita, a riscoprire il loro valore, a ricominciare da se stesse. Nutrendo progetti nuovi, creando iniziative imprenditoriali, riacquistando la fondamentale autonomia finanziaria. E un uomo, che con la violenza ha deciso di fare i conti e di eliminarla dalla sua vita. Perché la violenza non è un destino. Un femminicidio ogni tre giorni, circa un terzo delle donne nel mondo vittime di qualche forma di violenza: i numeri sembrano non lasciare scampo, ma la via d’uscita, pur se difficile e faticosa, c’è. Ed è fatta di lavoro di rete, di formazione, di strumenti legislativi, finanziari, di un sistema Paese che non renda nuovamente vittima una donna già vittima di violenza. La strada non è semplice, e passa, sempre, per un cambiamento culturale, sconfiggendo i retaggi patriarcali e assicurando parità di trattamento e uguali opportunità.

Il momento decisivo è stato quando sono riuscita a dare un nome a quello che vivevo in casa. Prima pensavo che quella che vivevo io fosse la normalità. Ora so che la catena della violenza si può spezzare.
LinguaItaliano
Data di uscita25 nov 2022
ISBN9791254840719
Ho detto no: Come uscire dalla violenza di genere

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    Anteprima del libro

    Ho detto no - Chiara Di Cristofaro

    Capitolo 1

    No, la colpa non è mia

    La storia di Yvette

    Yvette è una donna volitiva e determinata, una donna forte. Proviene dal Camerun, suo padre è un uomo molto ricco, con cinque mogli e molti figli, il suo modo di comunicare con loro è la violenza: fisica, verbale, economica. Unica tra i figli a ribellarsi alle regole e alla supremazia del padre, Yvette, pelle d’ebano e sorriso smagliante, ha conseguito tre lauree, due in Camerun e una, dopo essersi trasferita in Italia per studiare, all’Università degli studi della Calabria. E anche qui torna a incontrare la violenza. Oggi Yvette è mediatrice culturale, creatrice di laboratori di scrittura ed espressione per le donne nere, autrice di libri.

    Come mai una donna così intelligente, che ha studiato, si è lasciata trattare così?: così una giudice dice a Yvette quando lei prende consapevolezza della storia di violenza vissuta in Calabria e cerca, con difficoltà, di lasciarsela dietro, alle spalle, portando il figlio con sé e chiedendone l’affido esclusivo. Un commento vittimizzante, quello della giudice, che riesce solo a farla sentire in colpa e sbagliata.

    Yvette incontra il suo ex compagno, italiano, durante l’ultimo anno di studi in Calabria, la relazione va veloce, lei rimane incinta e lui la convince a trasferirsi a casa sua, assieme ai suoi genitori. Nella nuova situazione di convivenza, tanti aspetti del rapporto a cui la donna non aveva fatto prima caso cominciano a venir fuori. Dalla violenza psicologica, in concomitanza con la nascita del bambino, l’ex compagno passa alla violenza fisica. La situazione diventa via via più pesante dopo la morte del padre del compagno. Lui la maltratta, la picchia, ma non la vuole lasciare andare, non vuole che si costruisca la sua indipendenza finanziaria. Dopo ogni sfuriata, le chiede scusa e la convince che non lo farà più. Seguono brevi periodi di luna di miele, ma le cose peggiorano ogni volta di più. In un eterno litigare e poi ricominciare daccapo. Finché il 29 settembre 2017 Yvette trova il coraggio di scappare definitivamente. Lui, prima che riesca a uscire da casa, le dà un pugno sulla schiena che le provoca un dolore enorme, lei chiama per la prima volta la polizia.

    Una volta lasciata l’abitazione che la ospitava, Yvette si ritrova senza soldi, senza lavoro e viene accolta in una casa famiglia. Incontra delle persone che la aiutano e tra queste c’è una signora di Cosenza che si affeziona a lei e alla sua storia. La donna in precedenza le aveva offerto anche un lavoro e ora le trova gli avvocati necessari per affrontare il complesso iter giudiziario. Il processo penale, nel momento in cui si scrive questo libro, non è ancora concluso; quello civile è finito con l’affido esclusivo del figlio a Yvette, ma la battaglia è stata lunga e faticosa, con la giudice che inizialmente aveva deciso per il diritto del padre a vedere il bambino.

    Tra la violenza e la rinascita, il percorso non è facile: nel mezzo c’è anche la depressione, c’è la colpevolizzazione di sé stessa, c’è la messa in dubbio della decisione presa di denunciare. Era stata tutta colpa mia – racconta Yvette –, mi sono meritata quello che mi stava succedendo, avrei dovuto imparare la lezione, ma ero troppo concentrata a pensare alle mie responsabilità in questa storia. Viene assalita dai dubbi e vede tutte le difficoltà della strada che ha intrapreso. Quando la giudice le chiede come mai si fosse venuta a trovare in una situazione del genere, lei si sente decretata ancora una volta colpevole. Quella dichiarazione ha legittimato il mio malessere, se anche la giudice pensa che io sia una stupida allora ho davvero ragione di sentirmi così, racconta Yvette, che tutta la sua storia, tutto il suo dolore e la sua rabbia li ha messi nel suo primo libro Perché ti amo e presto seguiranno altre pubblicazioni.

    Il problema non è rappresentato dalle forze dell’ordine. No, i poliziotti sono stati bravissimi, invece nella casa famiglia dove mi sono rifugiata ho anche avuto rapporti con persone che non erano adeguatamente formate per trattare di violenza. La stessa cosa è successa durante gli iter giudiziari, controversi, fino alla battaglia per non far comunicare dalla nuova amministrazione all’ex compagno il suo nuovo indirizzo nel Nord Italia. Una querelle che non sarebbe neanche dovuta iniziare, ma che purtroppo, per la mancanza di conoscenza e formazione, Yvette si trova a dover combattere. La vince, anche con l’aiuto della consigliera D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza, Nadia Somma, che l’ha sostenuta.

    Dopo la denuncia e dopo la colpevolizzazione di sé, arriva il momento della rabbia che ha anche effetti positivi. Acquisita la consapevolezza di essere stata vittima di abusi e di gratuita e inopinata violenza, come effetto collaterale divenni preda di una rabbia infinita, si legge nel suo libro. Un incontro importante per la presa di consapevolezza è con una ragazza che opera nel centro antiviolenza Roberta Lanzino di Cosenza. Grazie a lei Yvette conosce il mondo dei centri antiviolenza e riesce a trovarvi conforto e aiuto. Comincia quindi a prendere consapevolezza di quanto le è successo, a relativizzare e a capire che la colpa non è sua. Lì ho scoperto un mondo, ho riscoperto il desiderio di riprendere in mano la mia vita, di studiare, imparare, capire le cose. Ricordo un’operatrice in particolare che mi diceva che ero molto brava perché riuscivo a elaborare quello che mi era successo; questa comprensione, questa capacità di ascolto mi hanno aiutata a studiare, a cercare di capire come riuscire ad aiutare le altre donne, soprattutto le donne straniere come me.

    Con la rabbia trova però anche il coraggio di lottare, di usare la sua esperienza per aiutare le altre donne nella sua stessa situazione. Assieme alla madre, vittima anche lei di violenza da parte del marito, fonda un’associazione per aiutare le donne camerunensi che si trovano in situazioni di una crudeltà spesso inaudita. Yvette affronta la prima formazione come mediatrice nel dicembre 2018 e lavora a Cosenza con questo ruolo per tre anni, poi si trasferisce al Nord e continua a occuparsi delle donne straniere vittime di violenza. Crea dei laboratori per loro, anche in collaborazione con l’associazione WeWorld. Tra le tante iniziative, ha dato vita a un laboratorio politico che si chiama Il mio nome non è migrante, uno strumento per affrontare varie tematiche legate alle donne migranti, nel contesto di origine e in quello di accoglienza, nell’ottica di spingere le donne nere, straniere, a farsi avanti per difendere i loro diritti. Si tratta di un laboratorio di scrittura e di espressione, per insegnare a queste donne a prendere la parola, a far sentire la voce.

    Con fatica, Yvette è riuscita a mettere molta distanza dalla donna impaurita che non sapeva a chi rivolgersi per allontanarsi dal compagno violento e che si colpevolizzava per quella storia. E alla domanda che cosa suggerirebbe di fare come prima cosa a una donna straniera e sola come lei, che si trovasse in Italia nelle sue stesse condizioni di violenza subita non ha dubbi: La prima cosa che suggerirei a una donna che si trova in questa stessa situazione non è denunciare. No, non la manderei a denunciare subito. Avendo io fatto così, più volte mi sono chiesta chi me lo avesse fatto fare, mi sono ritrovata sola davanti a un percorso lungo e sconosciuto. Chi manda le donne a denunciare non pensa al dopo. Al dopo in genere non ci pensa nessuno e le vittime si ritrovano sole, abbandonate. Prima di dire a una donna di denunciare, le suggerirei di cercare un centro antiviolenza, perché in queste strutture si trova l’aiuto necessario per prendere la decisione giusta, anche se la decisione sarà alla fine la sua, ma almeno lei sarà consapevole di che cosa le succederà. Perché la prima cosa da fare, la più importante, è convincerla di una cosa: la colpa non è sua.

    Rompere il silenzio

    Di violenza sulle donne si parla molto: tv, convegni, libri e, da ultimo, anche campagne elettorali. L’attenzione politica e mediatica da alcuni anni è alta, per un fenomeno antico e radicato, che riguarda tutta la società: circa un terzo delle donne nel mondo, secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, subisce violenza almeno una volta nella sua vita. Eppure, nonostante l’accresciuta sensibilità, i numeri non migliorano, e in Italia una donna ogni tre giorni è vittima di femminicidio, cioè viene uccisa per il suo essere donna, per il ruolo che le viene assegnato, un ruolo di sottomissione. Le forme di violenza sono diverse e di vario grado, da quella psicologica a quella fisica, a quella economica o sessuale. Un’impalcatura che si regge sulle fondamenta della società patriarcale. Il cemento principale di questo sistema è costituito dal silenzio, dall’omertà, dalla rassegnazione e dalla paura. Basta che i vicini non sappiano, che se ne parli sempre a bassa voce, che al lavoro non se ne accorga nessuno, che i figli non vedano. Ancora oggi, dopo un contesto normativo migliorato e tanti muri di omertà che sono stati abbattuti, la maggior parte delle donne vittime di violenza trova difficoltà a parlare dell’accaduto anche con un’amica. La vittima, stuprata, percossa, maltrattata, talvolta anche davanti ai figli, sviluppa sensi di colpa o ha paura per la propria vita o per quella della prole. E per questo sta zitta.

    Ci sono però anche le donne che ce l’hanno fatta a vincere la violenza e l’indifferenza della società. Donne che hanno rotto le catene, il silenzio, che hanno acquistato autonomia, che hanno chiesto aiuto e l’hanno ricevuto. Che cosa va allora consigliato a tutte le altre? Qual è il primo passo da fare? A chi ci si può rivolgere per avere aiuto, supporto, una consulenza psicologica e legale?

    La risposta la forniscono storie come quella di Yvette Samnick che indica nel centro antiviolenza il primo anello della rete a cui rivolgersi per affrontare la violenza. La riposta, a livello legislativo, è contenuta nella Convenzione di Istanbul per l’eliminazione della violenza sulle donne del 2011 che riconosce l’importanza dell’azione di centri antiviolenza e case rifugio per affrontare la piaga. Per sorreggersi queste strutture anno bisogno di risorse; un passo fondamentale, in tal senso, è stato compiuto dalla legge del 2013, la cosiddetta legge sui femminicidi, che ha previsto, per la prima volta, finanziamenti stabili e in forma

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