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Né sesso né lavoro: Politiche sulla prostituzione
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E-book245 pagine3 ore

Né sesso né lavoro: Politiche sulla prostituzione

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Info su questo ebook

Né sesso né lavoro. Politiche della prostituzione esce tempestivamente nello stesso giorno della discussione della Consulta in Italia per fornire, un contributo indispensabile al dibattito su prostituzione/sex work in Italia.
Un testo importante per chi vuole capire qualcosa in più sulla prostituzione e sfilare la testa dalla sabbia dei luoghi comuni, andare oltre slogan sempre più diffusi che, volendo sdoganare la questione, negano gravi problemi sociali e mentono spudoratamente. Il sex work non è un lavoro come un altro, il concetto stesso di sex work stravolge il senso sia del sesso sia del lavoro.
Forti di competenze specifiche, le quattro autrici mostrano i differenti aspetti del fenomeno in un’analisi calata nella peculiare realtà dell’abolizionismo tradito nel nostro paese, dove la lotta alla tratta non è una priorità e dove sulla prostituzione vige il laissez faire. Dall’esame dei modelli di politiche internazionali all’analisi della Legge Merlin (male interpretata) e delle numerose proposte parlamentari di modifica della legge, all’appassionata riflessione sulla portata della prostituzione negli attuali rapporti umani.
LinguaItaliano
Data di uscita6 mar 2019
ISBN9788868993535
Né sesso né lavoro: Politiche sulla prostituzione
Autore

Daniela Danna

Daniela Danna, PhD, sociologa all’Università Statale di Milano, insegna Politiche Sociali. Si è occupata di questioni di sesso e genere, lesbismo e omosessualità, violenza contro le donne, politiche sulla prostituzione, maternità surrogata, analisi dei sistemi-mondo e teorie sulla popolazione. È autrice di svariati volumi, daAmiche, compagne, amanti. Storia dell’amore tra donne(Mondadori, 1994) a Maternità. Surrogata? (Asterios, 2017).

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    Anteprima del libro

    Né sesso né lavoro - Daniela Danna

    Libertà sessuale e politiche sulla prostituzione

    Daniela Danna

    Classificazione

    La soluzione di qualcosa dipende innanzitutto da cosa si rileva e definisce come problema. Ciò accade in generale per tutte le scelte politiche, ma in particolare per l’oggetto di questo scritto: le politiche sulla prostituzione. Esse contemplano strumenti penali con, eventualmente, regolamenti e politiche sociali. Non esiste una sola soluzione al problema della prostituzione, perché tutto dipende da che cosa consideriamo problema: se è sex work, cioè lavoro sessuale, pare non ci sia altro da fare che regolamentarlo, ma se è sfruttamento sessuale che chi paga esercita su chi vi acconsente per denaro, allora una politica attenta alla condizione delle donne e delle altre parti inferiorizzate della società dovrebbe combatterlo. Le leggi forniscono, implicitamente o esplicitamente, una definizione di prostituzione che deriva dal pensiero e dall’interesse di chi le ha scritte e di chi riesce maggiormente a influenzare i parlamenti (Farley e Kelly, 2000). Queste definizioni diventano la visione pubblica del fenomeno sorretta dalla forza dello stato – che siano o meno condivise.

    Presentiamo quindi i diversi modelli legislativi, senza dimenticare che le leggi sono una cosa e la loro applicazione cosa diversa, che vedremo nell’analisi delle politiche di alcuni stati. Parleremo più in dettaglio solo delle politiche in cui vi è il maggiore sviluppo delle due interpretazioni oggi correnti e contrapposte: la prostituzione come lavoro o come abuso sessuale. Naturalmente ci sono altre interpretazioni e politiche che hanno avuto importanza nella storia e anche nell’attualità, e ne farò cenno proponendo una classificazione con due dimensioni:

    1.che vi sia o meno la possibilità legale di usare un’altra persona per soddisfarsi sessualmente, pagandola;

    2.che la legge esprima o meno una condanna morale di chi si sottopone ai desideri altrui per denaro, cioè della prostituta, intesa non come categoria sociale particolare – le femministe radicali infatti le chiamano prostituite – ma come denominazione di chi partecipa alla prostituzione per ricevere denaro.

    Nei miei lavori passati avevo chiamato la prima dimensione legalità del commercio del sesso. Questa espressione falsamente oggettiva assume il punto di vista di chi paga per accedere al corpo di un’altra (o di un altro, più raramente), mentre i due che partecipano al commercio del sesso non fanno affatto la stessa cosa: chi paga fa sesso, ma chi ha bisogno di denaro lo subisce.⁵ Definire la prostituzione come uno scambio tra sesso e denaro è cancellare l’esperienza femminile, o comunque di chi si vende, e ciò a cui si sottopone, ossia un atto sessuale non voluto – che in ogni altro contesto riconosciamo definire la violenza sessuale. Dal lato di chi vende la definizione più calzante è abuso sessuale retribuito, perché tutto ciò che il denaro può comperare è l’infingimento di una partecipazione sessuale, ma la sessualità in gioco è solo quella del cliente, cioè dell’uomo che paga la donna per fare quel che lui vuole. Non tutte le persone che si prostituiscono accettano la definizione di abuso sessuale retribuito, ma gli argomenti che usano tendono a svalutare l’intimità o a negare l’abuso perché si è espresso un consenso. È difficile credere che non ci siano conseguenze psicologiche, anche se la variabilità umana permette di concepire che una minoranza possa non soffrirne. In particolare le trans (da uomo a donna), le quali ottengono con la prostituzione una conferma di femminilità, intesa come desiderabilità da parte di un uomo (Gatto Trocchi, 1995; Danna, 2004, pp. 42-44). Noto anche che è più facile usare definizioni neutre come sex work da parte di chi non si prostituisce e presumibilmente mai l’ha dovuto fare, come gli accademici.⁶ Chi fa un simile lavoro deve dissociarsi dall’atto, con un distacco psicologico tra mente e corpo o con l’uso di sostanze psicoattive (alcolici compresi). Sono numerosissime le testimonianze di un’alterazione mentale vissuta come norma per sopportare ciò che accade nella prostituzione (Høigård e Finstad, 1992; Schwarzer, 2013).⁷

    L’attuale definizione nomina con più precisione l’atto di chi compra l’accesso sessuale al corpo altrui. Può farlo in un modo protetto dalla legge? Può farlo in un contesto in cui la legge esprime biasimo nei confronti di chi si prostituisce, trattandola di conseguenza come una cittadina di serie B?

    La seconda dimensione non è particolarmente rilevante per chi si prostituisce rispetto a ciò che le accade nella prostituzione: subisce comunque rapporti sessuali non desiderati, che siano legalmente approvati o meno. Tale dimensione invece è importante nell’autorappresentazione degli stati. Dopo una fase storica in cui ha prevalso l’abolizionismo, alcuni paesi hanno nuovamente introdotto i regolamenti dando a essi una giustificazione molto diversa rispetto all’Ottocento, cioè trattare la prostituzione come un mestiere, convalidando legalmente il relativo contratto. Si impone perciò la distinzione rispetto ai regolamenti di stampo ottocentesco con il termine neoregolamentarismo. In ogni forma di regolamentarismo gli sfruttatori o tenutari di bordello diventano coloro che organizzano la prostituzione, cioè manager. Ma nessuno oggi propugna il ritorno al modello ottocentesco di segregazione e di creazione di uno status giuridico inferiore per chi si prostituisce, è il neoregolamentarismo la politica in discussione in molti stati, giustificata e promossa dal concetto di sex work.

    Sex worker è un’etichetta che viene data già nell’ottica del regolamentarismo, con una petizione di principio perché non è una domanda di riconoscimento dal basso. Solitamente chi si prostituisce considera questa una fase temporanea della propria vita e non ne fa la propria identità (tranne le trans, la cui problematica psicologica è diversa). Lo spostamento culturale verso il punto di vista che privilegia una minoranza di attiviste – che spesso non hanno nemmeno contatti sessuali con i clienti quando interpretano il ruolo di domina in un rapporto sado-maso⁸ – è una parte importante delle ragioni per cui sono cambiate le politiche. Ma non ha senso definire la prostituzione a cominciare dalle forme di sex work in cui manca il contatto sessuale diretto: non si può ri-definire un concetto – una relazione in questo caso – a partire dalle eccezioni minoritarie. Inoltre è proprio il termine sex work a creare confusione includendo forme di stimolazione sessuale dei clienti indirette, come i telefoni erotici, le webcam ecc., che sono forme meno invasive della persona rispetto alla prostituzione nel suo vero significato, quello di essere direttamente esposta a un contatto sessuale.

    Ogni regolamento presuppone sanzioni alla sua violazione, e quindi proibisce tutti gli atti non conformi. Lo scambio tra sesso (per il cliente) o accondiscendenza sessuale (per la prostituta) e denaro può essere vietato in tre modi: con sanzioni solo verso chi si prostituisce, come è stato nei secoli passati; oppure verso entrambe le parti, come in molti stati USA; oppure come nel neoabolizionismo, dove il cliente è fatto unico oggetto di sanzioni. Si tratta di politiche proibizioniste? No: vediamo perché in particolare in quest’ultimo caso. In realtà, anche se non consente il pagamento, la legge neoabolizionista non proibisce ciò che fa la prostituta, continua solo a dichiarare fuori dall’ambito commerciale l’abuso del corpo di chi si prostituisce. Se lo scambio avviene e il pagatore riesce a ottenere un accesso sessuale, la legge sanziona solo chi paga.

    Questo è precisamente l’intento del neoabolizionismo: non consentire un abuso sessuale. Da questo punto di vista si stabilisce sicuramente una proibizione, ma la categoria politica di proibizionismo è sempre stata usata in rapporto a sostanze psicoattive, non a comportamenti. Proibizionismo non è infatti una categoria che possiamo applicare alle relazioni umane e a ciò che gli esseri umani fanno. Accostare la proibizione di comportamenti che danneggiano chi vi prende parte rinunciando alla sovranità sul proprio corpo alle proibizioni del commercio di sostanze è svilente nei confronti di chi si prostituisce, assimilata a una cosa. Va invece considerata insieme alle proibizioni con cui è imparentata: le violenze sessuali, lo stalking, i cosiddetti maltrattamenti in famiglia, le lesioni personali. Ma nessuno taccia di proibizionismo le norme di contrasto alla violenza maschile contro le donne.

    La prostituzione è legale quando lo stato attraverso i regolamenti istituisce una nozione di prostituta e stabilisce i luoghi deputati alla sua attività, insieme alle modalità per l’uso dei corpi femminili.⁹ Nella legalità l’accordo tra prostituta e cliente può assumere o meno la forma di contratto. Nel primo caso abbiamo il regolamentarismo e nel secondo il neoregolamentarismo. Il passaggio di denaro nei bordelli legali è certo sempre stato richiesto e dovuto, trattandosi di un diritto maschile di accesso a pagamento ai corpi femminili per soddisfare un presunto bisogno. Ma per i liberali come Cesare Beccaria, la prostituzione va solo tollerata e non legalizzata, sempre che le due parti dello scambio «non danneggino terzi». Se è vero che in uno scambio prostituivo privato non ci sono terzi che vengono danneggiati, viene però danneggiata la persona che si prostituisce. I liberali (comprese le femministe liberali) pensano tuttora che siccome chi si prostituisce ha dato il suo consenso, per la sfera pubblica va tutto bene. È una visione completamente individualistica, è il motto di Margareth Thatcher («La società non esiste») applicato all’atto prostituivo: lo stato farà finta che non accada, o meglio deciderà di ignorare il passaggio di denaro, l’atto con cui si ottiene l’accondiscendenza al proprio sfogo sessuale.

    Il rifiuto di configurare per legge un mercato di atti prostitutivi è mantenuto anche nell’abolizionismo, che vuole abolire i regolamenti sulla prostituzione così come è stato abolito l’istituto legale della schiavitù. La sfera pubblica non deve avallare l’accesso sessuale a un’altra persona con il denaro. Sia nell’abolizionismo sia nel regolamentarismo chi spende a questo scopo, agli occhi dello stato, elargisce una liberalità che non può essere richiesta con fondamento legale, né in alcun caso restituita se chi ha pagato non è soddisfatto. In questi modelli – regolamentarismo, abolizionismo e neoabolizionismo – il presunto contratto di scambio tra denaro e acquiescenza sessuale rimane nullo, perché la sessualità non è un bene commerciabile.

    Invece il neoregolamentarismo fa esattamente questo: normalizza il mercato del sesso convalidandone il contratto. Introduce peraltro una terminologia ingannevole: il sesso non si compra né si vende, in quanto non è un oggetto staccabile dal corpo; il termine servizio sessuale edulcora l’intima partecipazione fisica richiesta a chi, più che fornire un servizio, generalmente subisce atti sessuali altrui.

    La seconda dimensione distingue le politiche che concentrano la loro azione su chi si prostituisce (reprimendola oppure stabilendo regole per l’esercizio della prostituzione, fortemente punitive nei suoi confronti con norme diciamo vecchio stile) da quelle che vogliono liberarla dalla condanna sociale. Nel dibattito dei secoli passati si dava per scontata l’immoralità degli atti di prostituzione, di solito attribuiti alla peccaminosità femminile, alla colpa di Eva. Il regolamentarismo e le proibizioni (unica alternativa nelle politiche del passato) esprimevano anche nelle leggi il disprezzo per le donne cadute che avevano perso l’onore (magari essendo state violentate) e non meritavano trattamenti paritari. Per esempio, prima della Legge Merlin le prostitute non potevano affacciarsi alle finestre dei bordelli dove erano costrette a risiedere, né uscire se non accompagnate, né votare, né sposarsi liberamente. Le librettate in strada erano oggetto di retate insieme con le clandestine. L’epoca dei regolamenti è stata anche l’epoca in cui lo stupro nel matrimonio non poteva esistere, rubricato come dovere coniugale. Se così poco veniva considerata la sessualità femminile persino nel matrimonio, è chiaro che il reato di stupro non poteva sussistere nemmeno nella prostituzione.

    Il punto di partenza dei regolamenti moderni è il 1802, anno in cui Napoleone li introdusse in Francia, estendendoli poi al resto dell’Europa che conquistò. In Italia furono adottati nel Piemonte di Cavour nel 1859, quindi estesi all’intera penisola unificata. Fondamentalmente i regolamenti danno la possibilità legale di acquistare per la propria soddisfazione l’uso del corpo di donne decadute: schedate, controllate, sottoposte a visite periodiche invasive per scoprire malattie veneree – visite cui dovevano sottoporsi tutte le donne sospettate dalla polizia di prostituirsi, non solo quelle schedate. Queste pratiche corrispondono a una visione della donna come inferiore, appendice dell’uomo e al suo servizio (la visione del codice civile napoleonico è la stessa di quella cattolica tradizionale), e del sesso come espressione di virilità, sfogo maschile senza comunicazione e senza desiderio da parte delle donne: in breve, l’ordine borghese ottocentesco. Scrive Alessandra Bocchetti (2018, p. 5): «Quando un buon padre di famiglia accompagnava al casino per la prima volta suo figlio quindicenne lo faceva diventare uomo, si diceva. Ma non era solo un fatto di tecnica amatoria. Quel padre insegnava in questo modo l’ordine del mondo, che un corpo di donna si può comprare, che esistono le donne per bene e quelle per male, che quelle per male esistevano per il piacere, e quelle per bene esistevano per fare e curare la famiglia. Insegnava che il piacere maschile era autorizzato, necessario e dovuto. Insegnava che le donne per bene non avevano mai voglia di scopare, che quella voglia ce l’avevano solo quelle per

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