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Una storia dell'orrore italiana
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Una storia dell'orrore italiana
E-book608 pagine8 ore

Una storia dell'orrore italiana

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Info su questo ebook

Una villa maledetta, un mistero sepolto nel passato, uno scrittore di romanzi horror cui viene commissionato un libro sui fatti di sangue che, negli anni, hanno funestato Miraniente, piccolo paese della provincia padana.

Un romanzo che si insinua sotto pelle grazie ad uno stile capace di veicolare il senso del mistero, del brivido e dell'inquietudine.

Prevedoni mixa magistralmente tutto il meglio dell'immaginario oscuro dell’ultimo quarantennio.

La Buffalora di sclaviana memoria (Dellamorte Dellamore) e la Derry clownesca partorita da Stephen King (IT) si sposano con il thriller di argentiana memoria (Profondo rosso) e il gotico padano del Pupi Avati di La casa dalle finestre che ridono; le atmosfere gore di Lucio Fulci (L’aldilà) vanno a braccetto con le derive sarcastiche dell’horror anni ’80 (Un lupo mannaro americano a Londra) e confluiscono nei toni del Carpenter di Il seme della follia.


Un capolavoro della letteratura horror che non ha eguali nel nostro panorama editoriale, che riesce a ricordarci il significato (forse smarrito) della parola paura.

LinguaItaliano
Data di uscita25 ago 2017
ISBN9788869343360
Una storia dell'orrore italiana
Autore

Paolo Prevedoni

Paolo Prevedoni nasce ad Alessandria, nel 1981. È un grande appassionato di cinema horror, di Stephen King, di Dylan Dog e dei Nirvana. Per Bibliotheka Edizioni ha pubblicato il fortunato esordio Una storia dell'orrore italiana, seguito da Le streghe e La notte delle anime perdute. Vive e lavora in una cittadina della provincia padana, fuma Chesterfield e non mangia carne.

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    Anteprima del libro

    Una storia dell'orrore italiana - Paolo Prevedoni

    Paolo Prevedoni

    Una storia dell’orrore italiana

    Horror

    © Bibliotheka Edizioni

    Via Val d’Aosta 18, 00141 Roma

    tel: +39 06.86390279

    info@bibliotheka.it

    www.bibliotheka.it

    I edizione, Luglio 2017

    Isbn 9788869343360

    È vietata la copia e la pubblicazione, totale o parziale, del materiale se non a fronte di esplicita autorizzazione scritta dell’editore e con citazione esplicita della fonte.

    Tutti i diritti sono riservati.

    Disegno di copertina: Paolo Niutta

    www.capselling.it

    Paolo Prevedoni

    Paolo Prevedoni nasce ad Alessandria nel 1981.

    È un fan estremo di Dylan Dog, di Stephen King e dei Nirvana, oltre che un consumatore compulsivo di film horror di serie B.

    Vive e lavora in una cittadina della provincia padana, fuma Chesterfield e non mangia carne.

    Una storia dell’orrore italiana è il suo romanzo d’esordio.

    A Sara

    La mia supernova di champagne.

    Nota dell’autore

    Questo romanzo è, naturalmente, un’opera di fantasia.

    Miraniente e Casteldelmoro non esistono, nonostante non sia troppo difficile trovare posti del genere, dalle mie parti. Per altri luoghi invece, come Valenza Po, mi sono preso la libertà di apportare tutte le modifiche che ritenevo necessarie per la buona riuscita del mio racconto. Spero che gli abitanti della provincia alessandrina non se la prendano troppo per i vari stravolgimenti che troveranno in queste pagine.

    I personaggi, e tutto ciò che fanno, sono frutto unicamente dell’immaginazione dell’autore. Ogni riferimento ad avvenimenti e persone della vita reale, esistenti o esistiti, è assolutamente casuale.

    Tranne che per l’uomo nero, ovviamente.

    Lui esiste per davvero, e se avete dei dubbi vuol dire che non avete mai guardato sotto il vostro letto, quando vi svegliate dopo un brutto sogno. Sta proprio lì.

    Che ci crediate o no.

    P.P.

    Viene la notte, la notte nera

    con ali di corvo vola leggera

    viene la notte, la notte scura

    e viene l’uomo che fa paura!

    Tiziano Sclavi

    Prologo

    Miraniente. Estate 1982

    Questa è una strana storia.

    A dir la verità neppure io, che in teoria ve la dovrei raccontare, ne conosco il principio. Di per certo so che a Miraniente, un piccolo paese della più triste provincia padana, qualcosa accadde nel luglio del 1982, e credo proprio che comincerò da lì. Sì, da Miraniente.

    Miraniente e i suoi quattrocento e ventinove abitanti, che si preparavano ad affrontare la più tipica delle estati padane, dove c’è la noia e ci sono le zanzare, le sagre di provincia e le partite a carte infinite, tra bestemmie e bicchieri di Barbera fatto in casa. L’Italia di Bearzot aveva vinto da pochi giorni il mondiale spagnolo, e questo era praticamente l’unico argomento di chiacchiera e bisticci per i poveri stronzi ancora sobri prima della calura pomeridiana.

    I pendolari facevano la spola dalle vicine città artigiane e le casalinghe che non avevano conigli o polli cui tirare il collo si spostavano di qualche chilometro, alla ricerca di in un posto che avesse qualche vetrina da guardare o almeno una cazzo di farmacia.

    Alla fine della giornata l’unico locale che serviva alcolici e vendeva sigarette, il bar di Betta, diventava il punto di ritrovo per i ragazzi più o meno giovani, che passavano la serata bevendo fino a stordirsi, guardando la televisione nella sala grande o giocando al calcio balilla. Una gran rottura di palle insomma, ma che volete che vi dica? La comunità di Miraniente, per la maggior parte, è composta da persone semplici che non aspettano altro che l’alba per andare a lavorare; chi nei campi, chi negli orti e chi nelle fabbriche della vicina Valenza, la città dell’oro, famosa in tutta Italia per la produzione dei suoi gioielli.

    Ora però, se diamo un’occhiata al tavolo in fondo alla sala grande del bar di Betta (il tavolino vicino alla porta del cesso, per capirci), vediamo che ci sono due tizi, e non sembrano proprio di quelle brave persone che si svegliano all’alba per andare a lavorare. Sono due giovanotti dall’aspetto trasandato, che parlano a voce alta e sembrano decisamente in quota alcolica.

    Uno è un biondino con la faccia butterata che si chiama Giorgio Gionaldi e che tutti (noi compresi, da questo momento) chiamano Giogiò, mentre l’altro è un ricciolone con addosso qualche chilo di troppo che di nome fa Mario Curtigiani, detto il Curti. A Miraniente tutti conoscono Giogiò e il Curti.

    Due gran teste di cazzo.

    «E se andassimo a farci un giro?» disse il Curti.

    Giogiò fece fuori quel che restava della sua birra e scosse la testa.

    «Non ci pensare, Curti. Non c’ho voglia e non c’ho soldi. E poi tu vuoi andare a Valenza da tuo cugino, e a me non mi va di passare la serata con quel gruppo di froci.»

    Il Curti fece una smorfia. Suo cugino era un bravo ragazzo, che non si faceva problemi ad offrire da bere e li faceva sempre fumare erba a gratis. E poi, cosa mica da poco, conosceva più figa lui di quanta loro potessero sperare di rimorchiarne. Adocchiò l’orologio e vide che erano quasi le undici. Sbuffò, alzando gli occhi al cielo.

    «Be’, io invece non ho intenzione di passare tutta la sera qui. Tanto vai tranquillo che Betta chiude, tra un po’.»

    La barista li osservava da un pezzo, sempre con un occhio alle grappe che serviva e l’altro al loro tavolo. Brutta troia tardona.

    A quell’ora dentro il bar erano rimasti solo un gruppo di vecchi che giocavano a scopa. Una volta andati via loro, Betta avrebbe chiesto neppur troppo cortesemente ai due ragazzi di levarsi dalle palle.

    Tutti a Miraniente conoscevano Giogiò e il Curti.

    Tossici navigati e aspiranti spacciatori di provincia, erano anche le menti brillanti che avevano ideato la Grande Rapina al benzinaio del paese. Che poi era il padre di Giogiò, tanto per andare sul sicuro. Avevano forzato la serranda durante la pausa pranzo ed erano scappati con poco meno di centomila lire in tasca. Il colpo perfetto, non fosse stato per un garzone che, passando di lì, li aveva visti e riconosciuti. Tempo un’ora e si erano ritrovati in caserma a Valenza. Vent’anni a cranio e nessuna speranza per un Nobel.

    «Sai cosa ti dico allora?» disse il Curti, accendendo una sigaretta. «Andiamo a fare un giro alla villa bianca.»

    La villa bianca. Tutti conoscevano la villa bianca.

    Alla fine Miraniente è proprio un piccolo paesino del cazzo dove tutti conoscono tutti e tutto.

    La vecchia casa dei Parise, quella era la villa bianca.

    Una tenuta dei primi dell’ottocento, abbandonata dai tempi della Seconda Guerra Mondiale, che torreggiava sul paese dalla cima di una collina. Ormai decadente, era stata la splendente dimora della famiglia Parise, una vera e propria istituzione a Miraniente. Probabilmente a causa delle falde acquifere sotterranee, che lasciavano traspirare un’umidità fuori dal comune, c’era sempre nebbia lassù, estate o inverno che fosse. Da qui il soprannome: la villa bianca.

    Si diceva ci fossero i fantasmi.

    Ve lo giuro! Fa ridere vero? Dovrebbe. Be’, a Miraniente non ride nessuno se si parla di villa Parise. Troppi brutti ricordi. Magari poi vi racconto qualcosa ma adesso torniamo da quei due disgraziati al bar di Betta.

    Loro a villa Parise ci vanno spesso, a fumare erba o a pungersi con una siringa. Di certo non credono ai fantasmi e, appurato che l’unico altro pericolo di cui si vocifera in giro sono i drogati e i drogati sono loro, non hanno nulla di cui preoccuparsi. L’ultima volta però era successo qualcosa. Un paio di settimane prima, Giogiò si era cagato sotto. Era voluto scappar via di corsa e senza dare spiegazioni.

    Il Curti all’inizio aveva lasciato perdere (anche perché con Giogiò conveniva sempre lasciar perdere se non si voleva rischiare che volassero sberle), ma il giorno dopo gli aveva chiesto spiegazioni. Giogiò aveva borbottato di aver visto un animale, un cane del cazzo, e lui odiava i cani. Era chiaramente una bugia, ma da quella sera non ci erano più tornati e alla fine non ne avevano nemmeno più parlato. E chissà come mai al Curti adesso gli era venuta in mente la villa bianca.

    Giogiò rise in maniera sguaiata.

    «Tu sei matto. La mia macchina perde già abbastanza pezzi senza che vado a spaccarla su per quella strada di merda. Tu sei fuori da paura.»

    Ecco. Da paura. Tre quarti del vocabolario Zanichelli per Giogiò venivano comodamente riassunti così. Stasera è da paura. Ci sballiamo da paura. E così via.

    «Non fare lo stronzo. Guarda che lo so che in macchina c’hai quella borsa frigo piena di lattine di birra», disse il Curti.

    «E a te che ti frega? Magari me le voglio bere da solo prima di andare a dormire.»

    «L’hai presa dall’officina vero?»

    Giogiò fece un gestaccio con la mano e rise di nuovo. Certo che l’aveva presa dall’officina. Suo padre ne teneva sempre una cassa in frigorifero, non se ne sarebbe neppure accorto.

    «Senti, io mi sono rotto le palle di star qui a far le ragnatele.» Il Curti mise su un’espressione offesa.

    Giogiò sbuffò e gli dedicò un rutto. Il suo amico sapeva essere un gran rompicoglioni, quando ci si metteva. La villa bianca. Non ci voleva andare là. L’ultima volta si era spaventato. Sì, aveva visto qualcosa, o meglio, si era immaginato di aver visto qualcosa. Che poi erano tutti e due talmente fumati che avrebbero anche potuto scambiare un albero secco per il Duomo, datemi retta.

    Da quella sera però, a Giogiò c’era un’idea che gli girava in testa. Continuava a pensarci, un chiodo fisso. E, giusto per stare tranquilli, era qualche giorno che teneva pure un’altra cosa in macchina oltre alla borsa frigo con la birra.

    «Sai che ti dico? Sai cosa vorrei fare se andassimo alla villa bianca?» Giogiò si sporse verso il Curti, mordicchiandosi l’unghia del pollice.

    «Vorrei bruciarla da paura.»

    E voleva farlo davvero, per la miseria.

    La Fiat Centoventisei di Giogiò non aveva un gran bagagliaio, ma dentro erano stipate quattro taniche di gasolio. Oltre alla borsa frigo con la birra, si capisce. Il Curti spalancò la bocca per la sorpresa.

    «Cazzo. Giogiò, a me mi pare proprio una stronzata.»

    Giogiò chiuse il bagagliaio guardandosi intorno sospettoso. Betta li osservava da dentro il bar. Maledetta tardona. Sulla strada ovviamente non c’era un’anima. La serata era torrida e piena di zanzare inferocite.

    «Facciamo un fuoco da paura, dammi retta. Sai che casino viene fuori? Pompieri e polizia, sirene che suonano, tutti che urlano incazzati e noi lì, fatti da paura a guardare tutto ’sto casino!»

    Il Curti fece un ghigno. Era una puttanata di sicuro, ma sembrava anche una figata, altroché. Il problema era sempre la storia del benzinaio. Eh sì, lui se lo ricordava bene com’era andata a finire quella volta, e non c’aveva mica voglia di trovarsi di nuovo i carabinieri in casa che frugavano nei cassetti delle mutande cercando dell’eroina. Sua madre aveva pianto per due mesi. Non che gliene fosse fregato più di tanto di quello a dire il vero, ma se non fosse stato per il papà di Giogiò che aveva chiamato quel suo amico avvocato, avrebbero di sicuro passato qualche giorno in gabbia. E lui lo sapeva cosa ci facevano lì dentro, ai ragazzi più giovani. Rigare dritto per un po’, questa era la nuova storia. E bruciare una villa non assomigliava a rigare dritto. Proprio per nulla.

    Betta continuava a osservarli dalla vetrata del bar. Giogiò le mostrò il dito medio, montò in macchina e accese il motore.

    «Be’, tu fai quello che ti pare, io vado. Da paura, cazzo!»

    Il Curti sbuffò e salì in macchina.

    Miraniente era una piccola frazione del comune di Valenza.

    Era attraversata da un’unica via asfaltata, strada Fontana, da cui si diramavano diversi sentieri sterrati che portavano alle cascine e ai campi delle coltivazioni. C’era una minuscola piazza centrale, piazza Don Franco, proprio di fronte alla parrocchia. La chiesetta era piuttosto antica, dei primi dell’ottocento, ed era probabilmente l’unica attrattiva turistica del paese, anche se non ci andava mai nessuno a visitarla. Era stata fatta costruire dal marchese Montini Florio di Pavia, ed era dedicata al culto di sant’Anna. Miraniente era stata un antico feudo dei Montini, e il marchese vi fece costruire anche un palazzo, proprio di fianco alla chiesa, che fu per anni la dimora estiva della famiglia. Un imprenditore di Valenza lo acquistò, negli anni trenta del novecento, e lo trasformò in una falegnameria che fallì dopo la guerra. Intorno alla piazza c’erano pure un negozietto di alimentari (che in realtà vendeva un po’ di tutto), il laboratorio di un robivecchi e un giornalaio. Accomodatevi signori, e ammirate la provincia padana.

    Circondata da campi di cereali e frumento e da corsi d’acqua, tutto ciò di cui Miraniente aveva bisogno era la misericordia di Dio. Che a volte, a dirla tutta, scarseggiava. Il paese portava ancora le cicatrici di un’alluvione che aveva colpito il borgo nel 1975, da tutti ricordato come l’anno della grande acqua.

    I frequenti e abbondanti acquazzoni sono parte integrante dell’economia locale, ma quell’autunno una pioggia incessante era caduta per settimane, culminando in una tempesta che aveva fatto esondare il Tanaro, un affluente del fiume Po. Gli argini non avevano retto e il fiume aveva sommerso Miraniente sotto due metri di acqua e fango, uccidendo cinque persone. Su molte case era ancora visibile il segno di dove l’acqua aveva lambito le mura, una specie di triste promemoria della catastrofe. L’anno della grande acqua aveva insegnato a tutti gli abitanti del borgo a temere la pioggia e a guardare spesso il cielo. Proprio quello che stava facendo il Curti, in quel preciso momento. Quella sera però, di nuvole, proprio non ce n’erano.

    Il Curti bestemmiò tentando di abbassare il finestrino bloccato della Centoventisei che sfrecciava (sessanta all’ora scarsi) su strada Fontana per immettersi, bruciando uno stop, sulla provinciale per Valenza. Il caldo era soffocante. Un successo di Celentano gracchiava dal mangiacassette ad un volume troppo alto. Giogiò era parecchio su di giri.

    «Cazzo, l’hai visto l’ultimo film che ha fatto Celentano? Da paura cazzo, da paura. Mi sono pisciato dal ridere dall’inizio alla fine. Lui fa tipo un uomo scimmia che lo prendono dalla giungla e lo portano in città e fa un sacco di casini(1).»

    Il Curti scosse la testa e si accese una Stop senza filtro.

    «Celentano mi fa cagare.»

    «Scherzi? Ma i film dici?»

    «Tutto, anche le musicassette.»

    «Tu non capisci un cazzo Curti. Vai al cinema a vedere cosa? I porno film? Dovresti farle dal vero quelle cose e andare al cine a vederti Celentano.»

    «Io non vado a vedere i porno film.»

    Giogiò scoppiò a ridere.

    «Se dici che non vai vuol dire che vai! Secondo me c’hai l’abbonamento, al Cristallo.»

    Il Cristallo era un cinema di Valenza che proiettava solo film pornografici. Il Curti ci era stato qualche volta, ma non gli andava di farlo sapere in giro.

    «Ti ho detto che non ci vado. E comunque mio zio Celentano l’ha conosciuto, ad una fiera di Milano. Ha detto che è un coglione.»

    «Ma non dire cazzate. Tuo zio è un coglione. Tu sei un coglione.»

    Il Curti guardò fuori dal finestrino, sbuffando il fumo della sigaretta. Non era vero che suo zio aveva conosciuto Celentano, se l’era inventato sul momento.

    La Centoventisei rallentò in prossimità di una stradina praticamente impossibile da notare per chi non fosse stato al corrente della sua esistenza.

    Era una sterrata buia e piena di buche, che saliva su per la collina. Quando pioveva diventava un pantano impraticabile, ma ormai non veniva giù una goccia da settimane e il terreno era talmente asciutto che c’era il rischio di spaccare la macchina. Giogiò lo sapeva bene, quindi diminuì la velocità.

    «Facciamo un fuoco da paura, dammi retta.»

    Il Curti cominciava ad essere un po’ nervoso.

    Si domandò se bruciare una villa abbandonata potesse essere un reato. Cazzo, probabilmente sì che lo era! Certamente era più grave che andare a gettare i petardi dalle suore in campagna. O no? Be’, gettare i petardi o spaccare i citofoni forse potevano essere considerate delle bravate. Loro quello lo facevano spesso, per divertirsi. Avevano ribaltato i bidoni della spazzatura di mezza provincia e ce n’era uno che il comune aveva fatto addirittura inchiodare a terra con dei grossi bulloni. Chissà come facevano ora i camion della nettezza urbana a svuotarlo.

    L’auto accostò in uno spiazzo. Due possenti pilastri di pietra, con due angeli scolpiti sulla cima, delimitavano l’ingresso della proprietà dei Parise. Da quel punto avrebbero dovuto proseguire a piedi, la Centoventisei non ce l’avrebbe mai fatta ad arrampicarsi su per quella salita.

    Scesero dalla macchina, Giogiò aprì il bagagliaio e prese due lattine di birra dalla borsa frigo. Ne lanciò una al Curti, che gli sembrava già troppo agitato. Lui lo sapeva a cosa stava pensando, quel testa di cazzo. Alla storia che li avevano beccati a rubare. Il Curti si cagava sotto ancora adesso, al solo pensiero dei marocchini che avrebbero potuto rompergli il culo in galera.

    «Ehi socio, qualcosa non va? Ti porto indietro?» Sul volto di Giogiò comparve un sorrisetto maligno.

    Il Curti gli lanciò un’occhiataccia. No che non si sarebbe tirato indietro. Si avvicinò al bagagliaio della Centoventisei e scaricò due taniche di gasolio.

    «Datti una mossa, brutto coglione.»

    Giogiò rise forte, dandogli una pacca sulla spalla.

    Finirono le birre con poche golate. Poi presero due taniche a testa e oltrepassarono le colonne degli angeli, diretti a passo spedito verso villa Parise.

    In pochi minuti furono in cima.

    La villa bianca era imponente. E spaventosa.

    L’intera costruzione era nascosta dalla nebbia, una foschia sottile che la avvolgeva come un sudario. Stava lì, immobile su quella collina come una vedetta di controllo, gli occhi puntati su Miraniente, che poi era piccola e schifosa anche dall’alto. Intorno c’erano solo campi e, più in lontananza, le luci di Valenza, che stava a sei o sette chilometri. Il cortile era infestato dalle erbacce. Come al solito, c’era un silenzio assoluto; niente animali, nemmeno un grillo.

    I due ragazzi si sedettero in terra lasciando cadere le taniche, ansimando esausti per la salita. Giogiò tirò fuori dalle mutande una bustina con dell’hashish e cominciò a preparare una canna.

    «Guardala per l’ultima volta questa figlia di puttana, che tra un po’ le facciamo una festa da paura.»

    Il Curti si accese un’altra Stop e osservò la casa.

    Lui non ci capiva un cazzo di architettura, ma quando faceva le elementari la loro maestra aveva portato l’intera classe a vedere la villa bianca. Aveva detto che era un esempio di arte ottocentesca, ed era stata una fortuna per il patrimonio artistico del paese che fosse uscita indenne dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. Be’, buona fortuna adesso. Poteva essere pure scampata alle bombe, ma non l’avrebbe fatta franca con loro. E poi a Miraniente tutti la odiavano, quella villa del cazzo.

    Era enorme, divisa in due edifici distinti: il palazzo padronale e il maniero dei braccianti, con una chiesetta sconsacrata che era stata la cappella privata dei Parise, e un fienile di cui non rimaneva ormai più nulla.

    Il palazzo della famiglia aveva due torri, una a nord e una a sud. Edera e muschio avevano conquistato le mura già da un pezzo e quello che era stato il meraviglioso parco, su cui la torre nord si affacciava, ora non era altro che una specie di giungla.

    La villa dei mezzadri era quella messa peggio. Il pavimento era sfondato e ad entrarci rischiavi di finire direttamente ai piani inferiori, che erano completamente allagati. La casa dei Parise invece era ancora intatta, ma era stata saccheggiata durante le guerre. Giogiò e il Curti comunque ci erano entrati una volta sola; c’erano degli affreschi sul soffitto che rappresentavano l’apocalisse. Quel posto metteva i brividi.

    Giogiò passò la canna al Curti e si sfilò una torcia elettrica dalla cintura. Rise in maniera isterica.

    «Cazzo! Ci facciamo la festa adesso! Cazzo!»

    Se volevano che il fuoco attecchisse avrebbero dovuto cominciare dal portico dell’edificio padronale. C’era tanta sterpaglia secca lì, e i rovi avrebbero bruciato velocemente. Con il caldo che faceva quella sera, l’incendio si sarebbe propagato in un attimo.

    Il Curti era fradicio di sudore. Raccolse una tanica e attraversò il cortile. Il terreno era bagnato e molliccio. I canali sotterranei erano la vera maledizione di quella villa; la terra trasudava acqua putrida, e lasciava traspirare un odore disgustoso che gli pizzicava le narici. Sembrava di camminare su della carne andata a male.

    Ogni volta che il Curti sentiva quella puzza gli tornava in mente quando, dopo la grande acqua, era andato alla cascina di suo nonno.

    La casa dei suoi non era stata danneggiata perché loro stavano al secondo piano, ma dalla finestra della sua cameretta lui l’acqua l’aveva vista arrivare. L’aveva sentita arrivare. Il fiume di fango aveva colpito il paese come una palla di cannone.

    Era durata cinque minuti, non di più, poi l’acqua era defluita lentamente. Il giorno dopo c’era il sole, e suo padre l’aveva portato alla cascina del nonno, a dare una mano a ripulire il disastro. La casa era piena di fango, i muri, la cucina, il letto, i mobili. Ovunque. I vestiti negli armadi sembravano fatti d’argilla. Ma il peggio lo aveva visto nella stalla. Suo nonno aveva avuto la prontezza di correre ad aprire il portone per far scappare i cavalli da tiro, ma le gabbie con i conigli erano rimaste lì, chiuse.

    Il Curti era solo un bambino all’epoca, non aveva ancora compiuto dieci anni, e l’immagine di quegli animali morti proprio non era riuscito a dimenticarla. Il pelo incrostato di fango, i corpicini ammassati contro le reti metalliche delle gabbie, intrappolati e senza scampo. Ricordava ancora l’odore, che gli aveva fatto lacrimare gli occhi quando era entrato nella stalla. Ed era proprio uguale a quello che sentiva ora.

    Si fermò dietro la torre nord. I rovi che arrampicavano lì sembravano abbastanza secchi, ma lui non aveva la torcia elettrica e la luna quella notte non era di grande aiuto.

    «Giogiò, vieni qui dietro!» chiamò.

    Il suo amico arrivò di corsa, portando la torcia e una risata stridula.

    «Porca puttana Curti! Non ci basta il gasolio secondo me!»

    «Sì che basta. Però dobbiamo cominciare da qui che i rovi sono belli secchi. Vedrai il fuoco come si arrampica poi sul muro. Se prende il legno è fatta, tempo cinque minuti e se la mangia tutta. Porca puttana, che caldo fa?»

    «Ok allora. Tu comincia a vuotare quella tanica io vado a…»

    Un tonfo. Molto forte.

    Dall’altro lato, verso l’entrata della casa, il rumore di una porta sbattuta con violenza.

    Giogiò e il Curti si paralizzarono, tendendo le orecchie.

    «C’è qualcuno cazzo», disse il Curti, sottovoce.

    Quella troia di Betta. Aveva chiamato i carabinieri, sicuro. Ma no, come faceva a sapere che erano lì e cosa volevano fare? Qualche ragazzino? Lì ci venivano solo per drogarsi o scopare, ma mai nessuno si avventurava sin nel cortile. Forse qualcuno aveva visto la Centoventisei parcheggiata alle colonne degli angeli ed era venuto su. Magari una pattuglia dei carabinieri, di ronda a Miraniente.

    Si spostarono alla facciata anteriore. Giogiò puntava la torcia dappertutto.

    «Non c’è nessuno.»

    Il silenzio era irreale, non si muoveva una foglia. Non c’era davvero nessuno.

    Il Curti cominciò ad innervosirsi sul serio. Aveva sentito distintamente quel colpo, ma il buio copriva ogni cosa. Una pattuglia dei carabinieri o chi per loro si sarebbe fatta riconoscere già da un pezzo.

    «Torniamo dove abbiamo lasciato le taniche», disse Giogiò, «e ti giuro che se c’è qualche coglione che…»

    Si bloccò all’improvviso. La torcia puntava dritta verso la vecchia cappella.

    «Giogiò che cazzo…»

    «Shhh!»

    «Ma che cosa hai…»

    «Ho detto zitto! È di nuovo lui!»

    Lui? Lui chi? Il Curti non capiva e stava cominciando ad avere paura. Infilò la mano nella tasca dei jeans e tirò fuori un coltello a serramanico. La lama fuoriuscì con uno scatto.

    «Giogiò che cazzo succede?!»

    Lo prese per un braccio, ma il suo amico si irrigidì, immobile.

    «Adesso ci penso io a quel figlio di puttana. C’era pure l’altra volta, quello stronzo.»

    Anche Giogiò tirò fuori un coltello dalla cintura e il Curti vide che gli tremava la mano. Strizzò gli occhi nel punto illuminato dalla torcia, ma non vide nulla.

    «Chi? Non c’è nessuno Giogiò! Di chi stai parlando?»

    Il suo amico si voltò verso di lui, pallido in volto.

    «Quel tizio!» gridò. «Quel tizio con la maschera!»

    ***

    Quando il telefono squillò, Nicola Vanni pensò subito a suo padre.

    Si fece coraggio e rispose.

    «Carabinieri di Valenza.»

    «Nicola? Ciao gioia, sono Betta.»

    Nicola chiuse gli occhi e fece un lungo sospiro. Per un attimo aveva avuto la certezza che si trattasse dell’ospedale.

    «Ciao Elisabetta, è successo qualcosa?»

    Una pausa, poi:

    «Io… uh… non lo so, ma li ho sentiti parlare di un fuoco ed erano un po’ ciucchi… sai…»

    «Di chi stai parlando?»

    «Meglio fare una telefonata per niente no? Mi son detta… che se poi invece combinano qualche casino… eh, non si può mai sapere.»

    «Ma chi? Di chi parli?»

    «Giogiò e Mario Curtigiani, quei due disgraziati.»

    Pronti via. Di solito, in quel periodo, la chiamata veniva da Valenza. Ai primi di giugno arrivavano i giostrai a piantare le tende nella piazza principale della città e con i loro divertimenti itineranti cominciavano anche i furti negli appartamenti, gli zingari che rubavano al supermercato e le risse. I ragazzini poi, amavano picchiarsi per le ragazze davanti al pe’ ntal cù (il calcinculo, la giostra coi seggiolini volanti, insomma). E comunque, se i teppisti alle giostre non se le suonavano, la stronzata della serata la combinava qualcun altro. Giogiò e il Curti, per esempio. A parte la storia del benzinaio di Miraniente, erano entrambi vecchie conoscenze dei carabinieri sin da quando erano ragazzini. Droga, perlopiù.

    «Ok Betta, spiegami bene. Cosa dicevano?»

    «Io… non lo so Nicola… Però erano ubriachi e parlavano di un fuoco. Di fare un fuoco. E siccome sono andati via in macchina e adesso io sto chiudendo il bar non vorrei trovarmi qualche sorpresa domani mattina. Sai… non si sa mai… meglio una telefonata per niente no? Mi son detta. Magari voi potete mandare qualcuno a fare un giro qui intorno.»

    Betta e Nicola si conoscevano da una vita. Lei aveva insegnato per anni catechismo nella parrocchia di Santo Antonio a Valenza, la chiesa che lui frequentava da bambino. Nicola le aveva dato una mano a ripulire il bar dopo la grande acqua. Sapeva che Betta non si spaventava per nulla.

    «Va bene, arriviamo tra dieci minuti.»

    Mise giù la cornetta e prese il berretto dell’uniforme, alzandosi dalla scrivania.

    «Fabio, Maurizio. Venite qui.»

    Due appuntati comparvero alla porta del suo ufficio.

    «Mauri tu esci con me, Fabio tu invece rimani qui e, mi raccomando, se mi cercano dall’ospedale chiami il bar di Betta a Miraniente ok? Sai qual è vero?»

    «Sì, lo conosco. Ma cos’è successo?»

    «Non lo so. Magari nulla.»

    Suo padre si chiamava Filippo. Al diavolo, perché ne parlava al passato? Mica era morto. Ci era solo andato parecchio vicino.

    Nicola non riusciva a smettere di pensarci. Un infarto, sapete com’è, cose che succedono. Oddio, a dire il vero di solito succedono agli altri, ma alle volte forse Dio sente il bisogno di ricordarci chi è che porta i pantaloni, perché ce ne scordiamo troppo facilmente. Quindi magari succede così: papà Filippo è in giro in bicicletta (perché nonostante i suoi settantasei anni ci tiene a rimanere in forma) ed è appena andato a pagare il gas alle poste (ladri bastardi! il governo eh, no le poste) e di colpo sbarra gli occhi e blocca i pedali, scende dalla sella, ferma un passante e gli dice: aiuto. Poi giù per terra, come un sacco di merda.

    Difficile da accettare, soprattutto per Nicola, che in Dio ci credeva ed era sempre stato convinto che fosse incapace di fare del male alle persone buone. E papà Filippo era una persona molto buona. Il tenore dei suoi pensieri era quello adesso, da quando suo padre era in una camera d’ospedale a Valenza, intubato e incosciente. I medici non si erano sbilanciati. L’unica cosa da fare, al momento, era anche la più difficile. Aspettare.

    «Santo Dio, ma che caldo fa stasera?» disse Maurizio. «Il clima sta impazzendo. Sta andando tutto a puttane.»

    Nicola sorrise. Maurizio era un sardo testa di cazzo che si lamentava per qualsiasi cosa.

    «Dicono che sia l’effetto serra.»

    Maurizio scrollò le spalle.

    «Io non lo so se è l’effetto serra, ma se continuiamo così tra un po’ dovremo andare in giro con le tute d’amianto e le maschere antigas. Sta andando tutto a puttane. Oh, a proposito, hai sentito che esce il terzo film di Guerre Stellari(2)?»

    Nicola annuì, ma all’improvviso stava di nuovo pensando a suo padre.

    Ce l’aveva proprio di fronte agli occhi, immobile nel letto di una schifosa stanza d’ospedale dalle pareti ingiallite e con l’intonaco scrostato. Un crocefisso storto appeso sopra il suo capezzale e una vecchia infermiera a vegliarlo, che magari leggeva una di quelle riviste di pettegolezzi.

    Si domandò se lo avrebbe mai rivisto in piedi o sulla sua bicicletta, se avrebbero parlato ancora di calcio, se avrebbe ancora sentito la sua risata rumorosa. Porca puttana, si domandò se sarebbe riuscito ancora a pisciare da solo.

    Oltrepassarono un mazzo di fiori, accuratamente adagiato su una piccola lapide in marmo che spuntava oltre il fosso, sul ciglio della strada. Nicola si fece il segno della croce. Conosceva il ragazzo a cui era dedicata quella lapide, erano andati a scuola insieme. Una volta se le erano pure date di santa ragione nel cortile dell’oratorio. Si era ucciso in motocicletta, più o meno in quel punto della provinciale; la madre veniva spesso a mettere dei fiori freschi sulla lapide, e poi tornava al cimitero a piangerlo sulla tomba.

    Quella sera ogni cosa gli ricordava la morte.

    Che schifo la morte. O forse era la vita che faceva schifo e la morte solo la grande liberazione. No, ancora non lo aveva capito.

    Poi scorse il bagliore. Una luce che ardeva in lontananza e si muoveva come una danzatrice d’oriente nella notte.

    «Merda. Mauri guarda là.»

    Il suo collega strizzò gli occhi.

    «Cos’è?»

    Nicola lo aveva capito all’istante. Parlavano di un fuoco, aveva detto Betta. Di fare un fuoco.

    «Quello è un cazzo di incendio.» Nicola accelerò. «Alla villa bianca.»

    Raggiunsero la sterrata e dopo pochi minuti arrivarono alle colonne degli angeli, dove iniziava la proprietà dei Parise. Un’utilitaria scassata era parcheggiata sul lato del sentiero. Sia Nicola che Maurizio la riconobbero subito, l’avevano fermata decine di volte durante i loro posti di blocco sulla provinciale.

    Era la macchina di Giogiò.

    «Mauri chiama in caserma e digli di mandare qualcun altro a darci una mano, non si sa mai. E digli di avvertire i vigili del fuoco.»

    Nicola si avvicinò alla Centoventisei e sbirciò dentro con la torcia elettrica. C’era una borsa frigo con delle birre e c’era puzza di benzina. Quei due balordi del cazzo. Betta aveva ragione. Adesso quei due tossici si erano pure messi in testa di fare i piromani?

    «Diamoci una mossa Mauri.»

    Il suo collega si staccò dalla radio. I pompieri sarebbero arrivati da lì a un quarto d’ora, insieme ad un’altra pattuglia di ronda. Forse era il caso di aspettarli. No, meglio controllare subito cosa stava succedendo. Se c’era un incendio bisognava stabilire immediatamente quanto grave fosse la situazione. Forse avrebbero potuto fare qualcosa. Si incamminarono svelti su per la salita.

    La vegetazione era opprimente. Una boscaglia selvaggia si espandeva anche sullo stretto passaggio che portava alla villa. Gramigna, erba selvatica difficile da estirpare. L’unica cosa che cresceva su quella collina ormai, nutrita dalle falde acquifere sotterranee. Nicola fece un cenno al suo collega e aprì la fondina, impugnando la rivoltella d’ordinanza. Era la seconda volta che la estraeva da quando era entrato a far parte dei carabinieri, e non aveva mai fatto fuoco.

    «Odio questo posto», mormorò Mauri.

    Nicola lo zittì con un cenno. Anche lui odiava quel posto.

    Tutti odiavano villa Parise.

    Quando era bambino le storie che giravano sulla casa non lo facevano dormire di notte. La prima volta che c’era stato (più o meno a dieci anni, e comunque non si era avventurato oltre le colonne di pietra) aveva trovato un gatto con la testa mozzata.

    Un posto da film del terrore, dove si diceva che ci fossero i fantasmi. La villa bianca però era davvero pericolosa, e gli spettri non c’entravano nulla. Era diroccata, e anche solo camminarci intorno poteva diventare rischioso. Il rottame sparso in cortile era un assortito miscuglio di ferri arrugginiti e cocci di pietra; l’ideale per squarciarsi una gamba e prendersi il tetano. Non era certo un posto dove mandare a giocare i bambini.

    Nicola arrivò in vista della villa.

    Eccola là, affascinante e minacciosa allo stesso tempo. Ora poteva distinguere chiaramente la luce che aveva notato dalla strada e sentì forte anche l’odore del fumo. Era un cazzo di incendio quello, dietro la torre nord. Quei due imbecilli avevano dato fuoco alla casa.

    «Carabinieri di Valenza! Fatevi vedere!» gridò, accelerando il passo.

    Mauri lo raggiunse, la pistola in pugno.

    «Carabinieri! Siamo armati!»

    Si mossero rapidamente. Il fuoco dietro la torre creava un’atmosfera spettrale. Il cortile sembrava un mare agitato, i riflessi di luce rossastra si esibivano in una danza vorticosa. Per un istante, un fugace ma lucido pensiero attraversò la mente di Nicola: un pensiero di felicità. Per un attimo fu contento che quel posto stesse bruciando, come se fosse, da sempre, destinato alle fiamme. E avrebbe voluto fermarsi e restare semplicemente a guardare. Che si fotta questo posto di merda! Che bruci pure!

    «Carabinieri! Venite fuori!» gridò, invece.

    Nessuna risposta. Nicola puntava la torcia, ma più si avvicinava alla torre nord meno gli serviva. Sembrava giorno fatto, le fiamme stavano divorando anche il buio. Il caldo era insopportabile. E poi l’odore; un misto di putrido e fumo e qualcosa di disgustoso che Nicola non riusciva a riconoscere.

    Corse verso la torre, con l’adrenalina che gli faceva pulsare il cervello. Ma c’era qualcosa di sbagliato in quel momento, qualcosa che non riusciva a riconoscere e che gli stava facendo rizzare i peli sulle braccia.

    Girò l’angolo della casa e il calore lo investì violentemente.

    Si bloccò di colpo, smettendo di respirare. Dietro di lui sentì Mauri cacciare un grido stridulo.

    Nicola rimase paralizzato a guardare la scena, gli occhi sbarrati.

    Non era la casa che stava andando a fuoco.

    «Diosanto», disse, con un filo di voce. «Oh, Diosanto.»

    Non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse passato. Potevano essere pure dei giorni, per quel che ne sapeva lui. Era seduto sul retro di un’autoambulanza dell’Avis, il primo soccorso organizzato dai volontari di Valenza. Fradicio di sudore, probabilmente sotto shock e con un unico desiderio: andarsene da lì.

    Ricordava le sirene, le due jeep dei carabinieri e il maresciallo Fochi di Valenza; poi i pompieri che erano venuti su da quella cazzo di strada sterrata con il loro camion dei supereroi. Non avrebbe scommesso mille lire che fosse possibile salire da quel sentiero con un bestione del genere ma, evidentemente, quei tizi sapevano il loro mestiere. E il maresciallo Fochi doveva fare il suo.

    Non era necessario fare rapporto immediatamente, gli aveva detto, avrebbe potuto tornare in caserma e lasciare che loro mettessero a posto tutto quel casino. Si sarebbe sdraiato su un divano per qualche ora e poi con calma avrebbe raccontato tutto. Con calma, ma sì. Ma lui aveva risposto che no, se la sentiva. Sicuro? Sicuro, davvero.

    Aveva capito all’istante che non era la torre della villa che stava andando a fuoco, ma all’inizio gli era sembrato un albero. Poi aveva realizzato che era una croce. Sì, una croce che bruciava. Fiamme alte e guizzanti. Le fiamme guizzavano. Come ci fosse finita lì, la croce, non era dato di sapere, ma di certo doveva essere stata un’impresa trascinarla sin lassù. Era alta almeno due metri e mezzo. Caricata sul tettuccio di una macchina, come una bicicletta o un paio di sci da portare in vacanza? Forse. O magari con un furgone. Più semplice. Nicola aveva annuito e poi aveva tossito un po’. Aveva la gola arsa e gli occhi che prudevano. La croce era in fiamme, un mostro incandescente, e la luce lo aveva accecato quando se l’era trovata davanti. Oh niente di che, anche il dottore diceva che era tutta una reazione normale, ma gli sembrava che minuscoli puntini bianchi danzassero sulle sue pupille. Aveva capito che alla croce era inchiodato qualcosa. Qualcuno. Se lo aveva riconosciuto? Nicola aveva tossito ancora un po’, poi si era messo il volto tra le mani ed era scoppiato a piangere. Gli avevano portato dell’acqua, aveva bevuto con le mani tremanti, si era calmato. Diosanto. Quando aveva visto il Giorgio Gionaldi, seduto a pochi metri da quella scena raccapricciante, aveva dato per scontato che l’uomo sulla croce fosse Mario Curtigiani. Sì esatto, perché facevano sempre coppia fissa quei due, e li avevano visti insieme al bar di Betta, a Miraniente, anche quella sera. Era stata proprio lei, la proprietaria, a chiamare i carabinieri poche ore prima. Sì, esatto, però non aveva idea, cazzo, aveva raccontato solo che erano un po’ su di giri e aveva telefonato giusto per chiedere di dare una controllata, che non facessero cazzate. Non si sa mai, meglio una telefonata per niente, si era detta. Sì, loro stavano andando proprio al bar di Betta quando avevano visto il bagliore dalla strada. E dov’era il Gionaldi? Giogiò per gli amici. Anzi, Giogiò per tutti. Be’, se ne stava seduto davanti a quel macello, a gambe incrociate, e rideva come un matto. Sì, proprio lì di fronte, a pochi metri. Fissava il suo amico che bruciava e ripeteva in continuazione la stessa frase. Da paura ragazzi, da paura. Era chiaramente uscito di testa, gli occhi sbarrati, una chiazza di urina che gli macchiava i blue jeans. Probabilmente non aveva idea di quello che stava succedendo. Quando lui e Maurizio lo avevano avvicinato si era fatto ammanettare senza opporre resistenza e poi lo avevano portato lontano dal fuoco, perché era davvero troppo vicino. Da paura diceva. E basta. La pelle era diventata viola e aveva delle vesciche sulle braccia. Sì, era davvero troppo vicino al fuoco, quel matto bastardo. Non era combinato per nulla bene. E dopo? Dopo avevano cercato di avvicinarsi alla croce, ma era stata più una cosa istintiva. Per Mario Curtigiani non c’era nulla da fare, e probabilmente già da un pezzo. Lui era rimasto a guardare, come ipnotizzato, e aveva pregato che quel povero bastardo fosse già morto prima di essere appeso su quell’affare. Poi aveva sentito Mauri cominciare a dare fuori con Giogiò. Gridava, sembrava impazzito, aveva cominciato a prenderlo a schiaffi e a urlargli contro. E quel disgraziato che rideva. Completamente andato, lo giuro. Rideva come se gli facessero il solletico sotto i piedi. Mauri era andato in bestia, cazzo, voleva ammazzarlo. Sì, lo aveva calmato, ma comunque era comprensibile; voglio dire, era una situazione ingestibile no? Diosanto, avevano risposto a una chiamata sospettando atti vandalici, erano preparati a due cazzoni ubriachi o a una rissa da bar ma, voglio dire, avevano messo in croce un ragazzo e gli avevano dato fuoco. Diosanto. Se pensava che il Giogiò avesse agito da solo? Lui non pensava più niente, questo era tutto quello che aveva visto con i suoi occhi e basta.

    Lui non pensava più un cazzo di niente.

    Il maresciallo Fochi, un omone grande e grosso con due folti baffi grigi, gli ficcò una Marlboro tra le labbra e gliela accese. Nicola aspirò avidamente il dolce veleno.

    «Sei stato bravo Vanni, hai mantenuto sangue freddo», disse il maresciallo.

    Non era vero, si era praticamente pisciato nei pantaloni, ma Nicola apprezzò comunque la cortesia.

    «Grazie, maresciallo. È proprio un bel casino questo.»

    Sì, era un casino davvero.

    Nicola si passò la mano tra i capelli. Si sentiva addosso la puzza di carne carbonizzata ed era sicuro che se la sarebbe portata appresso per molto tempo, così come la nausea che in quel momento lo tormentava. Voleva fare una doccia.

    Chiese a Fochi se poteva essere riaccompagnato in caserma e scese dall’ambulanza. Finì la sigaretta con calma.

    Maurizio era a qualche metro da lui, appoggiato al cofano di una delle jeep su cui erano arrivati i rinforzi, e raccontava la sua versione ad un collega, per l’ennesima volta.

    Nicola volse lo sguardo alla torre nord di villa Parise. La croce era ancora lì, il fuoco era stato spento. I pompieri ci giravano attorno, avvolti da un denso fumo scuro che pian piano si stava disperdendo nell’aria. La polizia scientifica sarebbe arrivata dalla provincia e avrebbe fatto tutti i rilievi del caso. Il corpo del Curti era ancora appeso alle travi di legno, uno scheletro nero e ghignante.

    Nicola si voltò. E lo vide.

    Fu solo per un istante, ma fu un’immagine nitida. Oltre la villa, nella boscaglia selvaggia. Ghermito dalle tenebre, c’era un uomo. Alto, elegante, con indosso un completo scuro, un abito da sera. Sul volto portava una maschera.

    Fu soltanto il tempo di un respiro poi, così come era apparsa, quella visione scomparve.

    Nicola si fregò le mani sugli occhi, rabbrividendo. Si guardò intorno, spaesato. Santo cielo, adesso aveva anche le allucinazioni? Una paura ancestrale lo avvolse. Voleva andare a casa, voleva tornare a casa ora, cazzo.

    «Vanni!» La voce era quella del maresciallo Fochi. «Nicola! vieni qui!»

    Mentre si avvicinava al suo superiore si sentì sfinito e la realtà si trasformò in un sogno oscuro. Ora non aveva più caldo, anzi, gli sembrava di sentire un vento gelido graffiargli la pelle. Un silenzio assoluto avvolse la collina, le persone, le luci, ogni cosa divenne nebbia. Un buio gelido gli strinse il cuore e Nicola si sentì solo, solo in quella notte, solo come non credeva ci si potesse sentire al mondo. Si mosse fluttuando, con l’impressione di essere un fantasma.

    Fochi stava parlando alla radio della volante.

    «È il comando di Valenza», disse, cupo in volto. «Ti cercano dall’ospedale.»

    Nicola sentì la terra crollare, il fiato gli mancò.

    Qualcuno lo sorresse, mentre sveniva. E lo vide di nuovo, pochi secondi prima di scivolare nell’oscurità.

    Quell’uomo con la maschera.

    Quell’uomo nero.

    (1) Bingo Bongo di Pasquale Festa Campanile (1982).

    (2) Il ritorno dello Jedi di Richard Marquand che uscirà nelle sale italiane il 6 dicembre del 1983.

    Capitolo 1

    Miraniente, 29 gennaio 2014

    La nebbia. Ovunque volgesse lo sguardo, la nebbia avvolgeva ogni cosa.

    La voce artificiale del navigatore gli confermò che il viaggio era finito.

    Era arrivato, finalmente.

    Francesco Romero fermò la macchina nell’ampio cortile della villa e si massaggiò le tempie, assaporando il pur lieve sollievo dato dalle sue dita affusolate. Controllò l’ora: erano le quattro del pomeriggio.

    Spense il motore e scese, avvolgendosi nel pesante cappotto e pescando una Chesterfield dal pacchetto che teneva in tasca. L’aria gelida lo investì. Dove cazzo era finito? In Siberia? Il freddo era tagliente, di quello che ti congela il sangue. Cumuli di neve fradicia ricoprivano il terreno e ragnatele di brina ornavano i rami spogli degli alberi. L’inverno si era preso il mondo.

    Francesco accese la sigaretta, contemplando la facciata maestosa di villa Cavalli, in fronte a lui. Aveva letto su internet che era stata disegnata da Carlo Ceppi, un famoso architetto dell’ottocento, su commissione di un banchiere della zona. Be’, per quel che ne capiva lui, il signor Ceppi aveva fatto un gran bel lavoro.

    Stile neoclassico, tre piani, elegante quanto imponente, con decorazioni raffinate e grandi finestre ad arco. Una terrazza enorme dominava dall’alto. Da lassù, non fosse stato per il tempo di merda, si sarebbe potuto ammirare un paesaggio da cartolina. Per quel che la provincia padana avesse da offrire, se non altro.

    Buttando l’occhio ai piedi della collina si distingueva un piccolo agglomerato urbano, immerso nella nebbia. Un mucchietto di case buttato lì alla bell’e meglio.

    Miraniente.

    Uno scherzo di un qualche centinaio di anime, circondato dal nulla, con un clima deprimente

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