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L' Alba dei vampiri
L' Alba dei vampiri
L' Alba dei vampiri
E-book798 pagine9 ore

L' Alba dei vampiri

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Info su questo ebook

L'Uomo Alto compare all'improvviso, ed è l’inizio della fine.

È lui il responsabile dell’orrore che si diffonde dopo il calar del sole? Un esperimento sfuggito a un laboratorio segreto? Un demone, forse? Nessuno lo sa. Quel che è certo è che sono i bambini a trasmettere il morbo di Madre Morgana, una malattia che trasforma la gente in mostri, nuovi padroni della notte. I vampiri.

In un mondo in cui i morti tornano in vita e uccidono, un gruppo di sopravvissuti lotta per sfuggire alle tenebre, nel disperato tentativo di portare in salvo la cura che potrà cambiare le sorti della guerra contro l’oscurità.

Dopo Una storia dell'orrore italiana, Le streghe e La notte delle anime perdute Paolo Prevedoni continua il suo percorso nella narrativa horror, regalando al lettore una nuova, terrificante discesa nelle tenebre, rinverdendo i fasti di uno dei più inquietanti personaggi dell'universo fantastico: il vampiro.

LinguaItaliano
Data di uscita1 apr 2021
ISBN9788869347061
L' Alba dei vampiri
Autore

Paolo Prevedoni

Paolo Prevedoni nasce ad Alessandria, nel 1981. È un grande appassionato di cinema horror, di Stephen King, di Dylan Dog e dei Nirvana. Per Bibliotheka Edizioni ha pubblicato il fortunato esordio Una storia dell'orrore italiana, seguito da Le streghe e La notte delle anime perdute. Vive e lavora in una cittadina della provincia padana, fuma Chesterfield e non mangia carne.

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    Anteprima del libro

    L' Alba dei vampiri - Paolo Prevedoni

    Paolo Prevedoni

    L’alba dei vampiri

    Horror

    © Bibliotheka Edizioni

    Piazza Antonio Mancini, 4 – 00196 Roma

    tel: (+39) 06. 4543 2424

    info@bibliotheka.it

    www.bibliotheka.it

    I edizione, aprile 2021

    e-Isbn 9788869347061

    Disegno di copertina: Paolo Niutta

    www.capselling.it

    Progetto grafico: Riccardo Brozzolo

    Paolo Prevedoni

    Paolo Prevedoni nasce ad Alessandria, nel 1981.

    È un grande appassionato di cinema horror, di Stephen King, di Dylan Dog e dei Nirvana.

    Per Bibliotheka Edizioni ha pubblicato il fortunato esordio Una storia dell’orrore italiana, seguito da Le streghe e La notte delle anime perdute.

    Vive e lavora in una cittadina della provincia padana, fuma Chesterfield e non mangia carne.

    In memoria di George A. Romero,

    che ha solo bisogno di un po’ di tempo per svegliarsi.

    Nota dell’autore

    Quando ho iniziato a lavorare alla prima bozza di questo romanzo, nel gennaio del 2019, non potevo ovviamente immaginare che pochi mesi più tardi una terribile pandemia avrebbe colpito il pianeta, stravolgendo la vita a milioni di persone e uccidendone altre centinaia di migliaia. Una piaga che, al momento in cui scrivo questa introduzione, continua purtroppo a imperversare.

    Tuttavia, nel mondo della fiction l’argomento non è certo tra i più originali. Molti scrittori (la maggior parte più bravi di me) si sono cimentati con storie di epidemie catastrofiche, spesso ottenendo un grande successo di pubblico. Suppongo che la ragione per cui tale soggetto susciti un così vasto interesse nei lettori sia la medesima che spinge chi ne scrive: esorcizzare le proprie paure.

    Mentre terminavo il manoscritto, durante l’odioso lockdown di marzo, ho compreso la verità di questa teoria. L’immaginazione è davvero l’arma più straordinaria che possediamo contro le ombre della realtà.

    Per l’appunto: quella che segue è un’opera di fantasia. Il romanzo non è stato in alcun modo ispirato dal Covid19, sebbene alcune bizzarre coincidenze possano far credere il contrario. Ogni riferimento a eventi, cose o persone è puramente casuale. E per fortuna, aggiungerei, considerato che nel mio racconto si parla di vampiri.

    Dunque concludo con un consiglio: divertitevi, nel mondo buio che troverete sfogliando le prossime pagine. Le storie, anche quelle strane, sono un ottimo rifugio. Nel raccontare questa, ho cercato di fare del mio meglio per offrirne uno.

    Entrate, mettetevi comodi. E godetevi la corsa.

    P.P.

    This is the end, beautiful friend

    This is the end, my only friend

    The end

    Of our elaborate plans, the end

    Of everything that stands

    The end

    The Doors

    «They’re coming to get you, Barbara…»

    Night of the living dead

    Prologo

    L’uomo alto arriva

    Il giorno in cui il male giunse a Torrelupo, il giorno in cui tutto ebbe inizio, faceva molto freddo.

    Il cielo di gennaio pareva un vetro satinato, e l’aria aveva il cattivo odore dell’inverno della pianura padana, che non ha mai fretta di togliere il disturbo.

    Era un pomeriggio che sembrava uguale a tanti altri: le ombre si distendevano sulle strade ricoperte di brina, mentre il sole scivolava nel suo nascondiglio segreto con un po’ di anticipo. In giro non c’era nessuno. Solo il vento, che spazzava il ghiaccio sui tetti delle case sparse qua e là per il paese, dove le luci erano già tutte accese. Il silenzio si prendeva il resto.

    Quel giorno Vincenzo Prezioso, un personaggio non troppo importante di questa strana storia, si trovava alla scuola. Che poi, escludendo il Bar Aldo giù in centro, era anche l’unico posto dove lo si potesse trovare, quel cretino.

    Il Prez, come lo chiamavano tutti, una casa vera e propria non ce l’aveva mica.

    Lì lavorava e lì viveva: l’istituto medie superiori Anna Frank di Torrelupo, un casermone costruito in epoca fascista che stava appena prima dello svincolo con la provinciale, vicino all’acquedotto.

    La storia del Prez si può riassumere in breve.

    Al termine di una carriera scolastica poco brillante, conclusasi con l’obbligo di legge in quello stesso edificio dove ora si guadagnava il pane, aveva iniziato subito a sgobbare nei campi con suo padre, che era vedovo e faceva andare un pezzetto di terra grande come un buco di culo. Si spaccavano la schiena dalla mattina alla sera, ma non avevano mai patito la fame. Per il Prez, era sempre stato più che abbastanza.

    Pure a suo padre lo chiamavano il Prez, o perlomeno lo avevano chiamato così fino a quando non era finito sotto un motocarro, una mattina che invece di essere solo ubriaco era invece parecchio ubriaco.

    Vincenzo aveva ereditato il soprannome, una cascina con il tetto pieno di buchi e, salvo sorprese, un futuro di merda.

    Per questo motivo quando era riuscito a farsi assumere come bidello all’Anna Frank (o meglio collaboratore scolastico, come c’era scritto sulla sua carta d’identità scaduta) per lui era stato un po’ l’equivalente di imbroccare un sei al Superenalotto. E non tanto per lo stipendio misero, che tuttavia gli consentiva di trovare sempre qualcosa da mangiare – e soprattutto da bere – nella dispensa, quanto più per la gentile concessione da parte della scuola dei due locali nel seminterrato. Un ricovero per gli attrezzi e un misero sgabuzzino, che il Prez aveva pronti via trasformato nella sua dimora.

    L’arredamento comprendeva un materasso sfondato, un armadio con un’anta sola, una cassapanca, un tavolo da campeggio con due sedie di plastica e un cucinino recuperato in discarica. Non esattamente il Cala di Volpe insomma, ma nessuno lì gli chiedeva un affitto, e a caval donato non si guarda in bocca né si annusa il culo. Non è così che si dice?

    Be’, il Prez diceva così.

    La scuola era una delle sue due case. L’altra, per l’appunto, era il Bar Aldo, nella piazza di San Michele in centro a Torrelupo, perché il Prez da suo padre aveva ereditato anche la passione per il vino e tutti suoi derivati. Si divideva equamente tra le due (anche se prediligeva il bar, per ovvi motivi) ma, come vi dicevo, quel giorno si trovava alla scuola.

    Il giorno in cui tutto ebbe inizio.

    Stava facendo il giro del cortile, impegnato a spazzare le merde dei corvacci che si erano accasati nel boschetto che confinava con l’Anna Frank.

    I dannati uccelli avevano preso l’abitudine di appollaiarsi sulle traverse delle porte da calcetto; se ne stavano lì, a cagare e gracchiare tutto il santo giorno, come se al mondo non esistesse nulla di più divertente da fare. Chissà, pensava il Prez, forse quello era il loro mestiere. In tal caso si davano parecchio da fare.

    Lui, invece, di voglia di lavorare non ne aveva neanche un po’.

    Non che avesse scelta, d’altronde: l’indomani la scuola avrebbe riaperto i battenti dopo la pausa per le festività natalizie, e il preside dell’Anna Frank avrebbe effettuato il consueto sopralluogo alla ricerca di un motivo più o meno valido per rompere i coglioni. Il Prez sapeva fin troppo bene che il borioso cagacazzi lo avrebbe volentieri barattato con una capra di montagna, se solo il Signore avesse concesso a quelle bestie l’intelligenza necessaria per strofinare in terra un mocio Vileda. Per questo motivo, conscio che a Torrelupo nessuno (e a buona ragione) gli avrebbe mai offerto un altro lavoro, adesso si trascinava su e giù per il cortile, sfregando svogliatamente la saggina sul cemento lustro di brina e merde di corvo congelate.

    Quando il rumore della macchina lo fece voltare, scaglie di neve e ghiaccio avevano appena iniziato a cadere dal cielo, danzando come insetti nel vento.

    La vettura sbucò dalla strada principale, facendo un gran baccano nonostante procedesse a passo d’uomo.

    Una macchina sportiva d’epoca, simile a una Giulietta degli anni Sessanta. Per quel che ne capiva il Prez di automobili, avrebbe potuto anche essere una Ferrari.

    I finestrini erano scuri, e la targa così sporca da risultare illeggibile. La vernice bianco panna della carrozzeria era ricoperta di polvere, come se la macchina avesse affrontato un lungo viaggio nel deserto. Si fermò proprio davanti alla scalinata d’ingresso della scuola.

    Il motore si spense, la portiera si aprì, e un uomo scese.

    Era alto, talmente alto che dovette piegarsi non poco per evitare di sbattere la testa sul montante. Più di due metri, pensò il Prez, doveva essere lungo.

    Indossava un cappotto grigio che lo avvolgeva fino alle caviglie, scarpe lucide e un cappello Borsalino dalla tesa larga. Nonostante la giornata fosse ormai tutto fuorché luminosa, portava un paio di enormi occhiali scuri che gli copriva buona parte del volto. Anche da quella distanza, il Prez notò comunque il viso pallido e scheletrico, come se lo spilungone indossasse la maschera di un teschio.

    L’uomo alto si allontanò dalla macchina, appoggiandosi ad un bastone da passeggio, e camminò elegantemente verso la scuola. Il rumore dei tacchi echeggiò nel silenzio del tardo pomeriggio.

    Il Prez, appoggiato con i gomiti al manico della scopa, lo guardò fermarsi appena prima degli scalini all’entrata. Quel tizio non gli piaceva per niente. Non che gli piacessero le persone, in generale, ma quello lì non gli piaceva in particolar modo.

    Lo osservò adagiare il bastone per terra e alzare le braccia al cielo in un gesto lento e teatrale, e notò un altro particolare. O l’uomo alto aveva le dita lunghe il doppio di quelle delle persone normali, oppure indossava guanti sformati, come quelli di un pagliaccio da circo. Le mani erano protese verso il cielo, come se l’uomo stesse cercando di afferrare qualcosa che solo a lui era concesso di vedere.

    «Uè, bomber!» gridò il Prez, cercando di usare un tono gentile anche se già cominciavano a girargli i coglioni. «La scuola è chiusa. Ha bisogno di qualcosa?»

    Quello neppure si voltò. O non l’aveva sentito, o semplicemente lo stava ignorando. Rimase lì, fermo, con le braccia tese verso cielo.

    «Uè, bomber!» chiamò ancora il Prez. «La scuola è chiusa, ho detto. Sta cercando qualcuno?»

    Lo strano tizio, che presto il mondo avrebbe iniziato a chiamare con soprannomi bizzarri quali l’Uomo Alto, l’Untore o il più pittoresco Capitan Contagio, si inginocchiò, raccolse il bastone da terra e ritornò verso la macchina senza degnare il Prez di uno sguardo. Risalì sull’auto sportiva d’epoca che sembrava una Giulietta e accese il motore. Il rombo si divorò il silenzio della strada, e sembrava uno sciame di calabroni in un barattolo.

    La vettura si immise sulla strada principale, scomparendo dalla vista del Prez.

    Lui si grattò la pelata sotto la cuffietta di lana e sputò per terra, domandandosi chi fosse quel tipo strano, alto come un lampione, con quei guanti dalle dita lunghe, e che cosa stesse combinando con le braccia alzate, in quella sorta di preghiera imbecille.

    Poi decise che non erano affari suoi. E comunque non gliene fregava un cazzo.

    Riprese a spazzare il cortile: prima avesse finito, prima avrebbe potuto fare un salto al bar. Aveva voglia di bere un amaro. Anche due, a pensarci bene.

    Un frusciare improvviso lo fece trasalire.

    Dal boschetto di fianco alla scuola si era alzato uno stormo di corvi.

    Erano tanti, tanti quanti il Prez non ne aveva mai visti tutti insieme. Gli uccelli si levarono in cielo gracchiando e sbattendo furiosamente le ali, in un vortice di piume nere. Si dileguarono rapidamente, allontanandosi all’imbrunire e portando con loro versi sinistri che parevano grida.

    Il Prez li osservò scomparire lontano, un po’ a disagio. Avrebbe giurato che stessero scappando.

    Come se qualcosa li avesse spaventati.

    Alla fine trovò il tempo di andarci, al bar.

    Il tempo per un bicchiere, il Prez lo trovava sempre.

    Il locale era pieno delle solite brutte facce: il proprietario (che a dispetto del nome del bar non si chiamava Aldo, bensì Enzo) serviva scazzato grappe e caraffe di vino ai tavoli, dove i vecchi di Torrelupo trascorrevano le loro giornate giocando a carte. Sheva, lo spacciatore del paese, se ne stava in un angolo a guardare la partita di pallone trasmessa sul televisore al plasma, sistemato un po’ in bilico sulla mensola sopra la porta del cesso. Beveva una Beck’s direttamente dalla bottiglia. Sheva beveva solo Beck’s.

    Il Prez se ne stava appollaiato su uno sgabello al bancone, e sembrava un anziano pappagallo su un trespolo. Teneva lo sguardo fisso sul suo quinto bicchiere di Braulio, come se dentro potesse trovarci le risposte a tutti i misteri dell’universo.

    Al Prez piaceva la quiete del bar.

    Era un posto da ubriaconi, quello, e difficilmente si vedevano ragazzini in vena di far fracasso. I genitori si incazzavano se venivano a sapere che i loro figli mettevano il naso lì dentro. Certo, a volte le piccole teste di cazzo disobbedivano al divieto, ma in quel caso il Prez non si faceva troppi scrupoli a fare la spia con gli insegnanti della scuola.

    Tutto, pur di mantenere intatta la placida monotonia della sua seconda casa, interrotta tuttalpiù da qualche bestemmia alla calata di una primiera.

    «Di’ un po’, Prez», disse Enzo, sporgendosi in avanti dal bancone. «Tu l’hai sentita, l’esplosione?»

    Il Prez alzò gli occhi bovini verso il barista.

    «Che roba?»

    Sheva si avvicinò, dando una sorsata alla Beck’s e sistemandosi il cappellino dell’Adidas sulla fronte.

    «Stamattina», disse. «L’han sentita tutti.»

    Il Prez fece guizzare la lingua sulle labbra screpolate. Lui non aveva sentito un cazzo. Non aveva idea di che cosa stessero parlando, quei due.

    «No», disse. «Non so mica. Che roba è?»

    Sheva si sedette sullo sgabello a fianco. Lui e la sua espressione: Stai sereno che adesso ti racconto tutto.

    Era albanese, ma viveva in Italia da più di dieci anni. I carabinieri di Torrelupo lo lasciavano in pace, anche se tutti sapevano che spacciava, perché comunque era abbastanza intelligente da farsi i cazzi suoi e smerciare solo erba e hashish. Niente pasticche o roba pesante. Lo chiamavano Sheva perché indossava sempre una casacca del Milan, e sosteneva di avere a casa una foto con il campione Andriy Shevchenko, scattata sotto la curva sud dopo la vittoria di un derby.

    Nessuno l’aveva mai vista quella fotografia, ma nessuno avrebbe neppure saputo pronunciare il suo vero nome senza morsicarsi la lingua. Sheva andava benissimo.

    «Su al Picco», disse lo spacciatore, fregandosi la mano sulla barba ispida. «Deve essere successo qualcosa alla base. Sono passati anche gli elicotteri.»

    Su al Picco. Sheva si riferiva alla base militare americana che gli abitanti di Torrelupo chiamavano Babilonia. Era stata costruita dopo la Seconda Guerra Mondiale, e nessuno sapeva cosa ci combinassero, lì.

    Distava appena una decina di chilometri dal paese, ai piedi di Picco Volto, la montagna a ovest del borgo. Che poi montagna era un parolone fin sprecato, per quella cagata di rocce e rovi che serviva giusto a tagliar fuori Torrelupo dai luoghi più turistici del Piemonte.

    Il Picco era a malapena segnato sulle cartine, e brutto da vedere anche da lontano. La punta sembrava il cranio di un primate, e quando saliva la nebbia scompariva come in un trucco di magia. La zona era off-limits, proprio perché dagli anni Cinquanta ci si erano insediati i militari, ma a nessuno veniva comunque mai in mente di avvicinarsi. A Picco Volto non c’era niente da vedere.

    «Elicotteri, eh?» disse il Prez, scettico.

    Sheva annuì.

    «Elicotteri, già. A me l’ha detto il Torri, il commercialista.» Pronunciò la parola commercialista sillabandola, nel suo marcato accento balcanico. «Mi ha detto che ha sentito un botto, mentre dava da mangiare ai cani. Sarà stato per le otto, otto e un quarto di stamattina. E ha visto una nuvola nera venir su dal Picco, come se qualcosa fosse saltato per aria.»

    Enzo si versò un dito di acquavite in un bicchierino opaco, e lo buttò giù in un sorso.

    «A me l’ha detto mio nipote. L’ha sentito pure lui, il colpo. Io invece ho visto due elicotteri dei vigili del fuoco, verso le nove.»

    Il Prez alzò le spalle. Lui non aveva visto né sentito una minchia, e dei militari gli fregava poco o niente. Ogni tanto qualcuno di loro in licenza scendeva al bar a far baldoria: si gonfiavano di alcol e facevano affari con Sheva, ma difficilmente parlavano con gli avventori del locale. Quando capitava usavano la loro lingua madre, e il Prez si innervosiva subito perché non capiva una parola.

    «Speriamo che sia crollato tutto», disse, piegando le labbra in una smorfia. «Così magari è la volta buona che i soldati si levano dalle palle. Sarebbe anche ora: la vera Babilonia, il Signore l’ha buttata giù un bel po’ di tempo fa.»

    Babilonia. Babele. Chi si era avvicinato abbastanza da poter dare una sbirciata, aveva descritto l’edificio principale come una specie di torre. Da lì era venuto fuori il nome. Si diceva in giro che la base scendesse più di cento metri sotto terra. Il Prez era sicuro che fosse una cazzata.

    Il televisore cominciò a mandare scariche elettrostatiche.

    L’immagine si oscurò, e uno dei vecchi che stava guardando la partita iniziò ad imprecare in dialetto, inveendo contro Enzo e il suo abbonamento Sky taroccato.

    Il Prez adocchiò l’orologio a muro, quello di fianco a un vecchio calendario con la Marcuzzi che faceva vedere le tette.

    Era ora di cena, ormai.

    Finì in una botta quel che restava del suo bicchiere di Braulio e si alzò dallo sgabello, la testa piacevolmente leggera e le gambe traballanti.

    Diede una pacca sulla spalla di Sheva.

    «Speriamo sia crollato tutto», ripeté. «Che a me dei soldati me ne frega poco o niente, bomber.»

    Buttò sul bancone una banconota da dieci euro (Enzo lo guardò un po’ incazzato, forse perché non erano abbastanza) e uscì dal bar salutando con la mano.

    Al Prez, di quello che era successo alla base americana, fregava davvero poco o niente.

    Nonostante avesse la patente e pure la macchina – una vecchia Marbella che sulla neve faceva il culo a tutti i moderni SUV da ricconi – percorreva sempre la strada dalla scuola al bar a piedi. Erano pressappoco venti minuti di camminata, e il Prez li sfruttava per fumarsi un paio di Diana Rosse. Quella sera faceva un freddo porco, ma l’alcol lo aveva abbondantemente anestetizzato.

    Si incamminò lungo la strada principale fischiettando un vecchio successo di Gianni Morandi, e attraversò la parte vecchia del paese, dove le case erano tutte uguali e con i cancelli pitturati dello stesso colore. I cani nei cortili gli abbaiavano contro, e il Prez gli sputava addosso.

    Torrelupo era attraversata da una parte all’altra da tre strade che portavano tutte alla provinciale, ma Via Volta, quella che faceva sempre lui, era l’unica ad essere ben illuminata dai lampioni.

    Il paese era povero e decadente: dai primi anni Duemila, quando la segheria che dava da mangiare alla maggior parte degli abitanti era fallita, si stava svuotando come un catino bucato. La popolazione oramai contava meno di duemila cristiani.

    Parecchi rustici erano abbandonati, e il camposanto del paese era il luogo più affollato che si potesse trovare nei dintorni. I giovani scappavano via per non rimanere tagliati fuori dalla vita, e i pochi che si erano trasferiti a Torrelupo nell’ultimo decennio erano dei vecchi pensionati stufi del caos della città, che si facevano gli affari loro e volevano solo essere lasciati in pace. Era difficile trovare un posto più merdoso, da quelle parti.

    Ma il Prez non chiedeva di meglio.

    Lui lì c’era nato: non aveva altre ambizioni se non quella di morirci pure, senza che nessuno gli rompesse troppo i coglioni.

    Le case finirono, e ai lati della strada iniziarono i campi incolti, addormentati dall’inverno. Il Prez intravide la sagoma della scuola, isolata dal resto di Torrelupo. Il bosco da una parte e l’acquedotto dall’altra. La strada proseguiva sino alla provinciale, al confine del paese, e scompariva nel buio della sera.

    Visto da lì, l’edificio era un’immagine spettrale.

    Non per il Prez, di certo. Lui non aveva mica paura delle ombre. Al massimo, c’era il rischio di fare qualche brutto incontro.

    Torrelupo, a dispetto dell’esigua popolazione, era piena di sbandati; la crisi aveva colpito forte tutti i poveri stronzi che non avevano avuto le possibilità di andare a cercarsi un lavoro da qualche altra parte. Ma il Prez d’altronde faceva parte della sfortunata combriccola, quindi non aveva nulla da temere. Tutti sapevano che non aveva un euro da infilarsi nel culo e, anche se a qualche disperato fosse venuta la brillante idea di rapinarlo, per avere una minima possibilità di successo il piano andava attuato prima che il Prez varcasse la soglia del bar.

    Si alzò il bavero del piumino sul collo, frugando nelle tasche alla ricerca delle chiavi. E fu in quel momento che sentì un rumore. Come di passi.

    Veniva da dietro di lui.

    Il Prez si voltò di scatto. Rimase immobile, a scrutare l’oscurità appena sfumata dalle luci giallastre dei lampioni che circondavano il campetto della scuola. Tese le orecchie e smise di respirare, guardando verso il boschetto. Ombre scure galleggiavano tra gli alberi, frustate dal vento.

    Per un attimo, il Prez ebbe la certezza di non essere solo.

    Chissà perché, gli tornò in mente il tizio che aveva visto quel pomeriggio, quel tipo strano che si era fermato davanti alla scuola. Quell’uomo con le dita lunghe.

    Quell’uomo alto.

    Il Prez ridacchiò, cercando di scacciare il senso di turbamento che gli si era insinuato sottopelle. Che gli era preso, santo cielo?

    «Tu sei fuori di testa, bomber», disse ad alta voce. «Chi ti ha spaventato? Il fantasmino formaggino?»

    Rise forte, un suono fradicio che echeggiò lugubre nell’immobilità della strada. Attraversò il cortile e raggiunse la scalinata sul retro della scuola, che portava al seminterrato. Non si vedeva nulla, perché la luce di cortesia sopra i gradini era bruciata, e lui si dimenticava sempre di cambiarla.

    Scese gli scalini adagio. Erano tutti ghiacciati. Il Prez pensò che avrebbe dovuto buttarci sopra del sale, o il preside si sarebbe incazzato.

    I suoi scarponi schiacciarono qualcosa di molliccio.

    Un oggetto viscido e appiccicoso che gli si attaccò sotto la suola.

    «Che roba è?» borbottò, scendendo i gradini con cautela.

    Pestò qualcos’altro, e poi ancora. Gli sembrava di camminare su delle caramelle gommose. Armeggiò con la chiave e aprì il portone, entrando nel seminterrato. Cercò l’interruttore a tentoni e lo pigiò, illuminando così il locale caldaia, che faceva da anticamera ai suoi alloggi.

    Quando abbassò lo sguardo, la sua espressione si piegò in una smorfia di ribrezzo.

    Vermi.

    Il pavimento era ricoperto di vermi.

    Bianchi e gonfi, come larve troppo cresciute.

    Il Prez si voltò verso la scala, illuminata di riflesso dalla striscia di neon che si srotolava sul soffitto del locale caldaia.

    Ecco cosa aveva pestato, scendendo.

    I gradini erano cosparsi di lombrichi albini, che si contorcevano come infilzati su tanti ami invisibili. Il Prez sputò in terra, disgustato.

    «Ma che roba è?!» biascicò.

    Si guardò intorno, le labbra arricciate per lo schifo. Dentro il locale caldaia, il pavimento era un tappeto molliccio e brulicante.

    Da dove diavolo arrivavano, quei piccoli mostri?

    Camminò verso le sue stanze, nauseato dal rumore dei vermi che venivano schiacciati sotto gli scarponi e scoppiettavano come fogli di pluriball. Raggiunse il cucinino. Anche lì, sul pavimento, si contorcevano i vermi bianchi. Alcuni si stavano arrampicando sulle gambe del tavolo, dove erano abbandonati i resti del pranzo.

    Il Prez aprì l’armadio e tirò fuori la scopa di saggina. Iniziò a spazzare rabbiosamente per terra, bestemmiando tutti i santi che gli venivano in mente.

    «Da dove venite, figli della merda?!»

    Bella domanda.

    Un pensiero poco felice prese improvvisamente forma nella sua mente. Da quanto tempo non controllava la dispensa della scuola? Una settimana?

    Cibo andato a male.

    Oh, merda! Il refrigeratore si era rotto, la carne era marcita e lui non si era accorto di nulla. Se era andata così, si trovava davvero nei pasticci. Questa volta il preside avrebbe avuto un motivo più che valido per dargli un calcio nel culo e spedirlo in mezzo alla strada.

    Eppure, nonostante fosse piuttosto stupido, il Prez capì al volo che quella spiegazione non stava in piedi.

    La mensa dell’Anna Frank non era di certo un ristorante stellato. La maggior parte del cibo che veniva servito agli alunni era preconfezionato: carne in scatola e sughi congelati. Anche se, chissà come, era andato tutto in malora, com’era possibile che quell’esercito di vermi fosse comparso così all’improvviso?

    Imprecò, fregandosi una mano sulla pelata.

    O da qualche parte ai piani superiori c’era la carcassa di un elefante, oppure quelle disgustose bestiacce non potevano che venire da fuori.

    Dalle fogne, magari.

    Recuperò la torcia elettrica dal suo armadietto e tornò nel locale caldaia. C’era una botola in cortile, in effetti non troppo distante dal seminterrato, che permetteva di accedere alla fognatura. Decise di andare a controllare.

    Risalì i gradini, stando attento a non scivolare, e tornò all’esterno della scuola.

    Un vento gelido aveva preso a soffiare forte, e gli schiaffeggiava le guance. Accese la torcia elettrica e puntò il fascio di luce intorno a sé. Quando illuminò il cortile, un conato di vomito gli rovesciò lo stomaco.

    Il campetto da calcetto sembrava uno stagno dentro cui qualcuno avesse gettato un sasso. Si muoveva. Ondeggiava.

    Era ricoperto di vermi.

    «È impossibile», disse il Prez, ora un po’ spaventato. «Prima non c’erano.»

    No che non c’erano. Li avrebbe visti. Ci aveva camminato, su quel cortile, e non potevano essere passati più di cinque minuti, Cristo di un Dio.

    Pensò che forse era il caso di chiamare qualcuno.

    I carabinieri, i pompieri o una ditta di disinfestazioni. Cazzo, avrebbe chiamato pure l’esercito!

    Camminò adagio, puntando la luce di fronte a sé. Costeggiò il lato dell’edificio, diretto verso la rimessa dove teneva la falciatrice e gli altri attrezzi da giardino. Illuminò la botola di metallo, che stava proprio lì a fianco. Era chiusa, e sembrava tutto in ordine. Il terreno intorno era pulito. Niente lombrichi bianchi di ’sto cazzo.

    Si accovacciò e tentò di alzare il pesante coperchio, senza successo.

    Anche se non fosse stato ubriaco, difficilmente sarebbe riuscito a sollevarlo senza un piede di porco. I bordi erano tutti ghiacciati, e comunque quell’affare pesava come una stufa di ghisa. Era chiaro che quei merdosi animaletti non potevano essere venuti fuori da lì.

    Sentì un prurito alla base del collo. Infilò d’istinto le dita nel bavero del piumino e afferrò qualcosa di viscido.

    Osservò il verme bianco strisciare qualche secondo sul palmo della sua mano, poi lo scagliò lontano con orrore.

    Ma che roba è? Da dove arrivano, porca puttana?

    Il Prez alzò gli occhi. Nel buio eterno del cielo, piccoli granelli di neve e ghiaccio precipitavano vorticando nel vento.

    Il Prez guardò meglio. No. Non era neve, e neppure ghiaccio.

    Erano vermi bianchi.

    I vermi piovevano dal cielo.

    - 1 -

    Dani e Tiero

    20 gennaio. 12 giorni dopo l’incidente.

    Senza avere idea di quanto, molto presto, il calar del sole sarebbe diventato una faccenda importante, Daniele Straniero osservava il tramonto.

    Al di là della vetrata del bar, la sagoma illuminata del ponte Meier sembrava un’insegna futuristica, appesa a ridosso delle ombre che stavano inghiottendo la città. La nebbia saliva tra le forme squadrate dei palazzi, mentre i fari delle automobili trasformavano le strade sfocate in un via vai di lucciole senza direzione. Il riverbero sull’acqua si arrendeva, lasciando il comando del fiume al mistero dell’oscurità.

    Vista da lì, Alessandria sembrava una fotografia sbiadita.

    Un’immagine in bianco e nero che trasmetteva un po’ di tristezza.

    «Brutto inverno, eh?» disse il cameriere, appoggiando sul tavolino una pinta di birra e una ciotola con delle noccioline che sembravano essere appena state tirate fuori dalla spazzatura.

    Dani annuì.

    «Eh già. C’hai proprio ragione, Paolo.»

    Il cameriere non si chiamava Paolo. Era cinese. Infatti aveva detto blutto e invelno. Però Paolo era un nome comodo.

    Dani si guardò intorno, domandandosi se in città ci fosse un bar peggiore di quello.

    Il Caffè Mazzini era un postaccio sporco e male illuminato. Le facce con gli occhi a mandorla dietro al bancone sembravano una la fotocopia dell’altra.

    Pur essendo un cliente affezionato, Dani faceva ancora fatica a distinguere gli uomini dalle donne. Brutti come la fame, quelli della loro razza. E pieni di soldi, evidentemente, visto che nell’ultimo decennio si erano comprati metà dei bar di Alessandria. Non che a lui interessassero i tratti somatici di chi gli serviva da bere: il Mazzini era una tappa fissa solo perché era il posto più vicino in cui trovare dell’alcol.

    Dani viveva appena al di là del fiume, dove la città iniziava e il resto del mondo sembrava avere meno importanza.

    Quando il vecchio gestore del bar aveva venduto ai cinesi, circa un anno prima, la sola cosa che era cambiata nell’arredamento del locale erano state le facce dei camerieri. Quindi non c’era alcun motivo di sbattersi alla ricerca di un altro luogo dove affogare i dolori della vita: un posto, per quei propositi, valeva l’altro.

    Dani osservò i lampioni che sfarfallavano sulla strada, poi l’orologio. Le cinque e venti del pomeriggio.

    Mise in bocca una manciata di noccioline, pentendosene immediatamente. Era come masticare sassolini di polistirolo. Ma Dani voleva buttare qualcosa nello stomaco.

    Era ancora troppo presto per ubriacarsi.

    La porta del bar si aprì, lasciando entrare una folata di vento gelido e un uomo grasso.

    Gualtiero Volpi si buttò dentro al locale come se all’esterno fosse appena scoppiata una guerra.

    «Merda», esordì. «Sembra di stare a Cervinia.»

    Dani alzò il bicchiere nella sua direzione, facendosi notare. Niente di troppo complicato: il Caffè Mazzini, come sempre, era deserto.

    Gualtiero lo raggiunse, travasando la sua mole consistente sulla sedia di fronte a lui.

    Vita sedentaria e passione incontrollata per la cucina piemontese. Risultato: più di centocinquanta chili di lardo compressi in un piumino della Moncler – comprato mezza pancia prima – che lo stringeva come un elastico, effetto insaccato. Si strofinò le mani sulle ginocchia, imprecando.

    «Ma che cazzo! Era almeno vent’anni che non faceva un gennaio così freddo.»

    Dani bevve un sorso di birra.

    «È colpa del riscaldamento globale.»

    Gualtiero alzò le spalle, tirandosi indietro i ricci unti che gli cascavano sulla fronte.

    «Ma va, son tutte stronzate. Se la terra si stesse veramente riscaldando, non farebbe questo freddo bastardo, cosa dici?»

    Dani sospirò.

    «Per carità, parli come un giornalista di Libero. Non dirai sul serio, vero?»

    «Ma va, secondo me sono tutte cazzate. Buone per il business della raccolta differenziata, dammi retta. Che poi li ho visti, io, quelli che lavorano in discarica. Buttano tutto insieme.»

    Il cameriere sgambettò al tavolo.

    «Porto da bere?» Polto da bele?

    Gualtiero annuì, soffiandosi rumorosamente il naso in un lercio fazzoletto di stoffa.

    «Fammi un Negroni, Chan.»

    Il cameriere, che non si chiamava Paolo ma nemmeno Chan, fece un cenno d’intesa e se ne andò.

    I due amici rimasero in silenzio, guardando fuori dalla vetrata appannata del bar. Aveva ricominciato a nevicare, e i fiocchi sporchi davanti alle luci dei lampioni assomigliavano all’interferenza di un televisore.

    «Come va la vita?» domandò Gualtiero.

    Dani fece spallucce.

    «Ma sì. Abbastanza di merda.»

    «Bene», rispose il suo amico, come se non afferrasse il significato della parola merda.

    «E il lavoro?»

    «Uguale.»

    «Bene.»

    Dani fece una risatina.

    «Bene un cazzo, Tiero. Ne ho le palle piene. Di questo passo chiudo baracca e burattini prima dell’estate.»

    Il cameriere tornò con il Negroni e un’altra ciotola, che questa volta conteneva delle patatine dal colorito minaccioso.

    «Credevo che il mercato dei dischi fosse tornato a rendere», disse Gualtiero. «Ho sentito su Radio Deejay che i vinili vendono più delle canzoni sul computer.»

    «Non in Alessandria, evidentemente.»

    «Cosa vuoi, io non capisco un cazzo del settore.»

    Dani scosse il capo. Non c’era bisogno di specificarlo, visto che il suo amico aveva appena definito la musica digitale canzoni sul computer. Suo nonno non avrebbe saputo usare un termine più raccapricciante.

    Fatto stava che il negozio andava male. Per essere gentili. Per esserlo un po’ meno, si sarebbe potuto tranquillamente affermare che stava andando dal culo.

    Quando Dani aveva aperto, quattro anni prima, aveva davvero sperato che la musica gli avrebbe dato da mangiare. Di più: era convinto di poter diventare un punto di riferimento per gli appassionati, il tipico ritrovo di cinquantenni scaccia figa disposti a sacrificare lo stipendio pur di mettere le mani sulla prima stampa americana di Velvet Underground & Nico.

    Ma le sue speranze erano state mal riposte.

    A quanto pareva, i collezionisti di dischi della provincia erano tutti con le pezze al culo; preferivano farsi sanguinare le dita scorrendo per ore le copertine sugli scaffali, prima di levarsi dalle palle con sottobraccio una misera ristampa da cinque euro. Più che un punto di riferimento, il suo negozio era diventato una calamita per i morti di fame.

    Categoria della quale sarebbe entrato a far parte pure lui, di quel passo.

    Tiero si riempiva la bocca di patatine e sorseggiava il Negroni come fosse aranciata. Dani lo invidiò. I suoi propositi di sobrietà crollavano come un castello di carte, di fronte a quella pubblicità vivente pro cirrosi.

    «È da un po’ che non ci sentiamo», disse Gualtiero, sputacchiando briciole dappertutto. «Quand’è che ti compri un cellulare?»

    «Non mi serve un cellulare. Ogni tanto potresti passare in negozio, se ci tieni a sapere come sto.»

    «Ehi, non fare lo stronzo. Non è che non c’ho un cazzo da fare, io.» Si piantò il pollice sul petto. «Ho avuto i miei impegni.»

    Dani sospirò.

    Tiero aveva la sua stessa età (quarant’anni portati male), e faceva lo scrittore.

    Ci provava, perlomeno. Era una vita che andava dietro ad un romanzo di spionaggio, e nel frattempo tirava su qualche quattrino pubblicando cazzate per i giornali locali. Più un hobby, che altro: in realtà Gualtiero avrebbe potuto permettersi di stare stravaccato sul divano tutto il giorno.

    La sua fortuna era arrivata con la morte dei genitori, un incidente d’auto che lo aveva reso orfano quando ancora doveva terminare le superiori.

    Il padre era stato un costruttore, e gli aveva lasciato un gruzzolo che – nonostante gli sforzi ammirevoli di Gualtiero – pareva inesauribile. Era più probabile che l’aspirante scrittore avesse preferito impegnare il suo tempo tra centri massaggi cinesi e punti SNAI, nell’ultimo periodo. Ecco perché non si era più fatto vivo, altro che impegni. Ma era un bravo ragazzo, e Dani lo conosceva sin da quando erano bambini.

    A conti fatti, era l’unico amico che aveva.

    «Come procede il libro?» gli domandò.

    «Alla grande.»

    «Immagino.»

    «No, no. Davvero, ci sto lavorando sodo.»

    «Lo dici sempre. Quante pagine ha? Seimila?»

    «William Golding ci ha messo cinque anni a scrivere Il signore delle mosche. Ognuno ha i suoi tempi.»

    «Dici sempre anche questo. Ma ti consiglio di sbrigarti a diventare il nuovo Camilleri, prima che le tue dita diventino troppo grasse per battere sulla tastiera di un computer.»

    «Tu prendimi pure per il culo. Poi ne riparliamo quando il mio romanzo diventerà un film con Toni Servillo.» Si schiarì la voce. «Comunque sapevo che ti avrei trovato qui. E volevo vederti per parlarti di una roba.»

    Dani alzò le sopracciglia.

    In effetti Tiero sembrava un po’ sulle spine.

    «Del tipo?»

    Il suo amico si guardò intorno con fare sospetto, come una spia degli anni Ottanta finita per errore dal lato sbagliato del muro di Berlino.

    «Di’, la vuoi sentire una storia?» domandò, abbassando la voce.

    Dani bevve un altro sorso di birra.

    «Ne vale la pena?»

    Gualtiero sorrise.

    «Direi di sì», disse. «Ma ti avverto. È una storia parecchio strana.»

    C’era questo suo cugino, no? Egidio. Che nome del cazzo, eh? Ma sì, che lo conosceva anche Dani. Lo aveva incontrato una volta ad un Capodanno a casa di amici, quella sera che il Giorgio, quello del negozio di telefonini, si era scopato la Federica in uno sgabuzzino. Ma sì, Federica! Quella tettona bionda con gli occhi storti. Ma sì! Va be’. Comunque questo suo cugino, Egidio, lavorava per l’esercito. Niente di troppo complicato eh, roba d’ufficio, una specie di passacarte. Era un raccomandato, naturalmente: quello scemo non avrebbe saputo neppure infilarsi un dito nel naso senza seguire un manuale di istruzioni. Fatto stava che Gualtiero era in buoni rapporti con lui, e ogni tanto uscivano insieme a fare serata. A suo cugino piaceva divertirsi, e gli piacevano ancor di più i night club e le ragazze rumene che ci lavoravano. Chi non va matto per la figa, dopotutto? E lo aveva visto giusto quattro giorni prima, no? Be’, erano stati in un locale, avevano bevuto come delle cisterne e poi erano andati a farsi una canna al parco, in Cittadella. A quel punto Gualtiero aveva cominciato a parlare del suo romanzo. Aveva inserito dei soldati, nella storia, e non voleva mica scrivere delle cazzate. La ricerca è importante per il realismo, altrimenti si rischia di fare delle figure di merda. Quindi aveva cominciato a chiedere dei consigli, e Egidio – fatto come un cammello e più sbronzo di un irlandese il giorno di San Patrizio – si era messo a parlare a ruota libera anche di cose che avrebbe invece dovuto tenere per sé. E cos’era venuto fuori? Che, porca puttana, qualche giorno prima aveva avuto accesso ai file di un’operazione riservata. Roba da non credere, vero? Documenti top secret. Proprio così. Top cazzo secret, come nei film con Tom Cruise della serie Missione Impossibile. Egidio non avrebbe mica dovuto vederli, quei documenti. Un impiegato testa di cazzo – un altro raccomandato come lui, c’era da scommetterci – aveva sbagliato indirizzo mail e gli aveva spedito questo dossier per errore. Nessuna password, il file non era neppure criptato. Quanto bisognava essere ritardati, per combinare un casino del genere? Fatto stava che Egidio se l’era letto tutto, il documento, prima di cancellarlo. E qui arrivava il bello, roba da cagarsi nelle mutande. Il file finito per sbaglio sotto gli occhi di suo cugino era un rapporto su un’operazione militare. Proprio così. Un dossier destinato a qualche capoccione dell’esercito. Occhi Rossi, questo era il nome in codice dell’operazione. Riguardava quello che stava succedendo in un paesino a meno di quaranta minuti di strada da Alessandria. Ne avevano parlato pure al telegiornale, la settimana passata.

    Come quale paesino?

    Torrelupo, no?

    «Torrelupo», ripeté Dani, cercando di farsi venire in mente dove avesse già sentito quel nome.

    Gualtiero fece un cenno al cameriere, scuotendo il bicchiere vuoto.

    «Fammene un altro, Chan! Sì, esatto, Torrelupo. Uno sputo di paese a una trentina di chilometri da qui. Non dirmi che non sai quello che è successo in quel posto di merda.»

    Dani ricordò. Aveva visto il servizio al Tg, pressappoco una settimana prima.

    «Ah, sì. Torrelupo», disse, annuendo. «È in quarantena. Le falde acquifere sono inquinate, o qualcosa del genere. Gli abitanti si sono beccati una specie di infezione, e il Ministero della Sanità ha dichiarato lo stato di emergenza. Ho sentito che hanno addirittura bloccato tutte le strade per arrivarci. Però poi non si è più saputo nulla.»

    Il cameriere – Paolo, Chan, o quel che era – portò al tavolo il Negroni. Gualtiero si zittì, guardandolo torvo, e riprese a parlare solo quando il cinese si fu allontanato.

    «Bravo, le falde acquifere, contadini alle prese con un’infezione intestinale e via discorrendo», disse. «Be’… sono tutte cazzate. Per forza che non ne parlano più.»

    Dani inarcò le sopracciglia.

    Gualtiero sorrise, grattandosi l’enorme culone. I ricci continuavano a cascargli sugli occhi, e lui non smetteva un attimo di tirarseli indietro.

    «Non è vero niente, è una copertura», sussurrò. «Stando a quanto ha letto mio cugino in quei documenti, Torrelupo è a un tiro di cazzo da una base militare americana, costruita dopo la guerra su una montagnola vicino al paese. L’accesso alla zona è proibito, e quello che ci fanno lì dentro non lo sa nessuno. Ebbene, a quanto pare quindici giorni fa è successo un gran macello, in questa base. C’è stato un incidente, un’esplosione, ed è andato tutto a fuoco. Ma la vera notizia è che pare che gli americani, nel trambusto, si siano persi qualcosa. O meglio: qualcosa gli è scappato. Nel dossier spunta un altro nome in codice: Madre Morgana. Quell’idiota di Egidio non è riuscito a capire se si tratta di un virus creato in laboratorio o di un animale, forse infettato da un agente patogeno sconosciuto, ma di certo ha a che vedere con una specie di malattia. Comunque, qualsiasi cosa sia, è arrivata a Torrelupo. Ed è contagiosa. Il paese è in quarantena sul serio, ma non per delle banali intossicazioni. Si tratta di una faccenda ben più grave: qui stiamo parlando di una fottuta emergenza sanitaria.»

    Tracannò metà del Negroni in una sola sorsata.

    «Che, tieniti forte, stanno facendo fatica a controllare. Nel file che ha visto mio cugino erano allegati anche dei moduli scannerizzati. Per quel poco che ci ha capito quel demente, sembravano autorizzazioni firmate dal Ministro della Difesa e dal Presidente del Consiglio a procedere ad una sorta di piano di contenimento. Una procedura che si attua in caso di attacchi terroristici di natura chimica e batteriologica. In parole povere: a Torrelupo c’è la legge marziale, e gli abitanti potrebbero essere deportati in massa in qualche struttura segreta per il controllo delle malattie infettive. Cristo, Dani. Hai capito quello che ti ho detto? Il governo italiano sta tenendo nascosta un’emergenza sanitaria che presto potrebbe diventare nazionale

    Dani rimase in silenzio qualche secondo. Poi scoppiò a ridere.

    Gualtiero corrugò la fronte.

    «Che cazzo ci trovi di così divertente?»

    «Tiero, santo cielo! Ma davvero sei così rincoglionito?»

    Gualtiero lo fissò con un’espressione un po’ stupita e un po’ offesa. Dani smise di ridere, a fatica. Poi allargò le braccia.

    «Tuo cugino ti ha preso per il culo! Scusami, eh, ma… emergenza nazionale? Documenti top secret? Ti prego, dimmi che non te la sei bevuta sul serio.»

    Tiero continuava a fissarlo, spiazzato.

    Dani scosse il capo.

    «Allora, andiamo con ordine. Primo: secondo te un cretino qualunque può venire in possesso di documenti riservati solo perché un impiegato sbaglia un indirizzo mail? Documenti segreti che parlano di emergenza sanitaria nazionale? E poi, una volta scoperte informazioni del genere, roba che scotta, la nostra gola profonda le va a raccontare al primo pirla che gli offre da bere? Cioè, invece di cercare di venderle al Corriere della Sera o a Fabrizio Corona, spiattella tutto a te, mentre vi fumate un tonno su una panchina? Ti rendi conto di quello che dici?»

    «Fabrizio Corona è caduto in disgrazia, nel caso non lo sapessi. E anche io scrivo per dei giornali.»

    Dani spalancò gli occhi platealmente.

    «Oh, già, scusa. E a chi pensi di proporre lo scoop? A Padania Libera oppure al Gazzettino degli sfigati

    Gualtiero serrò le labbra, incazzato. Il cameriere si avvicinò di nuovo al tavolo, indicando il bicchiere di birra vuoto di fronte a Dani.

    «Un’altra?»

    Dani sorrise.

    «Sì, un’altla per favore.»

    Paolo, Chan, Vattelapesca schizzò via annuendo.

    «Secondo te», disse Gualtiero, con il tono di un insegnante di sostegno che si rivolge a un alunno ritardato, «non ho controllato, prima di iniziare a farmi delle seghe?»

    Dani rise di nuovo.

    «Ah sì? Controllato cosa? Ti sei infiltrato nei computer dell’esercito? Sei andato a Torrelupo a vedere di persona?»

    Gualtiero rimase impassibile.

    «Proprio così», disse. «Sono andato a vedere.»

    Dani smise di ridere.

    «Che cazzo dici?»

    Tiero incrociò le braccia sul pancione.

    «Ci sono stato l’altro ieri. Mi sono avvicinato in macchina fino a che ho potuto. Le strade che portano a Torrelupo sono tre, e sono davvero interrotte. Posti di blocco dei carabinieri, con tanto di transenne, cartelli e mitra spianati. Ho fatto il pellegrino sprovveduto alla ricerca della via Francigena, mi sono fermato ad uno dei blocchi e ho chiesto informazioni. I carabinieri non sanno un cazzo, ma mi hanno fatto capire che se provi a passare ti arrestano senza fare complimenti. Allora sono tornato indietro, ho lasciato la macchina in una stradina e ho fatto il giro largo a piedi. C’è un bosco, da quelle parti, che costeggia tutta la provinciale. Mi sono trasformato in una giovane marmotta e mi son messo a scarpinare fino al confine del paese. Una gran rottura di palle, avrò camminato per mezz’ora.»

    L’espressione di Gualtiero, nonostante gli occhi tirati a lucido dall’alcol, era seria. A Dani la storia sembrava un po’ meno divertente, adesso; il suo amico era un coglione, poco ma sicuro, ma non un bugiardo.

    «Cos’hai visto?» gli domandò, ora con una punta di eccitazione.

    Tiero si sporse in avanti sul tavolo.

    «Soldati. Tanti soldati, Dani. Nel bosco. Erano schierati in formazione da combattimento, e parlavano inglese. Non era l’esercito italiano, capisci? Ma la cosa che mi fa sospettare che il problema di Torrelupo non sia una falda acquifera inquinata, è che erano tutti armati. Pesantemente armati. Fucili da guerra, mi segui? E non indossavano l’uniforme, ma delle tute di plastica tipo quelle che vedi in televisione quando trasmettono i filmati degli incidenti nucleari o sulla SARS.» Tirò su col naso e vuotò il bicchiere di Negroni, ruttando silenziosamente. «Con tanto di fottute maschere antigas.»

    Dani sentì un brivido sulla schiena. La voglia di ridere gli era passata del tutto.

    «Be’, forse è la procedura», ipotizzò. «Immagino che se c’è il rischio di un’infezione…»

    «Non dire cazzate. Quei fenomeni imbracciavano artiglieria pesante, fucili da combattimento. Li ho visti con i miei occhi. Non mi sono avvicinato di più, perché mi stavo cagando addosso. Non so cosa sarebbe potuto succedere, se mi avessero visto. Secondo te c’è bisogno dei marines per proteggere un paesino di merda dove la gente si è beccata la diarrea da un pozzo inquinato? Questa è roba grossa, per la miseria.»

    Dani restò in silenzio. Gualtiero fissava il bicchiere vuoto con gli occhi stretti, come se cercasse di riempirlo con il pensiero.

    «Mio cugino è un imbecille», disse, «ma ha anche paura della sua ombra. Mi ha telefonato già dieci volte per assicurarsi che non parlassi di questa storia con nessuno. Non vuole casini. Mi ha detto la verità, puoi scommetterci il tuo bel negozio di dischi. Questo è un casino grande come il Duomo di Milano, altro che scherzo.»

    Dani sentiva la gola secca, come se avesse ingoiato della sabbia.

    Era confuso.

    Emergenza sanitaria. Emergenza sanitaria nazionale. Con tanto di tentativo di insabbiamento da parte del governo italiano, in combutta con gli Stati Uniti. Il trionfo della teoria complottistica. Non esattamente la notizia che potevi aspettarti da uno come Gualtiero Volpi ad un aperitivo, insomma.

    Tuttavia, più Dani ci ragionava e più gli sembrava una stronzata.

    «Se davvero c’è in ballo un’emergenza sanitaria, perché non ne parlano in televisione?»

    Gualtiero fece un gesto spazientito, agitandosi sulla sedia come un lamantino su uno scoglio.

    «Oh, cazzo Dani. Cos’hai, dieci anni? Non le vedi le serie su Netflix? In Italia ci caghiamo ancora addosso perché crediamo che gli immigrati portino la malaria, figurati se domani al TG5 qualcuno raccontasse che l’esercito degli Stati Uniti ha sequestrato

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