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Leggende Maya e Azteche
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E-book187 pagine2 ore

Leggende Maya e Azteche

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Info su questo ebook

Fin dai tempi antichi l’immaginazione dell’uomo ha creato storie che, nel tempo, sono diventate vere opere letterarie. Così il leggendario, a poco a poco enfatizzato, sfumato ed abbellito, diventa quasi sempre una storia soprannaturale o storica perché miti e leggende non sono altro che deformazioni della storia.
Se analizziamo la storia dei popoli, scopriamo che tutti in profondità hanno come radice un principio di leggenda.
Tutti i nostri monumenti, rovine, eroi e guerrieri, nei nostri fiori e uccelli, fiumi e laghi, catene montuose e vulcani si nasconde una leggenda che scorre semplice, sensibile e ingenua come l’anima di questi popoli.

INDICE
Introduzione di Marco Grassano
Le voci costanti dell’immaginario
Citkactli (stella)
Tlacahxóchitl fior di verga (tulipano)
Atliztaxóchitl fior bianco (aro)
Huapactzin (signore vigoroso)
Coyolxóchitl (fior di palma)
La dolce morte
Axóchitl fiore d’acqua (ninfea alba)
Tochtli (il suo coniglio)
Macuilxóchitl Cempoalxóchitl-venti petali (petali)
Cochteca fiore del sonno (papavero)
Xicóatl (stella errante)
Macpaxóchitl (fiore di piccolo mano)
La bimba del colle dei cipressi
Mucuy (tortora)
Kay Nicté (canto al fiore)
Gli ingannatori
Maquech (sei uomo)
Il principe Kuk
Sac Nicté (bianco fiore)
Xtucumbì-Xumán (signora nascosta) 
La ribelle
L’impresa dell’uccello falegname Nicté-Há (fior di loto)
Principe Pappagallo
Il miracolo degli dèi
Calahuit Pon (incenso degli dèi)
Jaina l’immortale 
LinguaItaliano
Data di uscita24 set 2020
ISBN9788874132775
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    Anteprima del libro

    Leggende Maya e Azteche - Otilia Meza

    Otilia Meza

    Leggende

    Maya e Azteche

    Introduzione e cura

    Marco Grassano

    Franco Muzzio Editore

    I edizione cartacea in questa nuova collana Settembre 2020

    I edizione digitale Settembre 2020

    © 2020 Franco Muzzio editore – Roma

    di Gruppo Editoriale Italiano srl – Roma

    Titolo originale dell’opera:

    Leyendas Mexicas y Mayas

    Traduzione di Matteo Ghislieri

    L’autore dell’immagine di copertina è © Gonzalo Kenny

    ISBN 978-88-7413-277-5

    www.francomuzzioeditore.com

    Tutti i diritti sono riservati

    È vietata la riproduzione, anche parziale o ad uso interno o didattico,con qualsiasi mezzo effettuata, non autorizzata.

    Ebook della Collana Parola di Fiaba

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    • Carrara L., Elfi e streghe di Scozia. (2019)

    • Carrara L., Fiabe inglesi di spettri e magie. (2019)

    • Carrara L., De Marco C., Saghe e leggende irlandesi. (2019)

    • Del Mare C., Fiabe e leggende della Malesia. (2020)

    • Meli F., Miti e leggende degli indiani d'America. (2020)

    • Meza O., Leggende Maya e Azteche. (2020)

    Introduzione

    Le voci costanti dell’immaginario

    A prima vista, le pagine che seguono sembrano giungerci da una lontananza abissale, di là da oceani di spazio e di tempo per varcare i quali le vecchie leggende azteche e maya hanno dovuto essere compresse, trasfuse a forza entro la gabbia linguistica del castigliano, risultandoci affatto insolite ma acquistando, grazie a questa vaga coloritura di civiltà remota, un ricco spessore metaforico che rende suggestive le fratture, le sconnessioni tra quei miti e la nostra quotidianità. Lo sfarzo immaginifico dispiegato nelle descrizioni, la pregnanza semantica degli appellativi, persino la commovente crudeltà dei sacrifici umani ci parlano con la poetica, innocente freschezza delle cose nuove, distanti, sconosciute.

    In realtà, molte delle favolose occasioni narrate sono collocabili – da alcuni minimi particolari storici ritenuti in esse – nel XVI secolo della nostra èra, e anche l’assoluta estraneità di certi procedimenti narrativi o di certe convenzioni comportamentali ci pare meno drastica se la osserviamo tenendo presenti le radici della nostra solida e rassicurante cultura occidentale.

    Così l’espediente di attribuire ai personaggi femminili nomi propri mutuati da specie biologiche di particolare bellezza era già ben noto ai tempi di Omero (Penelope, ad esempio, significava anatra mandarina – in greco, penélops); la trasformazione salvifica dei protagonisti sfortunati in piante o animali era pure una costante di molti miti greci, antologizzati e versificati – in epoca romana – dal diligente compilatore Ovidio.

    Anche la crudezza dei riti votivi aventi per vittime esseri umani non è estranea alla civiltà greco-ebraicocristiana. Certo, gli olocausti compiuti nell’Iliade e nell’Odissea in onore degli dèi – e, nella Bibbia, di Jahveh – riguardano animali, ma alcune storie, alcune parentesi più antiche, rimaste inglobate nei testi così come ci sono pervenuti, denotano che i sacrifici umani dovevano essere, all’inizio dell’evoluzione sociale, una prassi religiosa diffusissima, nella quale si immolava alla figura divina – per ingraziarsela – un membro della comunità affinché tutti gli altri ne ricevessero benefici, oppure si punivano in alcuni individui le colpe di una collettività. Così, nell’Iliade (libro XXIII, versi 161 e sgg.), Achille dispone sul tumulo di Patroclo «dodici nobili figli di illustri Troiani, che uccise egli stesso»; così (soppressione catartica del singolo per il bene comune) va letta la crocifissione di Gesù, seppure in un contesto di simbolizzazione arcaico (poiché all’epoca della sua nascita le reali vittime nel tempio di Gerusalemme erano tortore, capretti o al massimo tori).

    A quest’ultimo proposito, vale la pena di notare quanto simili a quelle della liturgia cristiana (dai Salmi alla celebrazione eucaristica) siano le parole della preghiera contenuta nella leggenda Huapactzin: «I cieli e la terra vogliono rallegrarsi perché avranno un banchetto di sangue e carne degli uomini [...], perché certamente per questo ci inviasti sulla Terra, perché il nostro sangue e la nostra carne fossero offerti come cibo al Sole. [...] Invisibile e implacabile tu sei [Signore], così come la notte e l’aria; ti supplichiamo in questo giorno, ché tu ci difenda contro il fumo e la nebbia della tua collera, e tenga spento sempre il fuoco inceneritore della tua ira...».

    Insomma, incurante delle latitudini e delle longitudini, l’immaginario collettivo umano sembra nutrirsi, nelle corrispondenti fasi di sviluppo delle varie civiltà, di analoghe figure simboliche e rituali – sempre le stesse. Lo spagnolo da cui sono stati tradotti questi racconti popolari era alquanto arduo: sintatticamente lacunoso, irto di termini indigeni, con flora e fauna centroamericane spesso forzatamente (e imperfettamente) ricondotte a una terminologia europea.

    Grazie allo sforzo di ricostruzione linguistica e di precisione lessicale compiuto dall’ottimo Matteo Ghislieri, grazie alle sue note sintetiche e accurate, ora possiamo gustare il testo quasi con la stessa competenza (se non con lo stesso orizzonte d’attesa) dei fruitori iniziali: decisamente, non potevamo chiedere di più.

    Marco Grassano

    Citlactli

    (

    stella

    )

    Nella gran sala del guerriero Xiuhtómatl (pomodoro blu) molto stimato dall’imperatore meshica ¹, si trovava riunita in numero considerevole la casta dei guerrieri: i cavalieri Tigre e i cavalieri Aquila. Il bel palazzo del nobile signore era situato a sud della gran Tenochtitlán ², molto vicino a dove iniziava la strada maestra di Iztapalapa (luogo nell’acqua salata), quella che conduceva ai muri pietrosi del Forte di Xóloc (gemelli).

    Quel giorno era l’ultimo di una serie di festeggiamenti organizzati dal nobile guerriero per il successo ottenuto nella sua ultima campagna bellica. Tra gli invitati si trovava il principe Catzintli, Signore di Cuetzalan, che il giorno precedente era presente quando, dopo la danza della vittoria, i prigionieri erano stati obbligati a ballare fino alla morte, mentre i vincitori lanciavano grida di giubilo e si lasciavano andare a ogni sorta di eccessi.

    E quella notte, dopo il lauto banchetto, il guerriero Xiuhtómatl serbava una gradita sorpresa ai suoi invitati che, comodamente seduti in icpalli (sedili), sui quali erano stati collocati soffici cuscini e stese ai loro piedi belle pelli di serico pellame, attendevano ansiosi ciò che tanto misteriosamente aveva fatto loro intuire l’anfitrione. La dimora era stata illuminata generosamente con tede³ accese; il pavimento ricoperto di morbide stuoie, cosparso di petali di fiori, con piccoli bracieri strategicamente disposti, che emanavano soavi aromi e delicati profumi. Non tardarono a sentirsi i flauti e il mormorio delicato di voci con accompagnamento del suono di vari tamburelli.

    D’improvviso, come in un sogno, apparve Acasuco (fiore d’acacia). Camminava lentamente tra la nebbia dei profumi e d’incenso: era leggiadra, di linee armoniose, senza altri indumenti che gli anelli ai piedi, i braccialetti alle braccia e la corona di fiori sul capo.

    Nella sala del guerriero Xiuhtómatl si fece silenzio. Rimase immobile al centro del tappeto di fiori; sembrava una figura di argilla, una dea; poi iniziò a muoversi e, a dondolarsi e la cascata della sua nera chioma e le sue braccia parevano implorare amore, le sue mani si contorcevano angustiate, il suo corpo di fiore rabbrividiva, s’agitava, i suoi seni tremavano, mentre il suo ventre prendeva la forma di un’anfora.

    Gli uomini cominciarono a respirare agitati; la musica si fece lasciva, e i piedi di Acasuco si muovevano per il ritmo coinvolgente.

    La donna si avvicinò al guerriero Xiuhtómatl e lo provocò con modi seducenti, per poi gettargli in volto i petali imprigionati nella sua chioma, provocando le grida degli invitati, e dirigendosi poi verso i signori più importanti, che eccitava con i suoi movimenti sensuali. Acasuco, come chiusura della sua danza, tutta si ripiegava, sussultava sotto l’influsso di invisibili carezze, e frenetica, ansante, frementi i seni e palpitante il ventre, percorse tutta la sala per scomparire dietro il fumo dei piccoli bracieri.

    Quando molti degli invitati cercarono di seguirla, apparve un gruppo di graziose auianime (donne di piacere) con i torsi scoperti per la gioia dei presenti, e le belle donne non tardarono a sedersi sulle ginocchia o al fianco dei commensali.

    Tutti i presenti bevevano felici e contenti. La musica proseguì discreta e soave e le belle maqui misero impegno nel dar piacere agli invitati del gran signore. E mentre l’allegria andò culminando in orgia generale, Acasuco si rifugiò nel giardino della casa del guerriero meshica.

    Il giardino era bello, pieno di alberi fioriti, pieno di edere, di rumori di fontane, di spazi infiorati, di maschere di pietra e legno che raffiguravano animali e donne lascive, di rivoli d’acqua corrente e piccole cascate bordate di gigantesche felci e grandi foglie: Acasuco giunta sin lì, dietro un gruppo di belle dalie, si mise a piangere.

    Il principe Catzintli, desideroso di aria fresca, aveva lasciato con discrezione la sala dell’orgia cercando la frescura e il silenzio del giardino, nell’ascoltare i singhiozzi si fermò. La città era quieta e immersa nella notte. Immobile guardò nel profondo del giardino e da lì venne un altro singhiozzo.

    Il principe Catzintli con cautela e senza rumore si avvicinò al gruppo di dalie fiorite da dove proveniva il singhiozzo, e lì scoprì la concubina del guerriero anfitrione, la bella Acasuco, ancora nuda, in ginocchio sulla terra umida, con la testa reclinata in atteggiamento di infinita tristezza.

    Commosso dal suo dolore, il principe Catzintli pose dolcemente le proprie mani sulla chioma sciolta dalle tinte d’ombra. La donna smise di piangere alzando il viso bagnato di lacrime, e, nel vedere la serena espressione del giovane, non pronunciò parola.

    Ma il principe Catzintli, scostando con tenerezza i capelli dal bel viso di Acasuco, le disse: L’uomo di buoni natali non può essere indifferente al pianto di una donna. Sia quale che sia la tua pena il mio cuore desidera mitigare la tua afflizione.

    Piango perché il mio destino è crudele, nobile signore. Come non piangere se ho appena sedici anni e la morte mi aspetta?!

    Perché dici la morte?

    "Io vengo dal cihuacalli (casa delle donne destinate alla prostituzione). Il guerriero Xiuhtómatl, dopo una vittoria, venne a chiedermi alle tenutarie di quella casa e, durante la notte, per evitare lo scandalo e l’indiscrezione, fui portata fino alla sua casa, per essere ripresa all’alba. Io ero il premio al suo valore! Ma questa ricompensa ai suoi meriti guerreschi si ripeté varie volte fino a che un giorno pretese dal cihuacalli di vivere con me per diversi mesi, ormai come sua concubina vera e propria."

    E per questo piangi?

    No, signore, piango perché è giunto il giorno in cui stanco della mia presenza mi ha destinata al sacrificio. Ma perché, avendo tante giovani belle in questa casa, scelse te? "Egli andava frequentemente al cihuacalli ad assistere ai balli licenziosi."

    E come giungesti a quel luogo?

    "Sono la figlia del principe Teniztli, signore di Cempoala. Nella guerra che il mio popolo combatté contro i meshicas quasi tutti quelli della mia razza furono uccisi o fatti prigionieri; quasi scomparvero i nostri guerrieri, rasi al suolo i nostri villaggi e le donne giovani e belle portate via come bottino di guerra, destinate alla prostituzione. Fu così che, giovane e graziosa, oltre che di sangue reale, mi rinchiusero nel cihuacalli. Lì mi cambiarono il nome: non sarei più stata Acasuco (fiore d’acacia) ma Citlactli (stella). Lì mi insegnarono la musica, il ballo, il canto. Lì mi obbligarono ad adorare la dea Xochiquetzalli (dea dell’amore) come nostra protettrice, e Tlazolteotl (dea degli amori impuri); e non fui più l’onesta e virtuosa principessa totonaca, bensì una auianime, una maqui chiamata Citlactli, esperta in balli licenziosi come il cosiddetto cuecuehcuicatl (ballo del solletico o prurito) o il cosiddetto cuicayan (le donne allegre). Non ti immagini, principe, come piansi per giorni e per mesi. Mi battevano, non mi davano cibo né acqua. Io non volevo apprendere oscenità, io non volevo ballare nuda, ma il destino mi piegò, ora sono esperta, tu l’hai visto. Nessuno è meglio di me nell’imitare il movimento dei fiori e degli animali, nessuno è meglio di me nell’esaltare i desideri".

    Il principe Catzintli, ascoltandola, restò sconcertato. Là, nella sala del guerriero Xiuhtómatl, proseguiva l’orgia. Nel giardino circondato di ombre e misteri, c’erano lui e lei. Lei, che sapientemente aveva sfrenato i cattivi istinti degli invitati del nobile anfitrione, gli faceva palpitare forte il cuore, e il suo sangue ardeva come un fuoco e gli eccitava i sensi, così che prendendola per mano dolcemente le disse: Vieni, andiamo al mio villaggio.

    E in silenzio, con cautela, lasciarono il giardino del palazzo del guerriero tanto stimato dal monarca meshica.

    All’albeggiare, in lettighe coperte che sei tamenes (portatori) sorreggevano, il principe Catzintli accompagnato da una bella donna riccamente vestita, partì. La comitiva prese per la strada selciata di Tepeyacac – via che conduceva a Tenochtitlán dalla costa, passando per Tepeyacac – che era molto frequentata essendo giorni di tianquiztli (mercato)⁴.

    La giovane coppia continuamente incontrava molti viandanti che portavano la loro mercanzia al grande centro commerciale.

    Uomini umili che caricavano ceste piene di pesce, fiori, verdure, legna, uccelli, mantelli, vassoi, animali da caccia, stuoie e alberi fioriti. Ma, per la strada, transitavano anche importanti signori accompagnati dal loro seguito, da medio-alto lignaggio circondati di schiave, e sacerdoti e discepoli, che nel vedere la fierezza del principe Catzintli e la bellezza di Acasuco sorridevano affettuosi, mentre gli umili si inchinavano rispettosamente davanti a loro.

    E il principe di Cuetzalan, per amore di Acasuco, percorrendo la strada di Cempoala si dirigeva verso la regione della sua amata, allontanandosi dalla bella Tenochtitlán, la città addormentata tra cerchi di smeraldo. Andavano i

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