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Le Streghe
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Le Streghe
E-book368 pagine11 ore

Le Streghe

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Info su questo ebook

Le streghe esistono, e si svegliano al calar delle tenebre.

Questo è quello che si racconta a Bellula, un piccolo borgo del Monferrato dove i bambini scompaiono nel nulla. Gli abitanti del paese sono convinti che le sparizioni siano legate ad una strega leggendaria, che da quelle parti chiamano la Masca. Dicono che si nasconda in un bosco, accanto ad una vecchia chiesa sconsacrata che fu teatro di un orribile crimine, commesso dall'inquisizione romana secoli addietro. Una leggenda, appunto.

O forse no?

Tre uomini, convocati a Bellula da uno studioso deciso a far luce sul mistero, si metteranno sulle tracce della fantomatica Masca, in cerca della verità. Che a volte, scopriranno, può essere molto più pericolosa di qualsiasi mito.

Violento e pauroso, scritto in uno stile pulp che rimanda ai fasti passati del genere horror più sfrontato, Le streghe vi condurrà indifesi nel cuore dell’oscurità.

Lì, dove il buio ha i denti e gli artigli. Ed è affamato.

LinguaItaliano
Data di uscita31 ott 2018
ISBN9788869344862
Le Streghe
Autore

Paolo Prevedoni

Paolo Prevedoni nasce ad Alessandria, nel 1981. È un grande appassionato di cinema horror, di Stephen King, di Dylan Dog e dei Nirvana. Per Bibliotheka Edizioni ha pubblicato il fortunato esordio Una storia dell'orrore italiana, seguito da Le streghe e La notte delle anime perdute. Vive e lavora in una cittadina della provincia padana, fuma Chesterfield e non mangia carne.

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    Anteprima del libro

    Le Streghe - Paolo Prevedoni

    Paolo Prevedoni

    Le Streghe

    Horror

    © Bibliotheka Edizioni

    Via Val d’Aosta 18, 00141 Roma

    tel: +39 06.86390279

    info@bibliotheka.it

    www.bibliotheka.it

    I edizione, ottobre 2018

    Isbn 9788869344862

    È vietata la copia e la pubblicazione, totale o parziale,

    del materiale se non a fronte di esplicita autorizzazione scritta

    dell’editore e con citazione esplicita della fonte.

    Tutti i diritti sono riservati.

    Disegno di copertina: Paolo Niutta

    www.capselling.it

    Paolo Prevedoni

    Paolo Prevedoni nasce ad Alessandria, nel 1981. Fan estremo di Stephen King, Dylan Dog e dei Nirvana, è anche un consumatore compulsivo di film horror di serie B. Vive e lavora in una cittadina della provincia padana, fuma Chesterfield e non mangia carne.

    Ha esordito nel 2017 con Una storia dell’orrore italiana, pubblicato da Bibliotheka Edizioni.

    Le streghe è il suo secondo romanzo.

    La strega. La Masca. L’Ombra. La Sposa del Diavolo. In qualsiasi modo la vogliate chiamare, non importa. È sempre lei. Da secoli si nasconde nel bosco accanto alla vecchia chiesa, sugli alberi, scegliendo le sue vittime mentre osserva il paese con i suoi occhi rossi. Osserva e aspetta, paziente. Osserva, e aspetta il calar delle tenebre.

    Questo incubo è per i miei genitori.

    Dopotutto, loro sono il mio muro delle meraviglie.

    Nota dell’autore

    Prima di iniziare a raccontare questa strana storia, vorrei fare qualche noiosa precisazione.

    Innanzitutto mi piacerebbe spendere due parole sullo sciamanesimo, trattato in queste pagine con colpevole superficialità. Sarò breve: si tratta di una realtà ben più vasta di quel che traspare dal mio racconto, e temo che per rendere giustizia a questa disciplina spirituale (tra le più antiche al mondo) sarei costretto a scrivere un altro libro. Grazie a Dio io sono solo un cantastorie dell’orrore, quindi confido che verrò perdonato per aver banalmente adattato la figura dello sciamano – nel modo più rapido e semplice – a quella di una sorta di sensitivo. Non è propriamente corretto, lo ammetto, ma il mio compito a volte è anche quello di raccontare bugie.

    Per l’appunto: Bellula e Gravavilla, sebbene ispirati a luoghi di mia conoscenza, non esistono, esattamente come non sono reali i personaggi che si muovono in questa folle vicenda. Tutto ciò che accade, compreso ogni riferimento a persone esistenti o esistite, è puramente frutto dell’immaginazione dell’autore.

    Neppure le streghe sono vere, e su questo suppongo non ci siano dubbi. Io, personalmente, so benissimo che non esistono.

    Tuttavia ci credo.

    E, detto sinceramente, penso che anche voi dovreste fare altrettanto.

    P.P.

    Epigrafe

    «Hai paura del buio?»

    «No. Ho paura di quello che c’è dentro il buio.»

    Dolls (1987) – Stuart Gordon

    «Vede, si può benissimo ridere di tutte queste cose, anche della magia.

    Comunque sappia che la magia è quoddam ubique, quoddam semper, quoddam ab omnibus creditum est. Che significa: la magia è quella cosa che ovunque, sempre e da tutti è creduta.»

    Suspiria (1977) – Dario Argento

    Prologo

    Al calar delle tenebre

    Le streghe esistono, e si svegliano al calar delle tenebre.

    Questo, perlomeno, è quello che si dice a Bellula, un curioso borgo nascosto da qualche parte in mezzo alle colline del Monferrato.

    Il paese conta all’incirca cinquecento abitanti e quasi tutti, per quanto possa apparire bizzarro, alle streghe ci credono per davvero.

    La leggenda racconta che a Bellula, tanto tempo fa, le streghe le bruciavano.

    Erano anni bui, e accaddero molte cose brutte e molte cose strane; da queste parti li ricordano come gli anni delle ombre.

    Tempi bui, appunto.

    Pensate che qualcuno, in epoca più recente, ha anche tentato di sfruttare quelle vecchie storie per veder di tirar su qualche quattrino, inventandosi le cazzate più improbabili. La taverna nella piccola piazza principale, per fare un esempio, si chiama Osteria della Fattucchiera, e sull’insegna è stata dipinta la sagoma di una figura con un cappello a punta a cavalcioni di una scopa. Non che la trovata abbia aumentato la clientela, sia chiaro, perché di turisti qui non se ne vedono mai.

    Poi ci sono i cartelli, nelle strette vie ciottolate che attraversano il paese, che indicano la direzione per raggiungere luoghi dai nomi stravaganti come l’albero nero o il sentiero del diavolo, e nel piccolo supermercato del borgo un intero scaffale è dedicato alle candele e agli incensi, consigliati per purificare le abitazioni e tenere lontani gli spiriti maligni.

    Fino a che punto si tratti di folclore paesano o radicata superstizione non sta a me (e, suppongo, neppure a voi) giudicare, ma quando d’autunno la nebbia sale sulla brughiera e il sole cala sui boschi silenziosi, gli abitanti del borgo si guardano bene dall’uscire di casa.

    Dunque, a Bellula, le streghe esistono.

    Il giorno in cui Scheggia si perse nel bosco, pure lui cominciò a crederci. Ma non come credeva in Dio, negli alieni o alle réclame che vedeva alla televisione, quelle contro la caduta dei capelli o che promettevano perdite di peso miracolose.

    Cominciò a credere alle streghe semplicemente perché ne vide una.

    Questo almeno è quello che sostiene lui.

    Il suo racconto cambia spesso, soprattutto quando Scheggia esagera con il vino della cantina sociale, che ha il colore dell’acqua di stagno e una gradazione alcolica superiore a quella stampata sull’etichetta, ma alcuni dettagli, al contrario, sono sempre così precisi da far dubitare anche il pubblico più scettico che quel povero rincoglionito possa davvero essersi inventato tutto. E poco importa se non è mai più riuscito a ritrovare la strada, quella che a detta sua conduce alla casa con i mattoni neri e tutti quei simboli strani sui muri. Lui sostiene di esserci stato.

    Lui dice di averla vista, l’Ombra.

    Già, l’Ombra.

    Anche la storia dell’Ombra è solo una leggenda – e d’altronde non potrebbe essere altrimenti – ma un giorno un uomo, che per mestiere andava a caccia di incubi, ne sentì parlare e decise che voleva saperne di più.

    Quello che sarebbe accaduto in seguito, quando questo cacciatore e altri due personaggi che avevano i loro buoni motivi giunsero a Bellula, è la storia che sto per raccontare. Voglio essere sincero: è una strana storia.

    Ma non è forse meglio cominciare dal principio?

    A Bellula pioveva sempre.

    Tra i tanti soprannomi che la gente dei dintorni aveva dato al paese c’era infatti anche bassin, che nel dialetto locale vuol dire catino. Le nuvole si addensavano, gonfie e minacciose, anche quando a pochi chilometri di distanza splendeva un sole cocente. A Bellula c’erano abituati.

    Persino in quel giorno di inizio estate una pioggia insistente cadeva sul borgo, scivolando sul porfido dei vicoli per poi riversarsi nei tombini intasati e nei fossi, che nessuno puliva mai. Non erano neppure le quattro del pomeriggio, ma il cielo era così coperto che sembrava sera fatta.

    L’insegna del Covo, l’unico bar del paese, era già illuminata.

    All’interno, seduto ad uno dei tavoli di legno, Scheggia incrociò le braccia, piantando gli occhi dritti in quelli dell’uomo di fronte a lui.

    «Lei mi ha offerto dei soldi», disse.

    Forse non era la maniera migliore per iniziare una conversazione, ma Scheggia non era una persona educata. Né, tantomeno, gli interessava esserlo.

    Il suo interlocutore, dall’aspetto curato e con indosso un bel vestito grigio, si sfilò il portafoglio dalla giacca, tirò fuori un biglietto da cinquanta euro e lo posò sul tavolo.

    «Ne potrà avere altrettanti quando mi avrà raccontato tutta la storia», disse l’uomo. «E dopo che mi avrà firmato una liberatoria.»

    Scheggia afferrò i soldi come se si aspettasse di vederli scappare e li mise al sicuro in una tasca dei calzoni logori. Prese la caraffa del vino e si versò un bicchiere, riempendolo sino all’orlo.

    «Da dove comincio?»

    L’uomo con il bell’abito alzò le spalle. Aveva detto di essere un giornalista, o qualcosa del genere.

    «Dall’inizio direi. Di solito funziona così.»

    Scheggia assaggiò appena il vino, increspò le labbra e poi buttò giù il resto in un sol sorso. Osservò quello strano tizio: era giovane, sui trent’anni, e aveva il volto abbronzato e la pelle liscia. I capelli castani erano tagliati corti e pettinati con cura.

    Gli occhi però, scuri come biglie di carbone, non erano sinceri.

    Scheggia lo sapeva riconoscere al volo, era una specie di dono: gli bastava uno sguardo per capire le persone.

    Quelli dell’uomo di fronte a lui, erano senza dubbio gli occhi di un bugiardo.

    «Dall’inizio, si capisce. Lei cosa sa?»

    «Poco o nulla. Aspetti un momento.»

    L’uomo tirò fuori dalla tasca della giacca una videocamera GoPro, la accese e la piazzò sul tavolo.

    «Quella a cosa serve?»

    «Preferisco registrare la nostra chiacchierata. Non ho una buona memoria.»

    Scheggia voltò lo sguardò, grattandosi una pustola sul naso arrossato.

    Dalle finestre verniciate con smalto colorato, che assomigliavano alle vetrate di una chiesa, non filtrava alcuna luce; il locale era illuminato da lampade giallastre che pendevano dal soffitto. La pioggia, fuori, scrosciava incessante.

    «Cosa vuole sapere?»

    «Vorrei che raccontasse anche a me quello che ha visto. O, perlomeno, quello che tutti da queste parti dicono che lei ha visto.»

    Scheggia fece una risatina roca.

    «Sicuro. E secondo questi tutti cosa avrei visto, io?»

    L’uomo di fronte a lui, che si chiamava Morgan Villa, sorrise.

    «Una strega, ovviamente.»

    Bellula era un paese piccolo, ignorato dal resto del mondo.

    Qualcuno a volte ci finiva per caso, ma difficilmente vi si fermava, se non per un caffè e una pisciata al Covo.

    Bruno Scheggiato, che tutti da quelle parti chiamavano Scheggia, era nato lì e di sicuro ci sarebbe anche morto.

    Non usciva mai dal borgo se non per recarsi alla pizzeria di suo cugino, trecento metri oltre il cartello che segnava il confine del paese, dove lavorava come cameriere da più di quanto gli riuscisse di ricordare.

    «Lei è un giornalista, ho capito bene?»

    Morgan Villa alzò le spalle.

    «Più o meno.»

    «Più o meno. E lo sa, signor più o meno giornalista, come lo chiamano questo paese del cavolo?»

    «In tante maniere. Quella che preferisco è la casa della Masca.»

    Scheggia sorrise, esibendo una fila di denti a cui non avrebbe fatto male una sistemata.

    «La Masca, appunto. La Masca, l’Ombra, la Sposa del diavolo. Le hanno dato tanti nomi. È una leggenda vecchia di secoli, lo sapeva?»

    Morgan sospirò. Non si trovava lì per sentire una storia che già conosceva.

    «Certo. Gli anni delle ombre e il processo di San Giovanni. L’inquisizione romana bruciò dodici presunte streghe nel bosco accanto alla vecchia chiesa del paese.»

    Scheggia annuì. Versò il vino che restava nella caraffa dentro il bicchiere e bevve, di nuovo in un sol sorso. Un torpore familiare gli fece pizzicare la lingua.

    «Tredici.»

    «Come?»

    «Le streghe erano tredici.»

    «È vero, ma una riuscì a scappare. L’ho letto su internet.»

    Scheggia tirò su col naso, producendo un rumore disgustoso.

    «Su internet, sicuro. Certo che nei computer oggi si trova proprio di tutto. A me l’ha raccontata mia nonna, quella storia. Gli anni delle ombre! Qui a Bellula ci credono tutti.»

    «È probabile che sia accaduto veramente. Il processo, dico. Erano tempi bui.»

    «Anche questi lo sono.»

    «Per altri motivi. Ora, se potessimo tornare a…»

    «Tredici, dicevo. Le streghe erano tredici.»

    «Appunto. Ma una riuscì a scappare.» Morgan frugò nella tasca della giacca e tirò fuori una sigaretta elettronica. «Fin qui ci sono.»

    Scheggia fece un cenno al barista dietro il bancone.

    «Guido! Portami un’altra caraffa!»

    Morgan aspirò dal tubicino di metallo, sbuffando un vapore denso. Il profumo di menta si mescolò con l’odore di disinfettante che impregnava il bar.

    «Vada avanti, per piacere.»

    «Sì, sì, tranquillo. Cos’è, signor più o meno giornalista? Ha paura che sia qui per fregarle cinquanta euro?»

    «No, solo che vorrei…»

    «Sì, sì, tranquillo. Le dicevo della tredicesima. A lei non l’hanno mai presa.» Fece un sorriso malizioso. «Lo so per certo, perché l’ho vista.»

    Guido, il proprietario del Covo, portò al tavolo un’altra caraffa di vino rosso. Morgan Villa pagò, mentre Scheggia si versava l’ennesimo bicchiere.

    «Vuole un goccio di vino?»

    Morgan scosse il capo.

    «No, grazie», disse. Poi fece un sorrisetto. «Le piace bere, eh?»

    Scheggia aggrottò la fronte e strinse gli occhi a fessura.

    «Cos’è? Mi sta dando dell’ubriacone?»

    «Non si offenda, ma questo è quello che mi hanno detto quando ho chiesto di lei in giro.»

    Scheggia puntò l’indice verso Morgan.

    «Mi stia a sentire, signor più o meno giornalista. Se crede che quello che ho visto me l’ha fatto vedere il vino, si sta sbagliando di grosso. A me bere mi fa venire da pisciare, non mi fa vedere le cose.»

    Morgan alzò le mani, in segno di scuse.

    «D’accordo, non se la prenda. Ora coraggio, mi racconti tutto.»

    Scheggia abbassò lo sguardo sulle scritte incise sul tavolo di legno. Insulti razzisti e sfottò calcistici, perlopiù. C’era anche un numero di telefono, che qualcuno aveva cercato di cancellare, a cui secondo quell’annuncio avrebbe risposto una certa succhiatrice di chissà che cosa.

    «È successo qualche anno fa. Io e il Guido, quel tizio che sta dietro il bancone, andiamo a funghi, in autunno. Lui c’ha pure un cane da tartufi, che si chiama Pepe. Porca miseria, ma le sembra un nome da dare a un cane?»

    Morgan Villa non rispose. Scheggia proseguì.

    «Se ne troviamo di buoni l’osteria che sta in piazza ce li paga bene. Ma quell’anno di funghi non se ne vedevano neanche a pregare la Madonna, forse perché aveva fatto troppo freddo. Quel giorno ricordo di essermi addentrato parecchio, nel bosco accanto alla vecchia chiesa.»

    Morgan annuì, facendo un sorriso divertito.

    «Proprio quel bosco, eh? Che coincidenza.»

    «Ehi, guardi che io non sono mica superstizioso. Io mica ci credevo a tutte quelle cazzate che raccontavano i vecchi del paese. Lo sa come lo chiamano quel posto?»

    «No.»

    «Il nascondiglio del diavolo. Ecco come lo chiamano! Ma io c’ero stato un sacco di volte, e non ho mai visto nulla di strano.» Fece una smorfia. «Fino a quel giorno, si capisce.»

    Morgan sbuffò una nuvoletta di vapore. Il nascondiglio del diavolo. Alla gente del paese piaceva appioppare nomi ridicoli a qualsiasi cosa.

    «Cos’è successo, quel giorno?»

    Scheggia rimase in silenzio qualche secondo, fissando ancora il numero inciso sul tavolo. Inciso e poi cancellato.

    «È successo che mi sono perso.» Si grattò la testa, facendo piovere scaglie di forfora sul tavolo. «Non so come accidenti ho fatto, ma mi sono perso.»

    Bevve altro vino, tenendo lo sguardo basso e facendo scorrere il dito sulle incisioni nel legno.

    «Ho trovato un sentiero battuto; mi è sembrato strano, perché al nascondiglio non ci va mai nessuno. Ci sono delle pinete e dei pioppeti, nei dintorni, dove i ragazzi vanno a fare gli scemi con le biciclette o ad accoppiarsi come animali. Ma non lì. La gente c’ha paura di quel posto, lo evita come se fosse una specie di triangolo delle Bermuda.»

    «Bermude.»

    «Eh?»

    «Niente, vada avanti.»

    «Ho seguito il sentiero. Da qualche parte sarei pur sbucato, ho pensato. Le giuro che non ho idea di quanto ho camminato: forse un’ora, forse neanche dieci minuti. La strada era dritta, senza deviazioni.»

    Scheggia alzò gli occhi, fissando il volto di Morgan.

    «C’era un silenzio strano.» Aveva abbassato un po’ la voce, un espediente collaudato che usava tutte le volte che raccontava quella parte della storia. «Niente uccelli, niente insetti. Solo un silenzio… strano.»

    «Continui.»

    «Sì, sì, tranquillo. Gliel’ho detto, non so quanto ho camminato su quel sentiero. Ma poi sono sbucato in una specie di radura.» Si raddrizzò con la schiena sulla sedia. «E l’ho vista.»

    «Che cosa ha visto?»

    Scheggia si massaggiò la fronte. Era ubriaco e gli scappava da pisciare.

    «La casa», disse. «La casa con i mattoni neri.»

    Un gruppetto di ragazzini, fradici nei loro Q-Way, entrò nel bar facendo baccano. Scheggia si voltò di scatto, trasalendo. Morgan succhiò dalla sigaretta elettronica, aspirando il vapore.

    «Vada avanti, per favore», disse. «Ora sono davvero curioso.»

    Scheggia fissò il volto di quell’uomo, che era venuto lì a fare tutte quelle domande. E che non credeva ad una sola delle sue parole.

    «Perché è qui, signor più o meno giornalista?» domandò, biascicando un poco. «Perché vuole sentire la mia storia, se pensa che sono tutte cazzate?»

    Morgan trattenne uno sbadiglio.

    «Non penso affatto che mi stia mentendo.»

    «Oh, sì invece. Lei crede che sono tutte cazzate. Ma io l’ho vista davvero, la casa.» Annuì, stringendo gli occhi. «Una casa vecchia, di mattoni scuri, coperta dal muschio e dai rampicanti selvatici. C’erano degli alberi, tutt’intorno, degli alberi secchi e neri, che la circondavano in un semicerchio talmente perfetto che sembrava disegnato dal Giotto. C’erano dei simboli sui muri della casa, tracciati con un gesso bianco. E poi c’era quel silenzio… strano

    Scheggia vuotò altro vino, ma la mano gli tremava e ne rovesciò un po’ sul tavolo.

    «Cos’è successo, dopo?» domandò Morgan.

    Scheggia chiuse gli occhi. I ragazzini entrati nel bar facevano un chiasso infernale. Sentì un brivido scivolargli dalla nuca lungo la spina dorsale.

    «Volevo andarmene. Volevo solo andarmene da lì. Ma poi la porta si è aperta.» Sospirò. «Si è aperta e ho guardato dentro.»

    E ho avuto paura.

    «E ho avuto paura, signor più o meno giornalista. Ho avuto paura come non ne ho mai avuta in tutta la mia vita.»

    «Cosa c’era dentro la casa?»

    Scheggia tirò su con il naso. Aveva ancora paura. Aveva sempre paura, da quel giorno.

    «C’era l’Ombra», disse, tenendo bassa la voce. «La Masca. Lei e tutti i bambini.»

    Morgan Villa annuì lentamente. I bambini, ovviamente. Perché Bellula non era solo la casa della Masca o il bassin.

    Bellula era anche il paese dei bambini scomparsi.

    «Me la descriva.»

    Scheggia scosse la testa.

    «Non c’è niente da descrivere. Era un’ombra, punto e basta. Ecco perché la chiamano così. Sembrava avvolta in una specie di tunica nera, che la copriva dalla testa ai piedi. Anche i bambini sembravano solo delle ombre.»

    I bambini. I bambini scomparsi di Bellula. Morgan sospirò.

    «E poi? Cos’è successo, dopo?»

    Scheggia bevve avidamente il vino, tenendo gli occhi bassi.

    «Sono scappato», disse, dopo un po’. «Sono scappato e basta.»

    E aveva corso senza fermarsi, senza mai guardare indietro, sino a quando non si era improvvisamente trovato fuori dal bosco. Era quasi buio, ma lui ci era entrato che era primo pomeriggio. Quanto tempo aveva passato lì dentro?

    «Credo di essere stato fortunato, quel giorno», concluse Scheggia. «Quello è un posto malvagio, dia retta a me. E dentro quella casa di mattoni scuri c’era qualcosa che avrebbe potuto divorarmi l’anima.»

    Perché le streghe esistono.

    E si svegliano, al calar delle tenebre.

    Capitolo 1

    Ritorno a casa

    Attraversò il ponte sul fiume e percorse l’ultimo tratto della provinciale. La macchina sobbalzò, superando i binari dove una volta correva la vecchia linea ferroviaria, e subito svoltò a destra, passando di fianco alla stazione abbandonata. Poco più avanti, Alessandro Bosco oltrepassò il cartello di Bellula, rientrando in paese ventinove anni dopo essersene andato.

    La vista delle villette a schiera a ridosso della strada gli fece uno strano effetto. Alessandro era nato in una di quelle case di mattoni, ma non ricordava quale.

    Percorse la via principale, Strada Alluvioni, e superò la piazza di San Giovanni, deserta in quella mattina d’estate. Il cielo era coperto, ma faceva caldo e l’aria era umida e appiccicosa.

    L’automobile attraversò la piazza e imbucò una via stretta che portava fuori dal centro abitato, in un saliscendi di strade collinari lambite dagli alberi. Le villette e le cascine lasciarono spazio ai pioppeti e ai piccoli boschi del Monferrato, che erano tutti uguali.

    Bastarono una manciata di minuti, tra curve strette e asfalto dissestato, per giungere a destinazione.

    L’agriturismo, che si chiamava La Piccola Locanda, stava appena fuori dal paese. Un rustico malandato, circondato dai campi incolti e da una vigna abbandonata. Alessandro parcheggiò l’auto accanto al portico di legno, all’interno del cortile ghiaiato.

    Raccolse dal bagagliaio i due borsoni che si era portato appresso ed entrò dentro quella specie di albergo, l’unico nei pressi del borgo. Bellula, a differenza della maggior parte dei paesi di quella zona, non era esattamente una località turistica.

    L’atrio era piccolo, con le pareti di legno come una baita di montagna. Una vecchia radio appoggiata sulla mensola del camino trasmetteva una canzone dei Ricchi e Poveri, ad un volume troppo alto.

    Dietro il bancone c’era un signore anziano, probabilmente il proprietario della locanda. Alessandro gli mostrò i documenti. Aveva effettuato la prenotazione per telefono.

    Il gestore fece un rapido controllo sul registro.

    «La stanza è al primo piano, la numero tre.» Il vecchio puzzava di aglio e naftalina. Gli consegnò una chiave agganciata ad un portachiavi di metallo grande come un uovo. «Mio figlio le darà una mano con i bagagli.»

    Da una porta sul retro del bancone si affacciò un tizio grasso e con pochi capelli, quarant’anni portati male, che si caricò in spalla uno dei due borsoni e gli fece strada su per le scale.

    «Che ci fa da queste parti, se posso chiedere?» domandò

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